Quali condizioni servono per la internazionalizzazione della ricerca biomedica?

Polo di eccellenza per l’attività di ricerca preclinica, traslazionale e clinica in oncologia che ha un alto numero di pubblicazioni scientifiche di qualità.
L’Istituto nazionale dei tumori di Milano è un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs) le cui finalità sono curare al meglio i pazienti oncologici, fare prevenzione primaria e secondaria e svolgere allo stesso tempo un’attività di ricerca biomedica e clinica per portare l’innovazione dai laboratori direttamente al letto del paziente e viceversa. Attualmente sono in corso più di 600 sperimentazioni cliniche. Fare ricerca in un istituto di questo tipo, con la sua tradizione, la sua storia e la sua forza, vuol dire doversi muoversi non solo su scala locale e nazionale e confrontarsi a livello internazionale in termini di acquisizione di nuove fonti di finanziamento sia pubbliche sia private. Per l’internazionalizzazione della ricerca biomedica pubblica serve quindi mettersi nelle condizioni di essere presenti e competitivi nei grandi network sopranazionali. Inoltre, è necessario essere in grado – ma questo è un obiettivo che deve essere perseguito dalla componente “politica”– di influenzare le scelte e le priorità a livello di Unione europea.
Quali sono gli elementi facilitanti l’internazionalizzazione della ricerca biomedica e quali invece i fattori limitanti?
In un contesto altamente competitivo qual è la ricerca europea, diventa vitale una migliore conoscenza dei meccanismi che possono portare a poter competere – perché di competizione si tratta – per partecipare ai diversi bandi/call e avere le risorse necessarie. Gli elementi facilitanti per diventare degli attori efficaci sono le infrastrutture e le attività di facilitazione che – mettendoci a conoscenza delle opportunità del mercato della “ricerca internazionale” – ci aiutano a conoscere il contesto all’interno del quale muoversi su linee di maggiore appropriatezza per il nostro profilo e per le nostre capacità, in una concezione di economia di scala. Negli ultimi anni il Ministero della salute si è mosso in questa direzione con un progetto triennale, che ho coordinato in prima persona, per attuare delle strategie di internazionalizzazione della ricerca a partire dalla rete dei 49 Irccs all’interno della quale facilitare la condivisione di materiale informativo con uffici di supporto e coordinamento, gruppi di lavoro patologia orientati e trasversali, aumento della capacità di fare lobby in ambito di Unione europea e della presenza italiana nei vari board decisionali europei. Il progetto è stato la base per creare nel Ministero della salute stesso un ufficio dedicato specificamente all’internazionalizzazione e promozione delle infrastrutture della ricerca biomedica italiana (leggi l’intervista a Giovanni Leonardi). Una delle funzioni di tale ufficio è il coordinamento, nel campo della ricerca e dell’innovazione in sanità, dei rapporti con gli altri ministeri, le università e gli enti di ricerca, pubblici e privati, nazionali e internazionali, e la partecipazione alle attività di organismi internazionali e sovranazionali in materia di ricerca sanitaria. Queste sono funzioni ormai necessarie in un’ottica di internazionalizzazione. Nella maggior parte dei casi, soprattutto nel pubblico, i progetti di ricerca europei sono cofinanziati da ogni singolo stato membro ed è necessario che i rispettivi ministeri siano presenti e in grado di dare il proprio finanziamento. Molti paesi membri hanno grandi agenzie dedicate a supportare i singoli istituti o gruppi di istituti, inoltre dispongono di cospicui finanziamenti per facilitare la partecipazione ai bandi europei; questa condizione di forza fa sì che essi stessi diventino leader e coordinatori dei vari progetti. A livello invece di privato, cioè di industria, internazionalizzarsi vuol dire essere in grado di offrire spunti e collaborazioni di ricerca all’industria biomedica e farmaceutica che, per definizione, ormai è internazionale. Le branch nazionali delle multinazionali del farmaco sono molto passive ricoprendo perlopiù una funzione di trasmettitori di proposte di ricerca. Dunque, serve essere forti e competenti e avere anche le conoscenze e i contatti giusti per riferirci agli headquarter internazionali che prendono le decisioni sui grandi finanziamenti.
Internazionalizzazione della ricerca pubblica significa mettersi nelle condizioni di essere presenti e competitivi nei grandi network sopranazionali.
Come rendere più efficace la partecipazione dell’Italia ai bandi europei di ricerca?
Il nostro paese partecipa ai bandi europei con un grande numero di application ma pur troppo il tasso di successo non risulta essere tra i migliori. Per vincere un numero di progetti paragonabile a quello degli altri paesi concorrenti, l’Italia deve gareggiare con un numero molto maggiore di proposte. Solo per fare un esempio basta citare Horizon 2020, il più grande programma europeo di finanziamento della ricerca e dell’innovazione, dal quale, soprattutto nel settore biomedico, portiamo a casa molto meno risorse di quanto l’Italia abbia allocato nel budget comunitario messo a disposizione da Bruxelles. Il problema di fondo non è tanto la qualità dei progetti in sé, quanto piuttosto la qualità della documentazione con cui vengono presentati. La partecipazione ai bandi europei, dalla loro individuazione alla preparazione della domanda, fino alle rendicontazioni scientifiche ed economiche dei programmi di ricerca finanziati, richiede la conoscenza di norme molto complesse e un paperwork che non è di pertinenza del clinico e del ricercatore. Dobbiamo quindi essere consapevoli che, in un mercato estremamente competitivo e con scarse risorse, non è più sufficiente puntare all’eccellenza che riconosciamo agli istituti di ricerca del nostro paese, ma serve mettersi nelle condizioni di fare meglio allocando risorse umane ed economiche per supportate i ricercatori nell’articolato iter burocratico. Per poter fare ricerca non basta avere gli animali da laboratorio, il materiale biologico e i pazienti informati che partecipano ai nostri studi clinici, ma servono anche competenze amministrative formali che permettono di fare al meglio il paperwork. La conditio sine qua non è un’infrastruttura stabile con personale competente.
Quali competenze servono e quali competenze già presenti in un Irccs andrebbero valorizzate?
In modo più o meno consapevole, i singoli istituti di ricerca stanno predisponendo grant office con al loro interno competenze amministrativo-gestionali specialistiche dedicate a condurre una ricerca sistematica dei bandi nazionali e internazionali e a supportare i ricercatori dalla preparazione dell’application fino alla concessione dell´intero finanziamento. Da tempo gli istituti con maggior tradizione, ma non per questo necessariamente i migliori, hanno consolidato una tale struttura di supporto. Altri Irccs, invece, si trovano nelle condizioni di dover trovare degli escamotage per reclutare queste competenze. Un primo ostacolo è la carenza di figure professionali formate e, anche quando disponibili, la mancanza di piante organiche per inserirle nell’infrastruttura della ricerca. Se da un lato la buona volontà del singolo ricercatore o istituto non è sufficiente per essere competitivi, dall’altro le competenze non si improvvisano. Ciò che serve è un’azione a livello di sistema che però non mi sembra avvenga in modo ordinato e continuativo in Italia. Le nostre università e agenzie dovrebbero cominciare a formare, a tutti i livelli, figure professionali essenziali per una buona ricerca e per una buona assistenza. In Italia abbiamo degli ottimi percorsi – a livello di laurea, post laurea e specializzazioni – per la formazione di operatori sanitari e di biologi, ma c’è una minore attenzione per le figure necessarie al settore della ricerca a partire dal data manager e dal medical writer. Diversamente dal sistema universitario anglosassone e statunitense, i nostri corsi di laurea non insegnano il lavoro del grant officer e del data manager su come applicare norme internazionali ormai consolidate. Il rischio è di far coprire questi ruoli a figure professionali con una specializzazione diversa e per questo non appropriata. Nel nostro Clinical trial center reclutiamo laureati in biologia, biotecnologia o tecnologia informatica per poi affidare loro mansioni e responsabilità del data manager formandoli direttamente sul campo. Ma la formazione sul campo non è una modalità efficiente.
Quali sono le best practice che può vantare il sistema italiano?
L’Italia conta circa mille ospedali, di cui 49 sono stati formalmente riconosciuti dal Ministero della salute come Irccs. Sono molto eterogenei dal punto di vista della storia, dell’anzianità, della complessità, della dimensione, del riconoscimento e della tipologia di ricerca condotta sia essa preclinica, clinica o epidemiologica. In questa ampia eterogeneità, gli istituti con alto volume di attività assistenziale e di ricerca beneficiano di una migliore organizzazione in dipartimenti di ricerca e strutture all’intero dei dipartimenti. Per esempio, il nostro Istituto – che con circa 500 posti letto possiamo definire un ospedale medio-piccolo – ricovera circa 18.000 persone all’anno, ha più di un milione di procedure ambulatoriali e nei nostri 640 studi vengono inclusi più di 24.000 pazienti. La conduzione della ricerca – riconosciuta come una delle attività istituzionali – viene facilitata dalla presenza di uffici competenti e dedicati, nonché di una direzione scientifica che si affianca alla direzione generale e a quella amministrativa. Gli ospedali, anche se di eccellenza e riconosciuti per l’alto livello di ricerca, qual è per esempio il Niguarda di Milano, non sono invece nelle condizioni di dedicare formalmente direzioni, strutture e organico alla ricerca. Riconoscere la ricerca come una delle attività istituzionali del sistema sanitario italiano, sia pubblico sia privato, dovrebbe far fare il passo – laddove si fa, anche se non è un Irccs – con delle figure professionali e uffici di supporto riconosciuti ufficialmente. Certamente gli Irccs, seppure in un panorama variegato, sono un buon esempio di best pratice.
Per rendere competitivo il nostro sistema di ricerca le risorse economiche sono ancora un limite?

Punto di riferimento nazionale e internazionale per le sperimentazioni cliniche su terapie innovative, l’Istituto tumori di Milano partecipa attivamente a numerosi network e organizzazioni di ricerca sul cancro. Inoltre supporta i ricercatori nella valutazione della brevettabilità delle loro invenzioni.
Tra i grandi paesi mondiali ed europei, l’Italia occupa la posizione di fanalino di coda per le risorse pubbliche destinate alla ricerca scientifica. La ricerca sanitaria che riceve meno dell’1 per cento del pil previsto dalla normativa. A conferma che c’è sicuramente un’insufficiente allocazione di risorse pubbliche economico-finanziarie per la ricerca scientifica, in particolare per quella biomedica. Personalmente se fossi un decisore politico investirei nel sistema solo dopo averlo riorganizzato, perché impiegare risorse in un sistema non concretamente ben organizzato in certe finalità significherebbe perderle. Per esempio il sistema della ricerca biomedica dovrebbe essere riorganizzato prevedendo delle azioni top down per poi richiedere un approccio bottom up dall’interno ai singoli responsabili. Un’altra criticità è la dispersione dei già scarsi finanziamenti a livello di organismi pubblici e privati, profit e non profit. Le charity hanno un ruolo importante a sostegno della ricerca biomedica italiana; Telethon o Airc (vedi pp. 32-33), per citare le più famose, allocano insieme centinaia di milioni ogni anno che si aggiungono ai 250 miliardi allocati dal Ministero della salute per l’infrastruttura e l’attività di ricerca sanitaria negli Irccs e nelle altre strutture ospedaliere delle regioni. Le charity vanno a coprire dei buchi di un sistema, quando invece dovrebbero essere degli attori importanti in un sistema coordinato che finanzia la ricerca. Di certo anche i continui tagli in sanità non sono di aiuto…
Pubblico-privato significa muoversi nella direzione giusta ma i percorsi sono complessi e ostacolati dai vincoli imposti dalla pubblica amministrazione.
Nonostante i tagli ministeriali, la quantità e la qualità delle ricerche condotte dagli Irccs sono cresciute negli anni. Oltre ai finanziamenti dei bandi europei e il fundraising si stanno aprendo nuove alleanze pubblico-privato che garantiscono la crescita della ricerca?
Pubblico-privato significa muoversi nella direzione giusta ma i percorsi sono complessi e ostacolati dai vincoli imposti dalla pubblica amministrazione. Per esempio la parte privata non deve utilizzare i bandi di selezione pubblica per mettere – in teoria e non in pratica – chiunque nella disponibilità e nella possibilità di accedere a un posto di lavoro o di acquistare un apparecchio. Il pubblico e il privato sono due mondi distinti che hanno tempi e modi completamente dissimili. In Italia abbiamo 49 Irccs di cui 28 privati e 21 pubblici. Questi ultimi si trovano penalizzati perché gli Irccs privati ricevono finanziamenti dal Ministero della salute con la stessa modalità attraverso bandi meritocratici ma, non essendo enti pubblici, hanno una maggiore libertà, flessibilità e anche rapidità di azione. Ad esempio, per acquistare un apparecchio diagnostico con i fondi in parte pubblici e in parte privati l’Istituto tumori di Milano deve aspettare almeno un anno per rispettare i tempi dettati dalle procedure della pubblica amministrazione. Al contrario un qualsiasi “competitore” lombardo, completamente privato, la acquisterebbe in due settimane e a un prezzo inferiore. Per un istituto di ricerca pubblico, che a livello nazionale e internazionale deve competere confrontandosi con attori sia pubblici che privati, diventa un ostacolo doversi attenere agli strumenti della pubblica amministrazione pensati per condizioni diverse. La trasformazione di un Irccs pubblico in fondazione, come è stato per i quattro Irccs pubblici lombardi (Istituto tumori di Milano, Ca’ Granda ospedale maggiore policlinico di Milano, Policlinico San Matteo di Pavia, Istituto neurologico Carlo Besta di Brescia), supera solo in parte questi limiti. Le decisioni di creare uno spin off per commercializzare e valorizzare un brevetto o una scoperta passa attraverso il consiglio di amministrazione che ne valuta i pro e i contro, la profittabilità, la fattibilità e la coerenza con le norme che regolano l’ente pubblico. Giustamente il processo è vincolato dell’approvazione conclusiva della regione. Ma non è scontato che il finanziatore dell’industrializzazione di un brevetto, che è un privato, una equity o un fondo, sia disposto ad aspettare sei mesi per conoscere il giudizio della regione a cui spetta la decisione, oltretutto delicata perché implica un potenziale danno all’erario se la valorizzazione economica viene fatta in maniera non corretta. Con le decisioni difensivistiche non si fa nulla e non si va da nessuna parte.