Spesso la ricerca italiana si contraddistingue per uno squilibrio importante dell’offerta qualitativamente e quantitativamente molto elevata di professionalità dei nostri ricercatori (non solo quelli emigrati all’estero) rispetto alle risorse economiche messe in campo dalle diverse autorità che rappresentano lo stato italiano (ministeri, accademia, Aifa, ecc.). È esperienza comune che la risposta dei centri di ricerca italiani alla pubblicazione di un bando di ricerca finanziato dall’industria sia a dir poco entusiastica, indipendentemente dalle somme investite. Quello, quindi, fra industria e accademia è un rapporto potenzialmente vitale per il continuo sviluppo delle capacità dei nostri ricercatori che come tale potrebbe e andrebbe meglio normato per garantire che la ricerca di questo tipo non scompaia dal nostro paese a favore di altre realtà nient’affatto più stimolanti, ma solo meglio attrezzate a sviluppare questo connubio.
Il decreto ministeriale del 17 dicembre 2004 sulla sperimentazione clinica è un unicum nella ricerca dei paesi occidentali che ha aggravato il gap fra la ricerca profit e non profit come testimoniato dai rapporti annuali dell’Aifa. Sarebbe opportuno aggiornare tale decreto che risale a ben 13 anni fa, anche in vista dell’emanazione di futuri regolamenti europei che potrebbero creare un ulteriore problema nel favorire la ricerca indipendente del nostro paese. È auspicabile, infatti, che non venga inibito a priori lo sviluppo di un dialogo tra promotore e finanziatore su argomenti di rilievo attorno alla ricerca non profit la quale − pur nel rispetto dei principi di autonomia e indipendenza dello studio − potrebbe essere diversamente gestita e contrattualizzata sull’esempio di altri paesi europei. Diverse aziende si trovano a dover declinare proposte di sostegno della ricerca indipendente; inoltre, alcuni gruppi coordinatori di studi clinici multinazionali in aree in febbrile sviluppo, qual è l’oncologia, cominciano a escludere i centri italiani proprio per la complessità interpretativa della normativa di riferimento.
La complessità della normativa ostacola la partecipazione dei centri italiani agli studi multinazionali.
Nel campo della ricerca profit il rapporto fra industria e accademia è in continua evoluzione, con l’intento di mantenere sempre elevato il livello di collaborazione che è a due vie fra chi ha la responsabilità di gestire lo sviluppo clinico di un farmaco e chi ha la scienza e l’esperienza di direzionare al meglio lo sviluppo stesso.
L’Italia complessivamente non è tenuta al di fuori del mainstream degli studi clinici internazionali sia nelle fasi iniziali sia in quelle registrative del farmaco. Ma è evidente che le nostre strutture non sono pronte a una competizione con quelle di altri paesi quanto a facilità di sviluppare localmente uno studio clinico europeo o mondiale. Non si pensi però a eventuali complessità dell’iter approvativo dei comitati etici quanto piuttosto, nella stragrande maggioranza dei casi, alle peculiarità contrattuali differenti non solo da istituto a istituto ma ancor peggio nello stesso da trial a trial.
Tutto questo è fonte di continua frustrazione non solo fra i ranghi della ricerca accademica ma anche – se non di più – fra coloro (e sono numerosi) che all’interno delle direzioni mediche si industriano per far pervenire ai nostri clinici quanti più stimoli di ricerca avanzata possibili. Sebbene non si prenda nemmeno in considerazione l’idea di ritirarsi dall’obiettivo di fare ricerca nel nostro paese, ovvio che, fra la competizione con nazioni meglio strutturate e lo svilupparsi a livello mondiale di una classe di ricercatori di alto e omogeneo livello, il compito di investire in Italia non è né semplice né garantito.
È evidente che questa situazione si traduce in una ridotta disponibilità, per i nostri specialisti e, soprattutto, per i loro pazienti, di farmaci sempre più complessi e mirati e quindi più efficaci. Ma significa anche un mancato ritorno di tutto quello che viene da questi studi, i quali − per le loro peculiarità − possono rappresentare una crescita impor-tante relativamente alla metodologia clinica, al “rispetto” del dato clinico e del suo valore, alle modalità di analisi sempre più raffinate del dato stesso in risposta alle esigenze sempre più rilevanti di chi poi deve decidere se quel farmaco è utile o meno alla comunità dei pazienti. Sono una serie di soft skill sui quali l’università investe molto poco e che invece l’industria da tempo ha dovuto e voluto far propri per sviluppare al meglio i farmaci.
Il compito di investire in Italia non è né semplice né garantito.
Riassumendo credo si possa certamente affermare che da una parte l’accademia mette a disposizione la propria expertise e le sue professionalità mediamente di alto valore, ma dall’altra spesso non è sorretta da strutture ospedaliere e amministrative all’avanguardia che di fatto ostacolano la ricerca più che favorirla. Il compito delle università dovrebbe essere di includere nelle facoltà di medicina corsi di studio su come fare ricerca e sul tipo di infrastrutture metodologiche che si rendono necessarie. E allo stesso tempo, l’industria dovrebbe essere sempre più pronta a cogliere gli spazi di sviluppo clinico e di ricerca disponibili, senza pregiudizi nazionalistici, disponendosi anche ad una crescente flessibilità nell’interpretare la collaborazione con il mondo accademico.