Prendono nomi come hub, cluster o poli di ricerca. Riuniscono laboratori di discipline affini o che operano negli ambiti più disparati, dalla ricerca biomedica all’astrofisica, dalle nanotecnologie alle scienze dell’informazione. E a volte travalicano del tutto i confini disciplinari aggregando centri scientifici e umanistici, di studi economici e di attività creative come quelle cinematografi che o musicali. Coinvolgendo università e istituti di ricerca, aziende private, istituzioni, e anche singoli creativi, titolari per esempio di un atelier artistico. Rispondono comunque a una tendenza che sta emergendo con prepotenza nella ricerca scientifica e non solo: mettersi in rete, aggregare le competenze, fare sistema. Che cosa si guadagna da questo modo di lavorare? E ci sono controindicazioni o rischi da cui guardarsi?
Per quanto nell’era di internet possa sembrare superato – e sebbene esistano anche cluster basati su relazioni virtuali a distanza – il primo punto di forza di un tipico hub è proprio la prossimità fisica tra i partecipanti. La cui importanza è apparsa chiara, per converso, a varie industrie che hanno delocalizzato la produzione ma non la creatività, incorrendo in grattacapi a non finire per problemi che si sarebbero risolti facilmente con qualche ritocco in corso d’opera dei processi produttivi, ma che invece si sono complicati oltremisura per le farragini delle interazioni a distanza. La compresenza è la precondizione per suscitare fitte interazioni fra colleghi, collaboratori, clienti e via dicendo, creando quel prezioso valore aggiunto che è il travaso di idee e conoscenze, anche fra ambiti disciplinari diversi. “Un cluster è come una piastra di Petri, un habitat ricco di nutrienti in cui nuove, azzardate imprese creative possono germogliare e attecchire prima di espandersi nel mondo”, ha detto Charles Armstrong, sociologo e fondatore di The Trampery, che a Londra offre spazi e relazioni alle imprese creative [1]. Il cluster crea infatti una massa critica di persone e imprese che va ben oltre le relazioni commerciali o professionali, perché ci si scambiano idee e competenze di continuo, ci si incontra la sera, si passa a lavorare da un’azienda a un’altra, si creano startup in proprio. E così facendo si crea un humus in cui idee e attività fioriscono.
Il cluster crea una massa critica di persone e imprese che va ben oltre le relazioni commerciali o professionali. E così facendo si crea un humus in cui idee e attività fioriscono.
Eccellenze collaborative
Un esempio eloquente viene dalla Germania, dove i cluster di ricerca si sono rivelati la più indovinata fra le varie azioni messe in campo dalla Excellence initiative, un’iniziativa da 4,6 miliardi di euro lanciata nel 2005 per sostenere la ricerca di alto livello e la cooperazione fra diversi attori. Nel 2011, nell’ambito dell’iniziativa, sono stati creati 43 “cluster di eccellenza” [2]: radunano gruppi di una stessa università o di uno stesso territorio, che in precedenza avevano avuto scarsi contatti, per mettere in comune strutture e strumenti ma soprattutto idee e competenze. Un programma ha indagato per esempio la struttura e le origini dell’universo, riunendo i fisici di due università e vari istituti Max Planck (una rete di centri di ricerca) dell’area di Monaco in Baviera.
I cluster, come si diceva, hanno avuto un’ottima riuscita. Lo afferma la valutazione indipendente di un panel internazionale pubblicata a inizio 2016, che individua i cluster come la componente di maggior successo dell’iniziativa e raccomanda di farne il pilastro della sua prosecuzione. Raccomandazione accolta pochi mesi dopo, quando le autorità hanno deciso di proseguire il programma in una versione rinnovata, la Excellence strategy, che prevede appunto, accanto al sostegno a singole università, una rinnovata promozione di cluster d’eccellenza su progetti specifici. A settembre 2017 un comitato di esperti ha concluso la prima preselezione fra le proposte presentate, scegliendone 88 fra cui sarà con-dotta la scelta finale [3].
I cluster si affermano quindi come un valido strumento per promuovere ricerca di qualità. Ma non sono una bacchetta magica. La valutazione infatti ne sottolinea anche alcuni limiti: la Excellence initiative aveva un obiettivo ambizioso, promuovere la nascita in Germania di un centro d’eccellenza scientifico del rango di Oxford o Harvard, e questa meta sembra ancora lontana. “I cluster stanno producendo scienza eccellente, ma siamo appena agli inizi della lunga strada per giungere ai livelli dei più rinomati centri internazionali”, osservano gli esperti. Non basta insomma mettere insieme le forze per qualche anno per eguagliare, come per magia, il frutto di decenni di lavoro.
C’è poi chi ha lamentato che il maggior carico amministrativo, per gestire i cluster e le reti di eccellenza, sottrae tempo e risorse alla ricerca. Ma soprattutto, in questa iniziativa tedesca come in altre, i cluster tendono a coinvolgere centri già di alto livello, col rischio di creare un sistema a due velocità in cui, mentre le istituzioni eccellenti corrono ancora di più, altre restano irrimediabilmente tagliate fuori.
Esempi italiani
Sono critiche che riecheggiano quelle avanzate in Italia allo Humane Technopole: il grande hub biomedico che il governo Renzi aveva deciso di realizzare negli spazi lasciati liberi dall’Expo a Milano, affidandone il coordinamento all’Istituto italiano di tecnologia di Genova e finanziandolo con un miliardo e mezzo di euro in 10 anni per fare ricerca su temi quali il cancro, le malattie neurodegenerative, la genomica e la medicina di precisione, agricoltura e cibo, o l’analisi dei big data biomedici. Il progetto, che a detta degli idea-tori si ispira ai grandi hub statunitensi come quelli della Silicon Valley, prevede una serie di nuovi centri da realizzare sul posto, più una rete di laboratori in altri centri di ricerca dell’area milanese, e forse in altre zone. Si prevede di reclutare 1500 ricercatori da tutto il mondo e di attirare forti investimenti privati.
L’idea appare quindi un’opportunità unica per una ricerca italiana sempre più in affanno per gli inadeguati finanziamenti, e infatti ha suscitato grandi lodi; per esempio dal compianto Umberto Veronesi che la considerava “la migliore opportunità per il progresso medico, scientifico e civile in Italia dalla seconda guerra mondiale”. Ma il progetto ha sollevato anche enormi polemiche: critiche sui modi con cui è stato deciso l’investimento, dispute feroci su chi controllerà un simile flusso di denaro, ma anche obiezioni di più ampio respiro sull’opportunità di concentrare tante risorse su un unico progetto d’eccellenza in un panorama di finanziamenti sempre più magri in cui la ricerca italiana arranca sempre più. In quest’ottica, a detta dei critici, creare un ricco mega hub non avrebbe molto senso senza aver prima rivitalizzato con fondi adeguati l’ecosistema scientifico e culturale in cui dovrà operare. In Italia non mancano comunque hub in funzione già da tempo, come l’Area science park di Trieste, sorto negli anni ottanta e sviluppatosi in un grande parco scientifico che riunisce imprese e centri di ricerca avanzata, come il Centro internazionale di ingegneria genetica e biotecnologia e il Laboratorio di luce di sincrotrone Elettra, e dal 2008 ospita l’Innovation Factory, un incubatore che ha generato una cinquantina di nuove imprese. Area science park include oggi un totale di otto centri di ricerca e una settantina di imprese in cui lavorano oltre 2500 ricercatori, tecnici e imprenditori, e ha assunto il ruolo di coordinatore del sistema regionale della ricerca, organizzato nell’Hub Friuli Venezia Giulia [4]. Tra le novità in arrivo, invece, a settembre nove università e varie imprese del nordest hanno creato lo Strategy innovation hub, un consorzio per sviluppare l’industria del futuro (la cosiddetta industria 4.0), mettendo insieme i punti di forza di ciascuna realtà e aggregando competenze non solo scientifico-tecnologiche ma anche economiche e umanistiche (“Non a caso ci definiamo indisciplinati”, ha dichiarato a La Repubblica Carlo Bagnoli, docente ordinario e delegato all’innovazione strategica all’Università Ca’ Foscari di Venezia).
Un’altra meta importante che si ripropone il cluster del nordest è quella di superare l’idea della fuga all’estero come unica prospettiva per tanti giovani ricercatori, dando loro una spinta ideale, un’ispirazione, un sogno che li induca a rimanere. Visto che sul piano degli stipendi i centri italiani non possono competere con quelli tedeschi o statunitensi – hanno spiegato i proponenti – occorre trovare altri incentivi, qual è appunto il sentirsi parte attiva di un grande progetto collaborativo vivace e innovativo.
Rigenerazione urbana
Di hub e cluster si parla anche fuori dall’ambito della ricerca: ci sono hub che riuniscono imprese creative della moda, del cinema o dell’arte. Cluster simili sono stati promossi da varie città europee come strumento di rigenerazione urbana: zone spesso centrali ma abbandonate dalle industrie e dalle imprese tradizionali, spopolatesi e divenute poco attraenti per il ceto medio classico e per negozi e imprese ordinarie; grazie ai bassi costi immobiliari e ai giusti incentivi sono divenuti insediamenti ideali per i giovani artisti e artigiani e per la piccola imprenditoria creativa e squattrinata, che hanno portato a nuova vita aree altrimenti destinate a un lento degrado. Ma anche in questi hub creativi i centri accademici e di ricerca sono spesso cruciali. Come rimarca il British Council, le università sono innanzitutto essenziali per fornire forza lavoro qualificata, e spesso aiutano i loro laureati nei primi passi delle nuove attività [5]. Ma soprattutto, producono di continuo quella nuova conoscenza che le imprese creative troveranno modo di tradurre in innovazione. E non ultimo, sono cruciali per fare ricerca su come funziona l’impresa creativa e indagare i meccanismi che ne determinano successi e fallimenti, così da capire come farla funzionare meglio e da renderla meno misteriosa – e quindi meno rischiosa – agli occhi degli investitori.
Il mio modello di business sono i Beatles. Erano quattro ragazzi che tenevano reciprocamente sotto controllo le proprie tendenze negative. Si bilanciavano tra loro. E il risultato era più grandioso della somma delle parti. Ecco questo per me è il business: le grandi cose nel business non vengono mai da una sola persona, ma da un team di persone. — Steve Jobs
Bibliografia
[1] www.thetrampery.com
[2] Excellence initiative (2005-2017). www.dfg.de/en/research_funding/programmes/excellence_initiative
[3] Excellence strategy. www.dfg.de/en/research_funding/programmes/excellence_strategy/index.html
[4] www.areasciencepark.it
[5] Newbigin J. Hubs, clusters and regions. https://creativeconomy.britishcouncil.org/guide/hubs-clusters-and-regions
La grande culla del biotech
Boston-Cambridge è la casa di numerose startup e società di venture capital, e molteplici centri di ricerca e ospedali di fama mondiale, quali il Mit, la Harvard university e la Tufts e Northwestern university, il Mass general hospital e il Dana Farber cancer center. E anche di grandi multinazionali del farmaco: Merck, Sanofi, Pfizer, Biogen-Idec e Novartis. L’epicentro è Kendall Square, dove nel raggio di un chilometro e mezzo si concentrano 120 aziende hightech e biotech; in un solo edificio di nove piani operano più di 450 startup. La promiscuità di grandi cervelli e differenti competenze, dai ricercatori e clinici, agli investitori e imprenditori, crea un circolo virtuoso proficuo in un’ottica di innovazione e profitti. Il passaggio dalle sperimentazioni ai trial sui pazienti, dai progetti di ricerca ai finanziamenti e al trasferimento tecnologico è facilitato dall’alta densità e diversità di questo ecosistema che rendono Kendall Square un hub urbano unico al mondo e in continua crescita. Negli ultimi cinque anni Google, Microsoft, Novartis e Pfizer hanno ampliato i loro uffici e laboratori per costruire rapporti stretti con le startup e i centri di Harvard e del Mit. Ma la capacità ricettiva di Kendall sta raggiungendo il suo limite massimo. Nonostante dal 2007 Cambridge abbia aggiunto 465 metri quadri di laboratori, diverse aziende nate qui e in rapida crescita sono pronte a trasferirsi in periferia per ragioni di spazio.