La medicina intensiva ha significativamente ridotto la mortalità da malattie acute gravi, ma per molti pazienti la prognosi rimane infausta. In questi casi mantenere i trattamenti di supporto vitale significa solo prolungare il processo di morte. Così, nelle unità di terapia intensiva gran parte dei decessi avviene dopo che i clinici hanno deciso di limitare le cure non avviando ulteriori trattamenti o interrompendo l’erogazione di quelli già in atto. Malgrado gli eticisti considerino le due pratiche equivalenti sul piano morale, nella pratica clinica il tema continua a generare controversie.
La maggior parte dei decessi nelle terapie intensive si verifica a seguito della decisione dei medici di limitare le cure astenendosi dall’erogare ulteriori trattamenti di supporto vitale o interrompendo quelli già in atto. Che cosa hanno in comune queste due decisioni e in cosa si differenziano?
Sono due decisioni delicate e complesse che si differenziano nell’atto pratico ma che si equivalgono sul piano etico. In un caso si tratta di interrompere un trattamento già in atto, e quindi di intervenire attivamente, mentre nell’altro di non avviarlo. In entrambi i casi la decisione deriva dalla constatazione che eventuali trattamenti di supporto vitale non modificheranno una prognosi infausta anche dopo un periodo di cure massimali. Questi trattamenti serviranno allora solo a prolungare il processo di morte, traducendosi in inutili sofferenze aggiuntive per il paziente e per i suoi familiari. Di conseguenza, se è etico non avviare un trattamento dovrebbe essere considerato altrettanto etico sospenderlo [1]. Numerosi studi hanno invece evidenziato una diversa prevalenza delle due decisioni in rapporto alla cultura e all’appartenenza o meno dei professionisti sanitari a una religione, nonché alla legislazione vigente [2,3]. La letteratura dimostra che l’astensione dai trattamenti è in generale più praticata della sospensione. Se questo è particolarmente vero nelle terapie intensive in Israele e nei paesi arabi e asiatici, in Occidente il maggior ricorso alla sospensione sembra crescere nel tempo [4], essendo influenzato dalla disponibilità di un fiduciario, dall’età avanzata del paziente, da un elevato grado di gravità della malattia, dalla mancata risposta a un trial di trattamento prolungato, dalla severità di una preesistente patologia, in particolare neurologica.
Perché i medici propendono più per l’astensione dai trattamenti che per la sospensione?
Concorrono diversi fattori. Intanto è dimostrato che quando i medici devono prendere delle decisioni sono spesso influenzati dal cosiddetto “status quo bias” – tendenza a non modificare lo stato delle cose – che comporta, a sua volta un bias di omissione: cioè giudicare azioni dannose come peggiori di omissioni in realtà ugualmente nocive [5]. Questi bias cognitivi possono indurre i medici a ritenere che interrompere attivamente un trattamento sia un’azione peggiore del non iniziarlo. Diversa è anche la percezione che i clinici hanno delle due modalità di limitare le cure: è esperienza comune degli intensivisti che la decisione di interrompere i trattamenti sia più stressante e traumatica in quanto più coinvolgente sul piano psicologico e morale. Questa differenza può essere meglio compresa se si considerano tre situazioni emblematiche. La forma più semplice di astensione è quella che deriva dal rifiuto di essere sottoposto a rianimazione cardio-polmonare in caso di arresto cardiaco (do not resuscitate) da parte di un paziente che ha incluso questa decisione in direttive anticipate di trattamento sottoscritte in precedenza. Più complesso diventa invece il caso di un paziente che è giunto alla parte finale di una traiettoria di malattia cronico-degenerativa e per il quale si decide di astenersi dall’erogare trattamenti di supporto vitale perché ritenuti sproporzionati. Il paziente non sarà ammesso in terapia intensiva, ma potrà continuare a ricevere le cure ordinarie e simultaneamente palliative, al fine di garantirgli una morte dignitosa che può intervenire in un tempo variabile di ore o giorni. Decidere di interrompere un trattamento vitale significa invece dover intervenire attivamente rimodulando al minimo o interrompendo la ventilazione meccanica, interrompendo il supporto inotropo e il rimpiazzo renale, iniziando una sedazione palliativa; la morte del paziente seguirà di là a poco. Una differenza tra queste tre situazioni è certamente innegabile per i pazienti e per i loro cari, per i medici e gli infermieri in rapporto al diverso tipo di stress, alla sofferenza e all’impegno richiesti a ciascuno. Il processo decisionale della sospensione richiede poi che la scelta sia discussa prima dal team di cura, per essere poi concordata con il paziente quando possibile, con i familiari o con un fiduciario. Al contrario, le richieste di ammissione alla terapia intensiva provengono da altri medici e l’eventuale decisione di astensione dai trattamenti (non ammettere il paziente) è, di solito, comunicata loro senza bisogno di discuterla con il paziente o con i familiari. Inoltre, non è neppure necessario ottenere un consenso trattandosi solo di esprimere un criterio di appropriatezza clinica delle cure intensive in quel singolo paziente e non di porre in atto una qualche terapia.
Anche la responsabilità professionale incide sulla scelta di non avviare invece di interrompere le cure?
Diversamente da quanto accade in numerosi paesi occidentali, in Australia e in Nuova Zelanda, nel nostro paese manca una legislazione specifica che disciplini il ricorso alla decisione di limitare i trattamenti di supporto vitale. Questa decisione è però prevista dal codice di deontologia medica (articolo 16 sulle procedure diagnostiche e interventi terapeutici non proporzionati) oltre che da importanti sentenze delle corti, da raccomandazioni di società scientifiche e documenti di consenso. Ciononostante è possibile che i medici percepiscano un maggior rischio di contenzioso nel caso della decisione di sospendere il trattamento per la sua stretta relazione causale e temporale con il decesso: il tempo intercorso tra la decisione di limitare il trattamento e la morte è, infatti, mediamente inferiore nel caso che sia stata attuata la sospensione dei trattamenti invece dell’astensione. Una seconda questione chiama in causa il principio della giustizia distributiva. In termini giuridici la sospensione non è reato se si dimostra che essa è attuata nel miglior interesse del paziente (criterio della futilità dei trattamenti sproporzionati), ma lo può diventare quando la decisione viene presa su un paziente a beneficio di un altro, come in caso di risorse limitate all’interno di una unità di terapia intensiva. Tuttavia, va sottolineato che gli studi che hanno analizzato le motivazioni della decisione di interrompere i trattamenti di supporto vitale hanno dimostrato che il numero di posti-letto di una unità di terapia intensiva non ha mai costituito un motivo valido per interrompere i trattamenti e che in meno dell’1 per cento dei casi il rapporto costo/beneficio ha rappresentato una ragione primaria per attuare un’interruzione dei trattamenti vitali con, semmai, una maggior propensione all’astensione. Una ragione potrebbe consistere nel fatto che i medici agiscono sulla base della regola “first-come-first-served” [6,7]. I vantaggi di questa regola consistono nel fatto che è semplice da applicare, inequivocabile, ed evita decisioni difficili o controverse. Tuttavia, essa produce conclusioni controintuitive: se il paziente A ha solo un 1 per cento di possibilità di sopravvivere con le cure intensive e il paziente B ha invece il 99 per cento di possibilità di sopravvivere con le stesse cure, la regola “first-come-first-served” darebbe priorità ad A se questo accedesse per primo in terapia intensiva.
In meno dell’1 per cento dei casi il rapporto costo/beneficio ha rappresentato una ragione primaria per attuare un’interruzione dei trattamenti vitali.

Figura 1. La decisione della limitazione delle cure rappresenta una tappa di rimodulazione dei trattamenti nel processo di integrazione tra approccio curativo e palliativo da aff rontare mettendo al centro il paziente morente e il suo diritto di un fine vita dignitoso. Si arriva a questa tappa quando la valutazione clinica indica che la patologia è arrivata allo stadio dell’irreversibilità. La scelta non è tra “fare” e “non fare nulla” ma tra “fare” e “fare altro”, cioè tra la prosecuzione di trattamenti sproporzionati e l’inizio di trattamenti che garantiscono invece una presa in carico globale del malato per garantirgli, con le cure palliative e la terapia del dolore, un fine vita con dignità.
Quali dovrebbero essere i principi che guidano la decisione di limitare i trattamenti alla fine vita dentro e fuori le terapie intensive?
La questione realmente importante è che i clinici sappiano riconoscere quando i trattamenti stanno divenendo inappropriati in quanto sproporzionati e sappiano fermarsi (figura 1). Non esiste una formula unica e astratta per definire quale sia il modo migliore o peggiore per attuare una decisione di limitare i trattamenti di supporto vitale. L’unico modo per affrontare utilmente e concretamente il difficile compito di prendersi cura di un paziente giunto alla fine della vita – come anche quello di “prendersi cura” della sua famiglia – consisterà prima di tutto in una corretta valutazione delle condizioni cliniche mirata a definire se ci si trova di fronte a una patologia potenzialmente reversibile o definitivamente irreversibile. In questo secondo caso la scelta dell’opzione migliore per limitare i trattamenti – interruzione o astensione – deriverà oltre che dalla collocazione del paziente (all’interno o all’esterno della terapia intensiva), da un’analisi accurata dei suoi bisogni, delle sue preferenze, dei suoi valori, così come delle richieste dei familiari per riorientare il trattamento verso le cure palliative e la terapia del dolore riconosciute come un diritto dei cittadini dalla legge 38/2010 per garantire al paziente terminale di morire con dignità. Questo obiettivo fondamentale dovrà però essere raggiunto tenendo conto delle scelte operative e delle propensioni morali, culturali e religiose dei professionisti sanitari al fine di evitare che le scelte alla fine della vita si trasformino in un’occasione di frustrazione e conflitto all’interno del team dei curanti.

*indagine condotta su 255 clinici operanti in 20 terapie intensive milanesi (Giannini et al. Intensive Care Med 2003:29:1902-10); ** www.economistinsights.com(Giannini et al. Intensive Care Med 2003:29:1902-10); ** www.economistinsights.com
Le definizioni
Per limitazione dei trattamenti s’intende “l’interruzione o il non avvio di trattamenti diagnostici o terapeutici che non sono più in grado di contrastare una prognosi certamente infausta e che per il malato comportano oneri superiori ai benefici attesi”. La limitazione delle cure può avvenire per decisione autonoma di un malato cosciente o per decisione dei medici nel caso di un malato non più in grado di decidere per sé. Si definisce eutanasia “l’uccisione intenzionale di colui o colei che ne fa volontaria e consapevole richiesta, da parte di un medico o altra persona competente, tramite la somministrazione di farmaci”. Spesso una mancata chiarezza su questi termini porta a identificare il tema della limitazione dei trattamenti alla fi ne della vita con quello, completamente diverso, dell’eutanasia [8].
In rapporto alle pratiche di limitazione dei trattamenti vitali, sia nella forma della loro sospensione attiva che in quella dell’astensione dal porli in atto, una conferenza di consenso tra 1366 intensivisti di 32 paesi di tutto il mondo ha concordato le definizioni di ciascuna delle due pratiche [9].
Bibliografia
[1] Sulmasy DP, Sugarman J. Are withholding and withdrawing therapy always morally equivalent? J Med Ethics
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[2] Bülow HH1, Sprung CL, Baras M, et al. Are religion and religiosity important to end-of-life decisions and patient autonomy in the ICU? The Ethicatt study. Intensive Care Med 2012;38:1126-33.
[3] Sprung CL, Maia P, Bulow HH, Ricou B, Armaganidis A, Baras M, et al. The importance of religious affiliation and culture on end-of-life decisions in European intensive care units. Intensive Care Med 2007t;33:1732-9.
[4] McLean RF, Tarshis J, Mazer CD, Szalai JP. Death in two Canadian intensive care units: institutional difference and changes over time. Crit Care Med 2000;28:100-3.
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[9] Sprung CL, Truog RD, Curtis JR, et al. Seeking worldwide professional consensus on the principles of end-of-life care for the critically ill: the Welpicus study. Am J Respir Crit Care Med 2014;190:855-66.