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Scelte e decisioni Articoli

Decisioni e priorità in pronto soccorso

Dalla gestione del tempo e delle risorse alla decisione migliore nell’interesse del paziente.

Daniele Coen

Grande Ospedale metropolitano Niguarda, Milano

By Settembre 2017Luglio 31st, 2020Nessun commento

Uno spazio rischioso del “Grande malato”, il sistema sanitario, dove la cura troppo scrupolosa del singolo può paradossalmente avere conseguenze nefaste sulla collettività.

Il processo decisionale in pronto soccorso ha caratteristiche assolutamente particolari rispetto a quelle che sono comuni a quasi tutti i reparti di degenza. Prima e più ancora che preoccuparsi del singolo paziente, gli operatori del pronto soccorso devono infatti occuparsi di quel “Grande malato” che è, oramai troppo spesso, il loro stesso ambiente di lavoro. La prognosi di un paziente che attende da ore di essere visitato può essere profondamente influenzata da quello che i medici decidono di fare (o di non fare) con i pazienti che occupano le barelle, determinandone l’ulteriore tempo di attesa. In modo simile, l’evoluzione clinica di un paziente che attende un trasferimento in terapia intensiva può dipendere dal fatto che i medici decidano o meno di assegnare a lui l’unico letto conteso da vari malati critici. Il “Grande malato”, dove gli operatori e le risorse sono sempre inferiori alle necessità, richiede dunque che medici e infermieri sviluppino innanzitutto competenze e metodi per assegnare correttamente le priorità di intervento.

Gli operatori del pronto soccorso devono occuparsi di quel “Grande malato” che è, oramai troppo spesso, il loro stesso ambiente di lavoro.

Il primo momento decisionale è appannaggio dell’infermiere, che all’arrivo di ogni nuovo paziente dovrà decidere quale codice colore attribuire. Se sarà codice rosso, il paziente supererà ogni fila e ogni attesa, e verrà assegnato a un’area di emergenza dove troverà medici e infermieri immediatamente disponibili a occuparsi di lui. Se sarà codice bianco, dovrà invece rassegnarsi ad attendere ore e ore prima della visita e a subire spesso gli sguardi o le parole di rimprovero di chi ritiene che stia abusando di un servizio di urgenza. Naturalmente, e fortunatamente, la grande maggioranza dei pazienti sta nel mezzo. Ma come decidere ed eventualmente modificare la propria decisione nel tempo in questi casi? I sistemi di triage informatizzati sono certamente di grande aiuto per non dimenticare fattori di rischio, segni o sintomi che possano rimandare a una patologia grave o rapidamente evolutiva. Ma il rischio di una condizione grave non è tutto. Bisogna tenere in conto anche la sofferenza (fisica e psichica), la disabilità, le molte fragilità. Su questi aspetti l’informatica aiuta di meno, mentre contano di più la formazione, l’esperienza e l’elasticità degli operatori. E poi c’è di nuovo il “Grande malato”. Tante volte un codice bianco fatto passare avanti per un problema che può essere risolto in pochi minuti ridurrà, anche se di poco, l’affollamento e magari ringrazierà, ricevendo in risposta un sorriso da parte dell’infermiere, che a sua volta farà bene a tutti coloro che sono ancora in attesa e che sentiranno di essere accolti da persone attente e disponibili.

Al personale medico e infermieristico del pronto soccorso vengono richiesti un atteggiamento critico sui problemi e scelte meditate. Il triage, la diagnosi, la terapia e la sospensione rappresentano quattro momenti decisionali importanti dall’ingresso in pronto soccorso del paziente alla sua dimissione o ricovero.

Un secondo importante momento decisionale riguarda la scelta del medico di sottoporre o meno il paziente a un esame diagnostico. Studiare un paziente significa prolungarne la permanenza in pronto soccorso, esporlo al rischio di possibili complicazioni degli esami strumentali, o a una diagnosi di falsa positività, sottrarre tempo ad altri e infine incrementare i costi. Non studiarlo espone invece al rischio di non riconoscere una condizione che potrebbe richiedere cure immediate o dare adito a complicanze. Alcuni assiomi possono aiutare il medico in questa difficile situazione. Il primo è quello che gli ricorda come, ancor più di porre una diagnosi, il suo compito principale sia quello di valutare il livello di rischio del paziente, dove per rischio si intende principalmente quello di complicanze gravi o di morte. Laddove questo rischio sia basso o bassissimo, la diagnosi può quasi sempre essere rinviata a un altro livello di assistenza (medico di medicina generale o specialista ambulatoriale). Quando invece la diagnosi differenziale comprenda condizioni potenzialmente gravi, il secondo passo è quello di chiedersi quale sia la probabilità pretest di malattia e quanto questa probabilità possa essere modificata dall’esame che si sta prendendo in considerazione. Se l’esame, o l’insieme degli esami considerati, è in grado di raggiungere la soglia decisionale (quella cioè sufficiente per escludere o, all’estremo opposto, per decidere di trattare la malattia), è probabile che chiederlo sia ragionevole. Se così non fosse, sarà facile che il risultato non solo non aggiunga informazioni utili, ma confonda ulteriormente le idee. Tra i tanti esami dallo scarso valore predittivo (positivo o negativo) possiamo ricordare la conta dei leucociti, la temperatura differenziale, la radiografia dell’addome nel sospetto addome acuto, la radiografia dell’emicostato nella sospetta infrazione costale, la tac cerebrale nella sincope.

Questo processo decisionale richiede da un lato la conoscenza di alcuni concetti teorici (sensibilità, specificità, valore predittivo positivo e negativo, odds ratio, rapporto di verosimiglianza) ma dall’altro, tenuto conto della ovvia difficoltà di applicare un calcolo statistico a ogni singolo caso, richiede anche che almeno i percorsi più rilevanti siano già stati fatti “a tavolino”. Per quanto riguarda la probabilità pretest, una serie di score (scelti oculatamente e senza abusarne) possono aiutare. Gli esempi che per primi vengono alla mente sono lo score di Wells per l’embolia polmonare, lo HEART score per la sindrome coronarica acuta, le Ottawa ankle rule per le distorsioni di caviglia, il Nexus per il trauma cervicale, le linee guida canadesi per il trauma cranico minore.In assenza di uno score, sarà inevitabile affidarsi alla clinical gestalt, cioè a una valutazione soggettiva del rischio, che per alcune patologie (per esempio l’embolia polmonare) si è dimostrata non essere meno precisa degli score, ma che varia molto con l’esperienza e la formazione degli operatori. Per quanto riguarda l’utilità degli esami, il concetto teorico da conoscere è quello delle curve ROC; più importante per la pratica è la conoscenza del valore predittivo positivo o negativo dei principali esami. Se l’utilizzo congiunto della probabilità pretest e del valore predittivo degli esami sul nomogramma di Fagan sarebbe il gold standard a cui mirare, protocolli e percorsi diagnostico-terapeutici possono anticipare questi calcoli e venire in aiuto. Certo, in questi casi si tratterà di indicazioni di carattere generale, mentre il medico ha sempre davanti a sé uno specifico individuo, con le sue copatologie, i suoi specifici fattori di rischio, i suoi desideri e le sue idiosincrasie. Considerando che si calcola che meno del 20 per cento delle indicazioni date dalle linee guida sia basato su di una adeguata evidenza, il medico si trova a poter esprimere il senso più profondo della propria professione. Sta infatti a lui creare un ambito relazionale che gli consenta di prendere quella che è la migliore decisione nell’interesse del paziente. Senza atteggiamenti paternalistici, ma evitando anche di limitarsi a elencare una serie di possibilità e di probabilità, senza offrire un parere personale. In questo modo infatti abbandonerebbe il paziente a decisioni che questi non sarebbe in grado di prendere in modo adeguato, perché non sostenuto da un atteggiamento empatico e di reale condivisione da parte del curante.

Infine, è importante che il medico del pronto soccorso apprezzi realisticamente il livello di accuratezza con il quale è possibile raggiungere o escludere una diagnosi. In un ambito nel quale la preoccupazione medico-legale è costantemente presente e la medicina difensiva ampiamente praticata, viene spontaneo porsi obiettivi illusori sulla propria capacità di identificare una condizione clinica grave o potenzialmente grave. In realtà, in casi quali l’infarto del miocardio, l’embolia polmonare, l’emorragia cerebrale postraumatica e in molte altre patologie, è difficile sbagliare meno di una o due volte su cento, anche conoscendo e applicando con attenzione le più recenti linee guida. D’altra parte un obiettivo più alto (per esempio di sbagliare meno di una volta su mille) porterebbe a tempi di permanenza in pronto soccorso e a percentuali di ricovero così elevate da paralizzare l’intero sistema, chiudendo il cerchio e riportandoci al “Grande malato” da cui avevamo iniziato: la cura troppo scrupolosa del singolo finirebbe paradossalmente per avere conseguenze nefaste sulla collettività. Verrebbero infatti danneggiati almeno alcuni degli altri pazienti che non troverebbero le risposte tempestive e adeguate di cui hanno bisogno. Una medicina difensiva intelligente dunque non è fatta di un eccesso di esami ma, nuovamente e soprattutto, di valutazione del rischio e di relazione. È frequente la situazione in cui un medico del pronto soccorso, al termine della propria valutazione, si trova a non aver capito la causa di un sintomo, ma ad avere escluso con ragionevole certezza che questo possa essere dovuto a una condizione pericolosa. Quando così è, e questo capita non raramente anche per sintomi potenzialmente preoccupanti quali la sincope, il dolore addominale o il dolore toracico, questa consapevolezza deve essere condivisa con il paziente. Ci vorrà qualche minuto per spiegarsi e per rispondere a eventuali domande, ma saranno minuti ben spesi.

Sta al medico creare un ambito relazionale che gli consenta di prendere quella che è la migliore decisione nell’interesse del paziente.

Bisognerà ovviamente chiudere la visita proponendo un percorso di ulteriori controlli ogni qualvolta questi siano indicati e dare la propria totale e sincera disponibilità a rivalutare la situazione in qualunque momento. Un ultimo tema di estrema rilevanza per quanto riguarda il processo decisionale in pronto soccorso necessiterebbe di una trattazione dedicata, ma non può non essere almeno accennato qui. Si tratta della necessità (e della capacità) di riconoscere quelle situazioni nelle quali la malattia è andata oltre ogni ragionevole possibilità di intervento e nelle quali il medico deve evitare di condurre battaglie insensate contro la morte. Non saprei fare di meglio, per sottolineare quanto questo sia un aspetto del processo decisionale troppo poco considerato, insegnato e praticato, che citare le parole di Bernard Lown, il grande cardiologo americano famoso per avere introdotto l’uso diffuso del defibrillatore e per avere avviato le prime unità di cure coronariche, ma anche per la sua attenzione a non dimenticare mai gli aspetti umani e relazionali della medicina.

La biotecnologia definisce sempre più le regole dell’arte: tutto quello che è possibile fare tende a essere considerato indispensabile e il medico si adatta a questa regola assurda invece di focalizzarsi sul benessere del paziente. (…) I medici sono sempre meno preparati per uno dei loro compiti più rilevanti: alleviare la sofferenza, il dolore e lo stress psicologico del morire, sia per i pazienti che per le loro famiglie.
— Bernard Lown

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