La condivisione delle decisioni che riguardano il percorso di cura fra pazienti e curanti, shared decision making, è uno dei temi di cui si scrive e si parla sempre di più nei convegni scientifici e anche nelle occasioni divulgative. Per shared decision making si intende quel processo in cui i curanti e il paziente collaborano nel prendere le decisioni che riguardano il malato, selezionano gli esami, i trattamenti e i piani di cura sulla base delle evidenze cliniche che tengono conto sia dei risultati attesi sia delle preferenze e dei valori dei pazienti [1]. È un argomento questo che rientra nel tema più ampio e talvolta abusato della centralità del paziente e del processo di “democratizzazione della medicina” che mira a recuperare la visione olistica di Ippocrate conciliandola con un impiego appropriato, equo e saggio del progresso tecnologico grazie a pazienti informati, consapevoli e partecipi.
Gli attori di questo percorso sono ovviamente non solo i curanti e i pazienti ma anche i professionisti dell’informazione e comunicazione sanitaria, i media tradizionali, web e social network e non da ultime le organizzazioni di cura e ricerca che si muovono sulla scia di temi caldi oppure in modo proattivo sforzandosi di ripensarsi sulla base del bisogno sempre più avvertito della “persona al centro”. Per un’organizzazione di cura e ricerca, il processo di condivisione delle scelte è molto complesso. Tuttavia, è forse il punto di massima integrazione fra vari aspetti ai quali si presta sempre più attenzione, come per esempio: la cura dell’ informazione ai pazienti, affinché sia accessibile, affidabile e utile; la rilevazione del grado di comprensione e capacità di utilizzo delle informazioni sanitarie (la cosiddetta health literacy); il coinvolgimento di pazienti, volontari e caregiver nella vita delle organizzazioni sanitarie e la loro partecipazione in qualità di equal partner ai percorsi che li riguardano; la capacità degli operatori di trovare il proprio equilibrio fra scarse risorse e nuove sfide in un contesto che non è più quello di un tempo ma non è ancora qualcos’altro di ben definito; la necessità dell’integrazione tra professionisti diversi, sanitari e non; le sfide della multiculturalità.
Un contributo esperienziale
In questi ultimi 20-25 anni, vi è un trend in ascesa relativamente a questo tema nella letteratura scientifica biomedica [2] al punto che, soprattutto negli Stai Uniti, lo shared decision making è ritenuto oggi la vera priorità che permetterà di “salvare” la medicina. Non era così fino ad alcuni anni fa e ancor oggi, forse, in Italia ed Europa, il tema viene percepito come meno cogente che in altri paesi [3]. È interessante tuttavia constatare che vi sono sempre più articoli in cui si fa il punto del percorso di condivisione delle decisioni in medicina nel proprio paese. Indicativa a questo proposito la serie di articoli pubblicati a maggio sulla rivista open access Zeitschrift für Evidenz, Fortbildung und Qualität im Gesundheitswesen, nel numero preparatorio della 9th International shared decision making conference [4].
Su queste pagine abbiamo voluto fare un’operazione diversa: offrire un contributo esperienziale sull’argomento dando spazio alla viva voce di alcuni pazienti e caregiver. Si tratta di undici persone che vivono o hanno vissuto un’esperienza di malattia oncologica: dieci donne e un uomo, di età compresa fra i 30 e i 60 anni, per la maggior parte del nord Italia. Quasi tutte queste persone hanno un rapporto diretto o indiretto con il Centro di riferimento oncologico (Cro) di Aviano perché in cura presso di esso o perché lo frequentano per altri motivi. Il Cro di Aviano è un istituto di ricovero e cura a carattere scientifico dove, da alcuni anni, è in atto un programma di tipo educazionale partecipato che coinvolge pazienti e operatori, finalizzato all’empowerment di tutte le persone coinvolte e dell’organizzazione nel suo insieme [5].
Le persone sono state invitate via mail a rispondere alle seguenti quattro domande:
- quanto sono condivise le decisioni lungo il percorso di cura e assistenza?
- quali opportunità ha il cittadino per informarsi correttamente per poter condividere consapevolmente le scelte terapeutiche?
- quanta disponibilità trova nel medico e nell’istituzione ospedaliera per un dialogo sulla cura?
- quali esperienze del Cro di Aviano sono significative al riguardo?
Nell’invito a rilasciare la propria testimonianza è stato spiegato il motivo della richiesta e che il loro contributo sarebbe stato pubblicato su Forward in forma trasparente o anonima a seconda delle loro indicazioni. Le persone sono state invitate a sentirsi libere di rifiutare e alla massima franchezza ed è stato loro garantito che nulla sarebbe cambiato nei nostri rapporti in ragione della loro risposta. Il criterio di individuazione di queste persone è stato di tipo personale in relazione a una conoscenza pregressa delle stesse in virtù di una loro partecipazione ad alcune delle attività di tipo informativo-educazionale o di promozione della scrittura o della lettura o di volontariato, coordinate dalla Biblioteca dei pazienti del Cro di Aviano di cui sono responsabile [6,7]. Quattro persone sono state interpellate tramite altri professionisti con cui ho collaborato in virtù della rete virtuale Patient education & empowerment che si è creata in Italia grazie a un progetto di ricerca supportato dal Ministero della salute [8]. Su 13 persone contattate due hanno declinato l’invito a esprimere la loro opinione in ragione del momento particolare che stanno attraversando. Le testimonianze raccolte non sono state in alcun modo alterate nel contenuto; gli unici interventi fatti sono di tipo editoriale, evidenziati e finalizzati a “cucire” i vari contenuti in modo da garantire la fluidità del testo.
Conclusioni (parziali)
Questo piccolo forum virtuale in cui le persone senza incontrarsi di persona hanno espresso la loro opinione sullo shared decision making fa emergere che il tema è molto sentito, da alcuni pazienti in modo quasi “carnale”, doloroso. Alcuni si sentono “fortunati” ad aver incontrato nel loro cammino operatori disponibili alla condivisione, altri sono testimoni di situazioni meno felici. Non tutti i pazienti intervistati dimostrano di aver chiari i termini della questione. Per alcuni invece la consapevolezza è molto forte. Tutti però apprezzano l’impegno delle organizzazioni a offrire opportunità educazionali per ridurre l’asimmetria informativa fra pazienti e curanti. Apprezzano inoltre soprattutto l’accoglienza da parte delle strutture di cura nel loro insieme, elemento questo che è in grado, talvolta, di compensare singole esperienze personali controverse o francamente negative.
Queste narrazioni personali offrono solo un insight sull’argomento, e non certo lo stato dell’arte in Italia di ciò che pensano i pazienti oncologici sul tema della condivisione delle decisioni circa il percorso di cura. Sono tuttavia molto narrative ed eloquenti e, a una lettura approfondita, possono offrire utili spunti per impostare una ricerca di tipo qualitativo sull’argomento che coinvolga un maggior numero di pazienti.
Ringraziamenti
Ringrazio ognuna delle persone che ha accettato di esprimere la propria opinione e anche chi non se l’è sentita. Siamo persone innanzitutto. Ringrazio anche le dottoresse Sara Francescon, farmacista che opera al servizio di Informazione sulle interazioni tra farmaci del Cro di Aviano, e la dottoressa Alba Chiarlone, psicoterapeuta e psico-oncologa che opera a Siracusa, per la collaborazione.
Dichiaro che non ho nessun conflitto di interessi con alcuna delle persone intervistate né con gli altri operatori coinvolti ma solo rapporti di collaborazione professionale.
Bibliografia
[1] National Learning Consortium. Shared decision making. Fact sheet 2013.
[2] Alper BS, Elwyn G. Prioritizing shared decision making. JAMA 2017;317:856-7.
[3] Deledda G, Mosconi P, Renzi C, Goss C. Il coinvolgimento del paziente nel processo clinico decisionale. Recenti Prog Med 2012;103:384-90.
[4] Härter M, Moumjid N, Cornuz J, et al. Shared decision making in 2017: International accomplishments in policy, research and implementation. Z Evid Fortbild Qual Gesundhwes 2017;123-4:1-5.
[5] Truccolo I, Cipolat Mis C, De Paoli P (a cura di). Costruire la patient education nelle strutture sanitarie. Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2016.
[6] Truccolo I. Luoghi per scrivere, svelarci e avere curiosità per un’informazione affidabile. In “La medicina narrativa strumento trasversale di azione, compliance e empowerment” . Bongiovanni M, Travagliante P (a cura di). Milano: Franco Angeli, 2017.
[7] Truccolo I. Providing patient information and education in practice: the role of the health librarian. Health Info Libr J 2016:33:161-6.
[8] Cipolat Mis C, Truccolo I, Ravaioli V, et al. Making Making patient centered care a reality: a survey of patient educational programs in Italian Cancer Research and Care Institutes. BMC Health Serv Res 2015;15:298.
La voce ai pazienti e caregiver
Barbara Bragato – Paziente
Faccio parte di quel 7 per cento di donne a cui è stato diagnosticato un tumore al seno metastatico fin dall’esordio. Quindi la mia situazione è certamente differente rispetto a quella che deve affrontare chi ha “solo” un tumore primario. All’inizio della malattia, credo, tutte le persone abbiano un senso di disorientamento, quantomeno perché spesso non siamo preparati a ciò che dovremo affrontare. Il primo istinto è quello di cercare sul web e non è quasi mai la scelta migliore. Tanto per fare un esempio io, all’epoca, (sono in cura da più di sette anni) cercai “tumore al fegato” perché avevo le metastasi lí senza sapere che essendo metastasi da tumore al seno rimaneva lo stesso [tumore al seno, ndc]. Un buon aiuto dal web per confrontarsi (sia per quanto concerne le cure che nei rimedi contro gli effetti collaterali) e sostenersi con altre donne che stanno vivendo la stessa situazione, si può trovare nei vari gruppi, generalmente chiusi, su FB [Facebook, ndc] soprattutto. Ce ne sono per pazienti con tumore al seno, col metastatico o per le persone vicine ai malati. Per il tumore al seno metastatico ho aperto io un gruppo, qualche anno fa, proprio perché sentivo l’esigenza di trovare altre testimonianze, di trovare persone con una buona qualità di vita che convivessero con la mia stessa malattia, perché le rassicurazioni del medico aiutano ma mai come un caso reale e tangibile.
Per la mia esperienza posso dire che la mancanza di tempo è sicuramente uno dei problemi maggiori da affrontare, insieme a un problema più complesso che è quello della comunicazione medico-paziente. Dico sempre che secondo me l’empatia non si può imparare (il mio oncologo fortunatamente ci è nato) ma per qualcuno un bel corso di comunicazione sarebbe indispensabile. Ho degli esempi di risposte date a donne malate e disorientate veramente terribili. Un consiglio che mi sento di dare a tutte le pazienti è di andare alla visita con le domande che si intendono fare scritte in un foglio per non dimenticare qualcosa.
Al Cro organizzano conferenze brevi su svariati argomenti interessanti che spaziano dall’alimentazione all’aiuto psicologico: trovo siano delle opportunità da sfruttare sia per conoscenza personale sia per la possibilità che si ha di fare domande con risposte approfondite.
Un’altra grande opportunità è data dai farmacisti che hanno aperto uno sportello dedicato ai pazienti dove forniscono indicazioni sulle possibili interazioni farmacologiche tra le terapie in corso, i farmaci che utilizziamo, tradizionali, omeopatici, fitoterapici e alimenti. Questo è un argomento molto importante e che spesso i pazienti ignorano non sapendo quindi nemmeno che alcune interazioni possono addirittura ridurre l’assorbimento del farmaco o aggravarne gli effetti collaterali. Succede poi che proprio per ignoranza o noncuranza si omette di dire all’oncologo i farmaci alternativi o alimenti che prendiamo con costanza oltre la terapia provocando i danni sopracitati.
La mancanza di tempo è sicuramente uno dei problemi maggiori da affrontare.
Non dobbiamo avere paura di parlare con l’oncologo, dobbiamo poter fidarci di lui e parlarci sempre con onestà. Molte sono poi le pubblicazioni che vengono fornite gratuitamente e che trattano vari argomenti da come della malattia ai figli alle procedure per l’invalidità. Secondo me tutte queste cose andrebbero analizzate a casa per poi poter sfruttare al meglio il poco tempo che abbiamo con l’oncologo. Quando si deve iniziare una terapia (soprattutto all’inizio) ho notato che il protocollo è standard, da metastatica invece valutiamo sempre insieme effetti collaterali e benefici prima di decidere.
Eleonora Brun – Paziente
“Ascoltare un paziente non richiede solo strumenti medici”.
Negli anni abbiamo assistito ad una repentina evoluzione del rapporto tra medico e paziente passando da una visione più professionale e distaccata ad una relazione decisamente più empatica. Sino a pochi anni fa veniva richiesto al proprio medico solamente la risoluzione del problema di salute attraverso le sue capacità professionali, mentre al giorno d’oggi mi pare evidente come le cose siano cambiate, e come questo approccio non sia più sufficiente per entrambe le figure coinvolte.
Per quanto mi riguarda trovo fondamentale la condivisione con il proprio oncologo dei percorsi terapeutici, nonché la trasparenza in merito ad eventuali conseguenti effetti da sopportare. La situazione in cui spesso il paziente si trova è delicata per questo è decisamente importante per lui, il sapere che difronte non vi è solo un medico oberato di lavoro ma qualcuno in grado di porsi allo stesso livello, capace quindi, di prestare attenzione non solo alla salute fisica ma piuttosto al benessere della persona.
Ecco perché sono fermamente convinta che la comunicazione sia uno strumento indispensabile anche nel rapporto tra sanità e cittadino, in grado di aprire un dialogo bilaterale di cura e lavorare insieme affinché la struttura sanitaria possa andare incontro alle esigenze dei pazienti. Dico questo analizzando la situazione in veste di paziente, portando così la mia personale opinione in merito. Spesso le paure vengono espresse in domande poste verso colui che ha il piccolo grande potere di placare l’ansia e il timore. Ecco perché si ha bisogno di un rapporto empatico: il paziente sente la necessità di un contatto con il proprio medico e soprattutto di comprensione. D’altra parte il paziente deve a sua volta capire che colui che lo ha in cura è un essere umano e come tale porta ad ogni incontro, in maniera più o meno consapevole, un po’ di se e del suo vissuto. Questo credo sia inevitabile. Ascoltarsi a vicenda e rispettarsi, un lavoro importante che entrambe la parti devono fare.
Secondo la mia personale esperienza, posso affermare con serenità di sentirmi in ottime mani e questo non dipende solo dalla professionalità scontata del mio oncologo ma da un certo rapporto di condivisione instaurato fra noi: il fatto di non essere un numero ma avere l’impressione che la mia situazione di salute sia importante così come la mia guarigione. Reputo il mio medico un uomo che fa le cose con il cuore e che comprende il dolore altrui. Sapere di essere ascoltata in qualsiasi occasione e avere una risposta a ogni dubbio che mi viene mi rassicura parecchio e ancora più importante il sentirmi libera di porre qualsiasi domanda che mi passa per la testa seppur assurda, domande che racchiudono desideri, timori, angosce, delusioni e aspettative. Domande che vengono percepite esattamente così e che trovano comunque una risposta.
La disponibilità di un medico che cerca di tranquillizzarmi di persona, per telefono e anche per e-mail, una chiamata da parte sua volta a comunicarmi l’esito della tac sapendo quanto tu /io sia in ansia per esso. Tutto questo per me rappresenta l’empatia e un rapporto di condivisione e ascolto reciproco costruito fra due persone in funzione di essa. Il segreto per capire gli altri è identificarsi con loro.
Ascoltarsi a vicenda e rispettarsi.
EG – madre di un paziente
Come mamma di un paziente oncologico devo dire che nei cinque anni di malattia di mio figlio ne ho avuta parecchia di esperienza, considerando il fatto di essere passati attraverso tre ospedali. Nel 2008, quando mio figlio si è ammalato, per capire di che malattia si trattasse alcune informazioni le ho ottenute chiedendo direttamente alla biblioteca del Cro di Aviano, quando siamo arrivati lì per le terapie. Prima, per sapere qualcosa in più di quello che ci diceva il medico a Udine, mi sono informata su internet.
Per quello che riguardava la cura, il medico del Cro ci ha informati su come procedere, rassicurandoci che il protocollo usato veniva condiviso in tutta Europa. Non è che potevamo avere tanta scelta, ovviamente ci siamo fidati, sapendo che il Cro era un istituto d’eccellenza nel trattamento, sia per la radioterapia che chemioterapia. Comunque mi sono informata cercando anche altre possibilità, soprattutto perché mio figlio ritardava le cure, per difficoltà nella ripresa dei valori ematici. Ero preoccupata che non ce la facesse, per questo ne ho parlato con il suo oncologo e lui è stato molto disponibile nell’ascoltarmi e nel commentare eventualmente le scoperte che facevo studiando le casistiche. Questo, nella prima fase della malattia, perché purtroppo nella recidiva le cose sono state talmente veloci da non lasciarci il tempo di fare molto.
L’unico appunto che mi sento di fare, è sull’assistenza logistica della situazione. Mi spiego, soprattutto nel 2008, non ho avuto molto aiuto nell’aspetto burocratico; sapere che potevamo fare domanda d’invalidità per ottenere corsie preferenziali; la possibilità di avere gli ausili senza noleggiarli; come procedere per la fisioterapia…Di questi aspetti, mi ci sono “sbattuta”completamente contro, ho avuto una serie di difficoltà che ho superato grazie all’aiuto di amici (fisioterapisti ed infermieri) che mi hanno dato lo spunto e l’aggancio necessari.
In ogni caso, soprattutto nella recidiva del 2013, ho riscontrato una grande difficoltà di dialogo con alcuni medici di [struttura diversa dal CRO, ndc]. Mi sembrava di lottare contro i mulini a vento. Cosa che non ho riscontrato tra il personale infermieristico, molto attento e disponibile.
Arrivando al CRO comunque, mi sono sentita ben accolta e capita, insieme a mio figlio [anche se poi è mancato, ndc]; il dialogo non è mai mancato, per fortuna. Mi hanno ascoltato nelle richieste e sono stati molto disponibili nel soddisfare i problemi legati al recupero fisico, mandando subito il fisioterapista in stanza e collegandoci all’altro Ospedale per il recupero Post-terapia.
Camilla Mia Lazzarini – paziente
Undici anni a braccetto con il cancro. Ho perso il conto delle visite e dei medici con cui ho parlato. Sono una paziente impegnativa, voglio conoscere ogni dettaglio della mia malattia e delle terapie e non accetto nulla passivamente. Dall’oncologo non mi aspetto prescrizioni ma informazioni e proposte. Dopo tanti anni, mi capita ancora che qualcuno mi chieda cosa hanno deciso i medici. E ogni volta rispondo che i medici non decidono niente: loro propongono e io decido. Molti sembrano scandalizzati da questa affermazione e questo mi dà la misura di quanto si deva ancora lavorare sulla cultura della condivisione.
Dopo aver sentito per la prima volta la parola liposarcoma ho iniziato subito a cercare informazioni. Su Internet, perché è il canale più accessibile per me che utilizzo molto il computer. Fortunatamente la mia esperienza di navigazione in Rete mi ha portato a selezionare fin dall’inizio le informazioni, scartando i siti “alternativi” a favore di quelli istituzionali. Se mi fosse mancata questa capacità critica, probabilmente sarei sprofondata nel caos, con il rischio di lasciarmi irretire dal canto delle sirene delle pseudomedicine. Le informazioni raccolte attraverso il web, i consulti specialistici in diverse strutture, i colloqui con il medico di medicina generale e il confronto con altri pazienti mi sono serviti per valutare criticamente la situazione. Ho discusso di ogni aspetto delle terapie, dalla scelta dei protocolli ai farmaci e integratori da assumere per contrastare gli effetti collaterali: spesso ho accettato le proposte dei medici, a volte le ho respinte e abbiamo concordato soluzioni alternative. Qualcuno apprezza il mio atteggiamento, altri meno: immagino che vedere messa in discussione la propria autorità non mi renda particolarmente simpatica, ma pazienza, me ne farò una ragione.
Ritengo che spesso i medici siano vittime della sindrome dell’orticello. Soltanto due volte, nella mia esperienza, è successo che un oncologo mi abbia fornito spontaneamente informazioni su protocolli, terapie, strumenti e tecniche di diagnosi e cura disponibili in strutture diverse dalla propria. Certo, tutti lo hanno fatto quando li ho sollecitati, ma controvoglia, cercando a volte di minimizzare le qualità altrui. Atteggiamento comprensibile dal punto di vista umano, ma poco opportuno in un ambito in cui c’è in gioco la vita di una persona. In generale, comunque, ho trovato una buona disponibilità al dialogo in occasione di visite ambulatoriali e day hospital e sono convinta che in questo sia stato fondamentale avere un medico di riferimento, anziché incontrare ogni volta una persona diversa. La continuità della relazione permette di non dover raccontare ogni volta tutta la storia dall’inizio, perdendo un sacco di tempo con il rischio di tralasciare qualcosa, concentrandosi ad ogni incontro solo su ciò che è importante in quel momento. Durante i ricoveri, invece, è più difficile essere parte attiva del processo decisionale. Il degente è in una condizione di particolare debolezza e fragilità e il suo coinvolgimento spesso non va oltre la firma del consenso informato per l’intervento chirurgico. Non c’è condivisione sui farmaci somministrati, a parte chiedere se ci sono allergie, né possibilità di accesso alla cartella clinica se non dopo le dimissioni. Paradossalmente, inoltre, il ricovero non favorisce il colloquio: i medici di reparto raramente hanno il tempo di fermarsi a parlare con i pazienti e di solito non c’è un caregiver di riferimento.
Dall’oncologo non mi aspetto prescrizioni ma informazioni e proposte.
EC, uomo – paziente
Quanto sono condivise le decisioni lungo il percorso di cura e assistenza?
Le scelte importanti non sono condivise, il paziente deve accettare le decisioni che avvengono nei consulti tra medici. Le decisioni vengono imposte, non si conosce nei dettagli il percorso che si dovrà affrontare; Inoltre il percorso post-tumore è una strada che devi affrontare in solitaria o devi appoggiarti ad associazioni volontarie che per fortuna sono presenti nel territorio.
Quali opportunità ha il cittadino per informarsi correttamente per poter condividere consapevolmente le scelte terapeutiche?
Quando scopri di avere un tumore, cerchi nella struttura o nel medico un appoggio per delle spiegazioni e rassicurazioni sulle diverse possibili soluzioni, sei praticamente indotto ad accettare quanto ti viene proposto, soprattutto se la scoperta è improvvisa e devi muoverti in fretta, questo riduce la possibilità di consultare altre strutture/medici. La cosa più semplice ed immediata è quella di consultare Internet per ricercare le varie patologie, considerando che spesso le notizie sono forvianti.
Quanta disponibilità trova nel medico e nell’istituzione ospedaliera per un dialogo sulla cura?
Come paziente confermo che la disponibilità che riscontri nei medici varia da soggetto a soggetto, alcuni, seppur competenti, trasmettono un certo distacco che non aiuta. Grande aiuto è stato svolto dal personale infermieristico, che si è dimostrato preparato, molto disponibile e di fondamentale supporto per le cure ed il post-cura.
Quali esperienze del CRO di Aviano sono significative al riguardo?
Il CRO è un’ ottima struttura ospedaliera, ma emerge che mancano certi riferimenti per i pazienti, soprattutto nella riabilitazione, fondamentale per certi aspetti (es. cura dell’alimentazione, sostegno psicologico mirato, consigli su attività fisiche utili ad aiutare la ripresa delle normali funzioni vitali ecc.). La mia è l’esperienza di un percorso estremamente difficile, ma che ha messo in luce le grandi qualità umane e professionali del personale [con cui mi sono rapportato, ndc].
Alcuni, seppur competenti, trasmettono un certo distacco che non aiuta.
SC, donna – paziente
Due anni fa iniziavo un percorso di cura alquanto articolato. Particolarmente sofferto, soprattutto dal punto di vista psicologico, è stato il processo diagnostico, non mi è stato risparmiato nulla: ho iniziato con mammografia ed ecografia, ho continuato con diverse biopsie a entrambi i seni e al cavo ascellare sinistro, ho concluso con scintigrafia e risonanza mammaria. L’intervento chirurgico è esitato in mastectomia, svuotamento del cavo ascellare, quadrantectomia all’altro seno. È seguito un ciclo piuttosto pesante di chemioterapia e radioterapia.
Il mio rapporto con il personale del CRO in questo lungo percorso? Nella fase diagnostica, la più delicata dal punto di vista psicologico, non sempre ho riscontrato una forte dimensione empatica, soprattutto nel personale medico. Capisco che i pazienti sono tanti e che è prioritario comportarsi professionalmente dal punto visto tecnico, ma è anche vero che ogni paziente è unico, ha una sua storia, ha un suo vissuto, una sua rappresentazione della realtà… insomma avrei molto apprezzato una maggiore attenzione alla personalizzazione della relazione, che avrebbe potuto realizzarsi anche senza sforzi eccessivi. Sarebbe stato sufficiente ad esempio non spazientirsi di fronte alla mia richiesta di ripetermi alcuni passaggi sulle modalità dell’intervento di mastectomia. Anche la comunicazione non verbale/paraverbale avrebbe potuto aiutarmi molto, per esempio un sorriso, una pacchetta sulle spalle… avrebbero rappresentato un segno di maggiore vicinanza, di incoraggiamento, un deciso segnale che ti puoi affidare totalmente alla figura che hai di fronte.
Ricordo che, quando mi sono svegliata dall’intervento, mi sentivo massacrata, dolori lancinanti …non mi capacitavo, continuavo a chiedere antidolorifici di tutti i tipi… mi chiedevo se era normale stare in quelle condizioni… mi veniva detto che l’intensità del dolore dipendeva dall’espansore mammario che era stato inserito. A quel punto pensai che se mi fosse stato detto del dolore acuto a cui si andava incontro non avrei deciso per l’inserimento…
Durante la chemioterapia, sono stata sottoposta a controlli con vari specialisti. Durante un controllo ginecologico, il medico, nonostante la mia opposizione con le lacrime agli occhi, decise di eseguire delle biopsie per scongiurare altre problematiche…e come se non bastasse ad elevare il mio stato di preoccupazione, mi veniva anche illustrato con dovizia di particolari gli effetti della futura terapia ormonale… Per fortuna le biopsie ebbero esito negativo… era quindi il caso di infierire in quel momento del percorso terapeutico sul mio stato di vulnerabilità?
In altri controlli, la professionalità degli operatori sarebbe stata più apprezzata se evidenziassero di conoscere il percorso terapeutico della paziente che hanno in visita, evitando ad esempio domande che avrebbero potuto incutere preoccupazione. E ricevere o fare telefonate durante una visita o colloquio non genera sempre l’impressione di aver un contatto esclusivo con il paziente …
Non sono mancate molte luci nel mio percorso terapeutico. Durante il ricovero: le volontarie dell’Associazione locale Andos, che hanno dimostrato una delicata vicinanza offrendo informazioni utili con opuscoli sul percorso riabilitativo e sull’iter per il riconoscimento dello stato di invalidità; il servizio di psicologia con un’ampia gamma di modalità di approccio; lo staff della Biblioteca Pazienti che si è prodigato nel fornirmi informazioni, opuscoli, libri su diversi tematiche oncologiche. Durante il percorso chemioterapico ho molto apprezzato l’articolato Programma di “Patient Education & Empowerment” che mi ha permesso di sperimentare positivamente un ciclo di riflessologia plantare, di avere dei colloqui con radiologi/oncologi su specifiche tematiche di mio interesse, di partecipare a numerosi e interessanti incontri a tema organizzati su vari aspetti che coinvolgono le malattie oncologiche come, la gestione delle emozioni, la qualità degli alimenti e le loro etichette, le questioni controverse in tema di alimentazione, la riabilitazione e l’attività fisica, la medicina integrata: il tocco terapeutico, le terapie mente-corpo (yoga, meditazione).
Grazie alla partecipazione a questi incontri è aumentata la consapevolezza che attraverso una conoscenza approfondita sulle varie dimensioni e aspetti della malattia oncologica è possibile governare meglio la propria qualità della propria vita.
Avrei molto apprezzato una maggiore attenzione alla personalizzazione della relazione.
Marilena Bongiovanni – presidente nazionale Angolo onlus
Parlare di integrazione del percorso di cura, di condivisione delle decisioni tra medico e paziente, è una scelta ardua ma proponibile.
Proponibile, perché al CRO sono notevoli gli sforzi in questa direzione e grandi i risultati che si ottengono.
Quando il paziente arriva al CRO è forte da parte di alcuni medici il bisogno di accogliere nel modo più “confortevole” il paziente e di metterlo a proprio agio nonostante la sgradevole posizione in cui si trova: una diagnosi di cancro non è delle più agevoli da digerire e l’accoglienza è il primo passo nella manifestazione di buona volontà nel voler ascoltare e condividere.
Ci sono pazienti che sono arrivati qua dopo diagnosi e cure fatte altrove. Il ritorno della malattia e la sconvolgente convinzione di non essere stati curati nel modo opportuno porta questi pazienti a cercare altrove ciò che non hanno saputo o voluto condividere nei posti da cui provengono. La diagnosi di malattia è il primo passo nel percorso di cura, è il momento più difficile e quello in cui ha più importanza essere seguiti. Al CRO c’è molta attenzione per il momento diagnostico e alla costruzione insieme al paziente dell’iter terapeutico. Il paziente non viene lasciato solo perché sono tante le offerte che si profilano all’orizzonte. Prime fra tutte le attività del programma di Patient Education, che non vuole educare il paziente a fare il paziente, ma vuole essere uno strumento di crescita e di sviluppo di potenzialità insieme al paziente, un percorso di formazione in cui medico e paziente, insieme, imparano e crescono, e insieme producono quegli aspetti integrativi ma sostanziali di apprendimento.
Alcuni esempi sono la stesura di libretti per il paziente, scritti con una regia unica, e analizzati sempre dalle associazioni di pazienti prima di divulgarli; l’inserimento nei corsi di Nordic Walking per la riabilitazione oncologica per il mantenimento e/o miglioramento delle qualità della vita in tutte le fasi della malattia; i massaggi di reflessologia plantare per migliorare la risposta e/o eliminare alcuni degli effetti collaterali delle chemio.
Altro aspetto importante è la riabilitazione. Sempre più si afferma il concetto di riabilitazione come parte integrante del progetto di cura del paziente neoplastico. Insieme a chirurgia, chemioterapia e radioterapia, la riabilitazione deve intervenire in tutte le fasi dell’iter diagnostico/terapeutico, con lo scopo del mantenimento e/o miglioramento della qualità di vita. Il programma riabilitativo deve essere diversificato, multidisciplinare, personalizzato, flessibile, stabilito anche sulla base dell’habitus psicologico del paziente oltre che del contesto psico-sociale in cui egli vive.
In quest’ottica la Psiconcologia, riconosciuta come disciplina autonoma, rientra a pieno titolo nel percorso riabilitativo della persona malata, sia come terapia specifica per il paziente, sia come supporto permanente per gli operatori della sanità.
Il consolidamento a tutti i livelli del lavoro in rete, con integrazione tra Psiconcologia e associazioni di pazienti e di volontariato è già una pratica corrente. Le associazioni di pazienti, in particolare, hanno ben compreso l’importanza di questa integrazione e del ruolo fondamentale della riabilitazione psicologica nel paziente oncologico.
Un’attività spesso proposta dalle associazioni di pazienti riguarda la scrittura terapeutica che può rientrare a pieno titolo nelle pratiche terapeutiche volte alla riabilitazione psicologica dei pazienti oncologici e può occupare un posto non secondario nelle molteplici attività di umanizzazione.
Valorizzare lo strumento della scrittura autobiografica, significa approfondire la conoscenza di sé, scoprire altri aspetti di sé, lavorare su se stessi e relazionarsi con meno fragilità, più sicurezza e determinazione. Estendere questa pratica lungo l’arco della vita significa attuare una specie di lifelong rehabilitation.
L’associazione ANGOLO, sede nazionale presso il Centro di Riferimento Oncologico (CRO) di Aviano, dal 2013 ha sviluppato un percorso riabilitativo al CRO e in varie sedi in Italia attraverso lo strumento della scrittura.
Riteniamo che al CRO il percorso della condivisione delle scelte terapeutiche da parte del paziente sia svolto anche negli aspetti più intimi della malattia oltre che in quelle di sostegno e di accudimento.
Anna Clara – paziente
Ritengo che, purtroppo, non in tutte le strutture il cittadino abbia la possibilità di essere correttamente informato sulla reale entità del suo problema di salute e sulle scelte terapeutiche da adottare.
Purtroppo, non sempre la disponibilità del medico curante e dell’istituzione ospedaliera è adeguata alle istanze del malato. Istanze che sono molteplici, in un ventaglio che abbraccia una richiesta di aiuto oggettiva, terapeutica, con un supporto psicologico che indirizzi il paziente verso la strada della guarigione.
Ho notato, piacevolmente sorpresa, che il Cro di Aviano, polo di eccellenza in campo ospedaliero e all’avanguardia nella ricerca, interagisce con la persona malata in una visione olistica. Le molteplici attività di accoglienza, sensibilizzazione, informazione che rientrano nella mission di questa struttura creano un clima empatico di collaborazione fra la PERSONA e il medico con il suo team. La collana CRoinform, il cifav con le informazioni sui farmaci, il Cronews favoriscono tutti un servizio che rende consapevole e cosciente il paziente che sa comprendere e sente di essere tutelato da un organico di altissima qualità, in un’ottica duale, mente-corpo imprescindibile in un cammino di guarigione.
Ho notato, piacevolmente sorpresa, che il Cro di Aviano, interagisce con la persona malata in una visione olistica.
Simona Prete – paziente, infermiera
La mia esperienza è quella di infermiera in oncologia, che ha subito un intervento di “mastectomia” per carcinoma della mammella, proposto giustamente dal primo chirurgo a cui mi sono rivolta. Alla mia richiesta di intervenire sull’altro seno presumibilmente sano, nello stesso modo, al fine di ottenere una profilassi chirurgica, mi sono sentita rispondere in maniera poco chiara con frasi come “No… si potrebbe ma… forse… vedremo…” conclusasi con un rifiuto da parte del medico. La mia richiesta era motivata dalla mia conoscenza e dalla condivisione del percorso con l’oncologo di riferimento. Fortunatamente il secondo chirurgo contattato ha ascoltato, compreso, condiviso e, dopo avermi sottoposta a consulto psicoterapeutico e successivi colloqui con l’équipe medica, ha accettato la mia proposta. A tre anni dalla diagnosi sono ancora infermiera in oncologia, per scelta, ma soprattutto sono serena.
Circa le opportunità per il cittadino di informarsi correttamente per poter condividere consapevolmente le scelte terapeutiche, credo che avere come interlocutore un medico aperto al dialogo e che usi un linguaggio chiaro sia il modo migliore per avere informazioni adeguate. Una “seconda opinione” potrebbe avvalorare o meno le scelte terapeutiche proposte. Non credo alla informazione tramite Web, confonde ed è priva di feedback.
Riguardo alla disponibilità trovata nel medico e nell’istituzione ospedaliera per un dialogo sulla cura, posso dire che, nella mia esperienza personale, ho incontrato un “chirurgo conservatore” che poco ha considerato la mia persona nella sua interezza ed esperienza di vita; un oncologo assolutamente disponibile al dialogo ed alla condivisione e un “Chirurgo olistico”, vero alleato terapeutico.
Rossana Coccolo – paziente
Scrive Rossana che “all’inizio per timore la condivisione era minima poi ho imparato a farlo in libertà e autonomia”. Riguardo le fonte di informazioni risponde che utilizza spesso il mezzo informatico collegandosi a siti conosciuti e autorevoli “ma la fonte preferita resta il personale medico del centro di Aviano”. La disponibilità al dialogo da parte del personale medico è stata “pressoché totale a parte una sporadica esperienza di tipo negativo”. Tra le esperienze al Cro di Aviano che reputa significative ricorda: “Una di queste è stata senza dubbio aver conosciuto prima telefonicamente e poi personalmente la dott.ssa… [del Servizio di informazione farmaci, ndc]. Competenza, umanità e disponibilità. La conoscenza del dottor… [chirurgo, ndc] è stata poi fondamentale per l’intervento e il successivo percorso. Ottima impressione”.
Mi sono sempre sentita accudita e ben seguita da tutti.
AL, donna – paziente
AL si dichiara completamente d’accordo sulla prima domanda relativa alla condivisione delle decisioni durante il percorso di cura o di assistenza, ma non approfondisce. Circa la possibilità per il cittadino di informarsi, scrive che lei personalmente “oltre che a parlare con i miei medici curanti, ne parlo con i miei familiari, con il mio medico di base e mi informo su internet per poi rivolgere eventuali domande ai medici”. Continua dicendo che trova “molta disponibilità nel medico e nell’ospedale per un dialogo sulla cura”. Riguardo le esperienze significative al Cro, dice “Non ho esperienze particolari ma mi sono sempre sentita accudita e ben seguita da tutti.”
La fotografia in alto è di Evan Blaser: “The yellow line”. Flickr Creative Commons.