Nel 2010, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) intitolò il proprio rapporto annuale Health systems financing: the path to universal coverage [1]. Sono tre – secondo il documento dell’Oms – i problemi, fondamentali e tra loro collegati, che impediscono ai paesi del mondo di raggiungere la copertura universale. Il primo è la disponibilità di risorse. Nessun paese, anche il più ricco, è in grado di garantire che ogni persona abbia immediato accesso a ogni tecnologia e a ogni intervento che possa migliorare la propria salute o prolungare la propria vita. All’altro estremo della scala, nei paesi più poveri, pochi servizi sono disponibili per tutti. La seconda barriera è il pagamento diretto delle prestazioni (visite, accertamenti diagnostici, farmaci, ricoveri). Anche se le persone hanno una qualche forma di assicurazione, spesso devono contribuire sotto forma di ticket o di franchigie. L’obbligo di pagare – formalmente o anche informalmente (sottobanco) – nel momento del bisogno impedisce a milioni di persone di accedere ai servizi oppure di dovere andare incontro a spese catastrofiche e spesso di finire in povertà. Il terzo impedimento verso un rapido raggiungimento della copertura universale è l’inefficiente e iniquo uso delle risorse. Secondo una stima prudente, il 20-40 per cento delle risorse sanitarie è sprecato. Ridurre questi sprechi migliorerebbe grandemente la capacità dei sistemi sanitari di fornire servizi di qualità e di migliorare la salute della popolazione.
Ridurre gli sprechi migliorerebbe grandemente la capacità dei sistemi sanitari di fornire servizi di qualità e di migliorare la salute della popolazione.
Quando un sistema sanitario è finanziato attraverso il pagamento diretto delle prestazioni (il cosiddetto pagamento out of pocket), tutti pagano lo stesso prezzo indipendentemente dalla propria condizione economica. Viene così a cadere ogni forma di solidarietà tra sani e malati, tra ricchi e poveri. Questo sistema rende impossibile distribuire i costi durante il ciclo della vita, pagando i contributi quando uno è giovane e sano e ricevendo i servizi gratuitamente in caso di malattia durante la vecchiaia. Quasi tutti i paesi impongono qualche forma di pagamento diretto, ma nei paesi più poveri la proporzione della spesa sanitaria attraverso pagamenti out of pocket è più alta: nel 2007 – rilevava il rapporto – in 33 paesi a basso e medio reddito questi rappresentavano più del 50 per cento della spesa sanitaria totale. “L’unico modo di ridurre il ricorso al pagamento diretto delle prestazioni sanitarie – afferma ancora il rapporto – è quello di promuovere la distribuzione del rischio, attraverso forme di prepagamento, la strada scelta da molti paesi per avvicinarsi alla copertura universale. Quando una popolazione ha accesso al prepagamento e ai meccanismi distributivi del rischio, l’obiettivo della copertura sanitaria universale (universal health coverage, uhc) diventa più realistico. E quando i pagamenti out of pocket scendono al 15-20 per cento della spesa sanitaria totale il rischio di catastrofe finanziaria e di impoverimento si riduce a livelli trascurabili.”
Universal health coverage: la risoluzione delle Nazioni Unite
Nel 2012 il tema della copertura sanitaria universale diventa oggetto di una risoluzione approvata dall’assemblea delle Nazioni Unite, il 6 dicembre [2], dove si legge:
L’Assemblea generale riconosce:
- l’importanza della copertura universale nei sistemi sanitari nazionali, specialmente attraverso i meccanismi di assistenza sanitaria di base e di protezione sociale, per fornire l’accesso ai servizi sanitari a tutti, e in particolare ai segmenti più poveri della popolazione;
- che la copertura sanitaria universale comporta che tutte le persone abbiano accesso, senza discriminazioni, all’insieme dei servizi preventivi, curativi e riabilitativi, definiti nazionalmente, e ai farmaci essenziali, sicuri, economici, efficaci e di qualità, con la garanzia che l’uso di questi servizi non esponga i pazienti – particolarmente i gruppi più poveri e vulnerabili – alla sofferenza economica;
- che gli stati membri devono far sì che i sistemi di finanziamento della sanità impediscano il pagamento diretto delle prestazioni da parte dei pazienti e introducano sistemi di prepagamento e di distribuzione del rischio per evitare spese catastrofiche a causa delle cure mediche e il conseguente impoverimento delle famiglie;
- il bisogno di continuare a promuovere, istituire o rafforzare politiche nazionali multisettoriali e piani per la prevenzione e il controllo delle malattie croniche, e di applicare sempre più estesamente tali politiche e programmi, incluso il riconoscimento dell’importanza della copertura universale all’interno dei sistemi sanitari nazionali.”
L’approvazione della risoluzione dell’assemblea delle Nazioni Unite rappresenta secondo The Lancet l’inizio di una nuova fase in cui la copertura sanitaria universale diventa l’obiettivo chiave della salute globale. “In tutto il mondo – si legge nell’editoriale – ogni anno circa 150 milioni di persone affrontano spese sanitarie catastrofiche a causa dei pagamenti diretti delle prestazioni, mentre 100 milioni sono trascinate al di sotto della linea di povertà. Nella misura in cui le persone sono coperte da meccanismi di distribuzione del rischio e di prepagamento, si riduce anche il numero di coloro che vanno incontro a danni finanziari causati dalle malattie. Un sistematico approccio verso la copertura sanitaria universale può avere un effetto trasformativo nella battaglia contro la povertà, la fame e la malattia” [3].
The Lancet aveva già dedicato alla copertura sanitaria universale una serie di editoriali e di articoli nel settembre 2012. In uno di questi si sottolineava l’importanza della copertura sanitaria universale nel miglioramento della salute della popolazione, in particolare della salute materno-infantile [4]. Uno studio, per esempio, ha rilevato la riduzione del 7,9 per cento della mortalità dei bambini al di sotto dei 5 anni in risposta al 10 per cento di incremento della spesa sanitaria pubblica pro capite, mentre nessun effetto è stato osservato dall’aumento della spesa sanitaria privata [5]. Un recente rapporto dell’Unicef stima che aumentando di 10 punti percentuali la quota della spesa sanitaria destinata a forme di prepagamento si riduce il tasso mortalità dei bambini al di sotto dei 5 anni di 15 per mille, equivalente a 500mila vite di bambini salvati soltanto in India e Nigeria, senza aumentare la spesa sanitaria totale [6].
“La copertura sanitaria universale si trova all’intersezione della politica sociale con la politica economica”, scrive Julio Frenk, già ministro della sanità messicana. “L’introduzione di riforme che promuovono la copertura universale non è soltanto una cosa buona sul piano etico; è anche un’idea brillante per raggiungere la prosperità economica. Questo è uno dei modi più potenti per combattere la povertà, mentre quando le società non assicurano un’effettiva copertura per tutti, ciò diventa un fattore di impoverimento per le famiglie. La copertura sanitaria universale quindi è in grado di mantenere una grande promessa: il focus sull’incremento dell’accesso a servizi di alta qualità con la protezione finanziaria integra politica sociale ed economica, in un modo che – se fatto bene – può portare benefici alle società in tutto il mondo” [7].
L’introduzione di riforme che promuovono la copertura universale non è soltanto una cosa buona sul piano etico; è anche un’idea brillante per raggiungere la prosperità economica.
Julio Frenk
Nella risoluzione delle Nazioni Unite del 6 dicembre 2012 riecheggiano affermazioni e concetti contenuti nella dichiarazione di Alma Ata del 1978. Ci troviamo di fronte al ritorno dell’universalismo, a una sorta di ricorso storico? Non esattamente, perché la stagione che stiamo vivendo è profondamente diversa da quella in cui è nato e si è sviluppato l’universalismo, tuttavia non c’è dubbio che si è aperta una fase diversa. Diversa rispetto alla stagione di segno fortemente neoliberista – degli anni ottanta e novanta – che l’ha preceduta.
L’importanza del lessico
Che ci si trovi un periodo storico molto diverso da quello in cui fiorì e si sviluppò l’universalismo di Beveridge prima e poi quello di Alma Ata, lo si capisce molto bene dall’uso delle parole. La conferenza di Alma Ata si concluse con l’obiettivo health for all (salute per tutti), mentre l’Oms e anche le Nazioni Unite, negli ultimi tempi, hanno scelto il termine “universal health coverage”. Avrebbero potuto usare universal health care, assistenza sanitaria universale, e si sarebbero avvicinati a health for all (con una differenza sostanziale: health care è riduttivo rispetto al semplice health, perché non si occupa di determinanti sociali di salute). Ma hanno usato coverage invece di care.
Il termine coverage si applica alla copertura assicurativa, attraverso differenti forme di prepagamento.
- Il modello Beverigde, dove l’universalità della copertura è garantita dallo stato e finanziata dalla fiscalità generale. Nato in Inghilterra è stato adottato in molti paesi, tra cui l’Italia.
- Il modello Bismarck (dal nome del cancelliere tedesco che lo introdusse in Germania negli anni ottanta dell’800), basato sulle assicurazioni sociali obbligatorie, finanziate da datori di lavoro e dipendenti. I beneficiari sono i lavoratori e le loro famiglie, ma in molti paesi lo stato interviene per coprire anche disoccupati, disabili e pensionati. Oltre che in Germania tale modello è adottato in diversi paesi centro europei, come Austria e Francia, e asiatici, come Giappone e Corea del Sud.
- Il modello delle società di mutuo soccorso, nate nell’800 in Europa, che oggi hanno il nome di community health insurance dove, volontariamente, gli appartenenti a un’associazione, un sindacato, una categoria, una comunità si tassano per coprire le spese sanitarie di un socio. Recentemente questo tipo di assicurazione si è sviluppato in Asia (vedi India, Indonesia e Filippine) e in Africa (vedi Ghana, Ruanda e Tanzania).
- Il modello delle assicurazioni sanitarie private, generalmente profit, dove gli assicurati acquistano volontariamente una polizza, il cui costo è molto variabile in relazione alla condizione di rischio dell’assicurato (età, abitudini di vita, stato di salute, ecc.), alle caratteristiche delle prestazioni che vengono garantite in caso di malattia o infortunio, al livello di partecipazione alla spesa (copagamento, detto anche ticket) e di franchigia (l’assicurazione inizia a pagare dopo che le spese a carico del paziente hanno raggiunto una determinata soglia). Nate negli Usa, sono presenti in tutto il mondo.
Perché ci è concentrati sul coverage che è una parte della care? Perché ci si preoccupa così tanto dell’aspetto finanziario dell’assistenza (coverage) e si mettono in secondo piano l’organizzazione e l’erogazione dei servizi (care)? Le risposte a queste domande sono diverse, anche di segno politico diverso.
La prima e la più rilevante spiegazione è che le radicali politiche neoliberiste – drastica riduzione della spesa sanitaria pubblica, privatizzazione dei servizi, spese catastrofiche delle famiglie, rinuncia a curarsi – avevano creato una situazione socialmente, e anche umanamente, non più sostenibile e tollerabile. Limitandoci a due soli paesi, i più popolosi come Cina e India, agli inizi del 2000 su una popolazione di 2 miliardi e 300 milioni di persone, meno di un terzo di essa godeva di una qualche copertura assicurativa. Andava un po’ meglio in Messico dove, su 100 milioni di abitanti, solo la metà di essi usufruiva della copertura assicurativa: coloro che avevano un rapporto di lavoro formale o erano in grado di acquistare una polizza sul mercato privato. Ma andava molto peggio alle popolazioni dell’Africa subsahariana dove solo un’esigua minoranza era assicurata e dove la stragrande maggioranza era costretta a pagare formalmente o sottobanco qualsiasi prestazione di cui avesse bisogno, dalla cura della malaria a un parto, a un intervento chirurgico.
Da questo punto di vista la pressione dell’Oms e poi l’impegno solenne dell’assemblea delle Nazioni Unite verso la copertura sanitaria universale vanno considerati come una condanna implicita delle politiche neoliberiste precedenti (per anni colpevolmente tollerate dalle stesse istituzioni internazionali) e l’inizio di una fase nuova e più promettente per la salute globale (peraltro già anticipata, come vedremo, in alcuni paesi).
Tuttavia la filosofia della copertura sanitaria universale pone dei limiti all’intervento del settore pubblico e lascia ampio spazio a quello privato sul versante sia del finanziamento sia della produzione ed erogazione dei servizi. Sul fronte del finanziamento il governo deve garantire che tutti possano avere accesso alla copertura, con politiche che regolino il mercato assicurativo (sia questo profit o no profit) e con la possibilità d’intervento pubblico nel caso di fasce di popolazione scoperte. Sul fronte della produzione ed erogazione dei servizi il governo deve garantire che i provider, pubblici o privati che siano, operino in modo appropriato e rispondano ai bisogni della popolazione. Ne deriva un modello organizzativo che prevede una chiara divisione tra chi acquista e chi produce i servizi, tra committenti e assicurazioni pubbliche o private, che acquistano i servizi clinici e diagnostici per i propri assistiti nel mercato dei provider.
Siamo lontanissimi dal modello universalistico originario di Beveridge dove lo stato era l’unico attore protagonista del Nhs: finanziava, programmava e gestiva i servizi sanitari nella loro interezza, dalla prevenzione alla cura e alla riabilitazione.
Come si vede siamo lontanissimi dal modello universalistico originario proposto in Gran Bretagna da William Beveridge nel 1942 ed entrato in vigore nel 1948, dove lo stato era l’unico attore protagonista del National health service: finanziava, programmava e gestiva i servizi sanitari nella loro interezza, dalla prevenzione alla cura e alla riabilitazione.
Il nuovo National health service inglese è una versione “regressiva” della copertura sanitaria universale. Una versione assai mercantile, dove lo stato rinuncia di fatto a svolgere qualsiasi funzione di programmazione, limitandosi a ricoprire il ruolo di regolatore del mercato, e dove non c’è spazio per la prevenzione, che è stata infatti dirottata nelle competenze delle municipalità.
Nel mondo si sono affermate varie versioni di copertura sanitaria universale, con caratteristiche molto diverse tra loro (avanzate o restrittive) che rispecchiano la storia, la cultura, l’economia e la politica dei differenti paesi.
Bibliografia
[1] World Health Report 2010. Health systems financing: the path to universal coverage WHO, Geneva, 2010.
[2] United Nations. General Assembly, Global health and foreign policy, A/67/L.36, 6 dicembre 2012
[3] Vega J. Universal health coverage: the post-2015 development agenda. Lancet 2013; 381;179-80.
[4] Moreno-Serra R, Smith PC. Does progress towards universal health coverage improve population health? Lancet 2012; 380:917-23.
[5] Moreno-Serra R, Smith PC. The effects of health coverage on population outcomes: a country-level panel data analysis. Results for Development Institute Working Paper. Washington, DC: Results for Development Institute, 2011
[6] Brearley L, Marten R, O’Connell T. Universal health coverage: a commitment to close the gap. Save the Children, 2013. www.savethechildren.org.uk/sites/default/files/docs/Universal_health_coverage_0.pdf
[7] Frenk J, De Ferranti D. Universal health coverage: good healh, good economics. Lancet 2012; 380:862-3.