Come tutti ben sanno, il nostro è un paese con un sistema sanitario invidiabile e invidiato, che però trova elementi di criticità nella sua stessa natura frammentata dovuta alle autonomie regionali. Queste stesse frammentarietà e lacunosità si traducono spessissimo anche in una difficoltà nel reperire le giuste e indispensabili informazioni per il cittadino: difficile reperire le documentazioni, non sempre pubblicate o comunque disperse nei meandri di siti web indecifrabili, complesso comprenderne i contenuti e interpretarne il significato ed essere così pienamente consapevoli delle possibilità offerte e delle modalità con cui avvalersi del proprio diritto alla salute.
In un tale contesto, le associazioni come EpaC cercano di colmare proprio questi gap attraverso azioni di dialogo, monitoraggio e indagine con il solo scopo di reperire e mettere a disposizione tutte le informazioni utili, semplificandole, e di rilevare criticità, adoperandosi in maniera propositiva per la risoluzione delle stesse, sempre e soltanto nell’interesse del paziente. Per questo motivo rappresentiamo un punto di riferimento per decine di migliaia di pazienti. Ma attenzione: per colmare taluni vuoti istituzionali, a tutti i livelli, servono associazioni ben strutturate, con personale qualificato e opportunamente formato. Parliamo, quindi di un livello qualitativo più elevato del semplice e puro “volontariato” e non sempre viene colta questa differenza.
Il rapporto medico-paziente rappresenta, come facile immaginare, un anello indispensabile e di importanza primaria, quasi vitale, in tale contesto, ma che, accanto a esempi di eccellenza e di sintonia perfetta tra bisogni del paziente e procedure di sistema, presenta casi di gestione superficiale e assenza di comunicazione, quasi come se il paziente non dovesse essere parte né dei processi decisionali a monte né, peggio ancora, di quelli che lo vedono protagonista in quanto destinatario finale. Probabilmente quello dell’epatite C e delle nuove e formidabili terapie curative rappresenta un caso emblematico di tutto ciò ma anche un “evento storico-sanitario” a sé stante. Dal dicembre 2014, data dell’arrivo del primo dei farmaci di seconda generazione che hanno cambiato e continuano a cambiare la storia di questa patologia, abbiamo assistito a esempi rappresentativi di quanto raccontato sopra: dalla partecipazione a livello nazionale ad alcuni processi decisionali delle associazioni di pazienti, alle difformità di applicazione delle stesse decisioni in ambito locale, con numerosi problemi di accesso e di negato diritto alle cure, di dinamiche a volte contorte di programmazione sanitaria rispetto ad altre realtà che hanno invece mostrato una capacità organizzativa esemplare, una gestione lungimirante e nelle quali i risultati sono stati evidenti.
In un tale contesto, anche il medico curante può trovare difficoltà di varia natura e la scarsa chiarezza e/o lentezza con la quale certe decisioni giungono al medico si riflettono negativamente anche sul dialogo medico-paziente. È emblematico il caso della rimozione delle restrizioni di accesso alle cure. Attraverso un lavoro lungo e faticoso, fatto di advocacy, dialogo, dimostrazioni di realtà evidenti, e condiviso (è giusto sottolinearlo) con diversi medici ed esponenti istituzionali, si è poi finalmente giunti all’agognato traguardo dell’eliminazione di restrizioni nell’accesso e, cosa più importante, a una programmazione di intervento con un obiettivo incontrovertibile: l’eliminazione dell’epatite C dall’Italia.
Purtroppo, stiamo assistendo all’emergere di criticità ormai croniche del nostro sistema salute: ciò che viene deciso a livello centrale a volte non è comunicato in maniera sufficientemente chiara (per esempio i nuovi criteri di accesso 7/8 che sono stati oggetto di mozioni parlamentari) oppure viene distorta dai media come nel caso della circolare Lorenzin “Istruzioni operative in merito all’applicazione del decreto ministeriale 11 febbraio 1997 relativo alle modalità di importazione di specialità medicinali registrate all’estero” con conseguenti rallentamenti da parte delle regioni nell’avviare tempestivamente il piano di eradicazione annunciato dall’Agenzia del farmaco (Aifa).
Aifa e Ministero della salute si sono fortemente impegnati per garantire cure a tutti i pazienti aventi diritto.
Naturalmente ci sono esempi lodevoli di buona gestione. Per esempio, quello della Regione Lazio che ha istituito l’Osservatorio regionale sull’epatite C dimostrando concretezza e decisa volontà di azione e condivisione dei percorsi, con un coinvolgimento in prima linea proprio dei pazienti; la Sicilia, forse l’unica regione a oggi in grado di programmare un intervento sulla base di dati reali e sulla intelaiatura di una rete ben strutturata; la Lombardia che ha mostrato da sempre una capacità organizzativa invidiabile.
Va comunque detto, a onor del vero, che Aifa e Ministero della salute si sono fortemente impegnati per garantire cure a tutti i pazienti aventi diritto; tale e tanto è stato lo sforzo che siamo tra le prime dieci nazioni al mondo ad avere accesso universale ai farmaci hcv e ad acquistare questi nuovi e potenti farmaci a prezzi sostenibili. Ma, ora, appare evidente come un programma ambizioso, qual è quello presentato dall’Aifa e dal Ministero della salute di curare 80.000 pazienti/anno, richieda uno sforzo collettivo che deve necessariamente passare attraverso scelte condivise e convergenti, direzioni di intervento e programmazione comuni, e che, pur nelle inevitabili differenze dovute alle peculiarità del territorio, trovino un percorso comune. Unica strada questa per assicurare uguaglianza di cure a tutti i cittadini italiani.
Un imponente impegno, dunque, dal quale nessuno deve ritenersi esente, compresi i media che hanno il delicato compito di contribuire alla diffusione di informazioni corrette e, soprattutto, precise e veritiere.