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Innovazione Interviste

La governance di nuovi medicinali

È giusto che i governi ripensino alla governance sanitaria per migliorare l’accesso dei nuovi medicinali? Quando un nuovo prodotto può essere definito innovativo?

Intervista a Massimo Scaccabarozzi

Presidente Farmindustria

By Maggio 2017Luglio 31st, 2020Nessun commento

Non c’è impresa senza innovazione: è giusto che i governi ripensino alla governance sanitaria per migliorare l’accesso ai mercati da parte dei nuovi medicinali?

Sono molti i fattori che hanno messo in discussione l’attuale sistema di governance sanitaria, non solo nel nostro paese. Cambiamento delle aspettative di salute legate all’invecchiamento generale della popolazione, necessità di rispondere sempre più efficacemente a tali bisogni, progressi nel campo delle scienze della vita e avanzamenti tecnologici. Elementi che hanno modificato profondamente il modo di sviluppare farmaci, ponendo nuove sfide per la sostenibilità. E con un’innovazione che cambia rapidamente gli scenari di cura, c’è bisogno di risorse e strumenti adeguati e quindi di moderni sistemi di governance. Per assicurare l’accesso alle nuove terapie e la sostenibilità, i sistemi sanitari dovranno valorizzare i risultati complessivi delle cure, piuttosto che i costi delle singole prestazioni, ottimizzando le prestazioni e migliorando prevenzione e appropriatezza. Principi base devono essere: il finanziamento adeguato alla domanda di salute; risorse ad hoc per i farmaci innovativi; il superamento del concetto dei tetti di spesa misurando il costo del farmaco all’interno di quello totale per la terapia; l’uniformità delle politiche sanitarie su tutto il territorio, guidate da criteri scientifici e non meramente economici.

Decisivi passi in avanti sono stati fatti grazie alle misure del Governo e della ministra Beatrice Lorenzin, con l’introduzione dei fondi specifici per farmaci innovativi, l’incremento per le risorse del Sistema sanitario nazionale, una maggiore stabilità normativa. Ora nel nostro paese si respira un clima pro-innovazione, ma bisogna fare l’ultimo miglio, che consiste proprio in una nuova e buona governance, garantendo un rapido accesso alle terapie. È per questo che le imprese del farmaco lavorano con le istituzioni per trovare soluzioni che favoriscano l’arrivo dei nuovi medicinali e rendano l’assistenza sanitaria più sostenibile, assicurando al tempo stesso la valorizzazione dell’innovazione.

Il futuro dei sistemi sanitari si fonda sempre più sulla misurazione complessiva dei risultati delle terapie (approccio outcome-based), piuttosto che sul costo delle singole prestazioni. Si tratta di nuovi modelli di valutazione basati sull’uso di big e smart data, sulla collaborazione tra istituzioni, pazienti, comunità medico-scientifica e in cui le imprese del farmaco partecipano attivamente alla modernizzazione del sistema. Anche su questo l’Italia può diventare un luogo di best practice internazionale: l’esperienza maturata con l’introduzione e l’uso dei registri, infatti, fa sì che il nostro paese sia già considerato leader a livello internazionale in tema di strategie innovative di controllo della spesa.

Potrebbe essere agevolata la collaborazione tra industria e centri di ricerca pubblici per incentivare l’innovazione?

La ricerca farmaceutica ha conosciuto negli anni una trasformazione radicale, passando da un modello di ricerca e sviluppo (R&S) chiuso e isolato a un modello in cui l’innovazione si genera in network internazionali, che uniscono competenze apparentemente distanti tra loro. La scoperta di un farmaco esce quindi dai confini aziendali e si sviluppa in rete, rendendo decisiva la competitività del network, in cui all’impegno dei grandi gruppi si affianca la capacità innovativa delle piccole e medie imprese (Pmi), dei centri pubblici e privati, nella ricerca di base e nella fase clinica. Oggi l’80% della R&S viene fatta in partnership con strutture pubbliche, università, start-up, enti no profit; solo 10 anni fa era il 20%.

Tutto ciò ha determinato nelle imprese una ristrutturazione del modello gestionale della ricerca in unità flessibili e specializzate, rafforzando il lavoro di talent scout per scoprire idee innovative, anche in ambiti esterni (research hunting), da sviluppare grazie al know-how e alle risorse che solo grandi aziende sono in grado di mettere in campo. Spesso start-up, spin-off universitari e Pmi avviano le prime fasi di ricerca e poi le grandi imprese completano lo sviluppo del farmaco e ne garantiscono l’accesso ai pazienti. Questa suddivisione dei ruoli ha reso più efficiente l’intero processo di innovazione e ha portato a un vero e proprio “Rinascimento” della ricerca. Oggi in Italia, l’industria farmaceutica è il settore manifatturiero che investe di più nel sistema pubblico di ricerca, con un impegno di 1,4 miliardi nel 2015 (+16% rispetto al 2013), di cui oltre 700 milioni in studi clinici. Tutto ciò è reso possibile anche grazie a una ricerca pubblica di eccellenza internazionale. Infatti, l’Italia è prima in Europa e sesta nel mondo per numero e qualità delle pubblicazioni scientifiche in ambito di drug discovery. Però è fondamentale ricordare che, per quanto riguarda la proprietà intellettuale e il trasferimento tecnologico, la durata del brevetto è di 20 anni – un periodo che nella farmaceutica non coincide con il suo uso commerciale, poiché le nuove molecole vengono brevettate sin dalla loro nascita, mentre l’immissione sul mercato avviene solo alla fine del lungo processo di R&S. Quindi, la durata effettiva della copertura del brevetto è spesso di soli 7-8 anni, con punte che non superano i 15 nel caso di applicazione del certificato di protezione complementare comunitario.

In questo numero di Forward si parla anche di “manutenzione”: quale attenzione l’industria riserva ai prodotti più collaudati, per esempio ricercandone l’uso con nuove indicazioni?

L’idea di utilizzare farmaci per indicazioni terapeutiche diverse da quelle per cui sono stati originariamente pensati e sviluppati, il cosiddetto “riposizionamento” dei farmaci, risale agli anni Cinquanta. Solo recentemente però, grazie ai progressi della bioinformatica e di altre discipline affini, il drug repositioning si è trasformato in una concreta opportunità strategica per le aziende farmaceutiche con forte propensione alla ricerca e allo sviluppo. Poiché molte delle attività legate alla sperimentazione clinica sono state già espletate per la precedente indicazione terapeutica, si riducono anche i tempi necessari per ottenere un’autorizzazione all’immissione in commercio, dal momento che molte delle procedure regolatorie sono state già effettuate. Secondo un’indagine della Thomson Reuters, i farmaci che potrebbero essere potenzialmente riposizionati sono oltre 2000 e cresceranno a un ritmo di 150/200 l’anno. Tra questi ci sono farmaci già presenti sul mercato, farmaci autorizzati ma non commercializzati e farmaci che hanno superato le prime fasi di sviluppo, e di cui quindi si conosce la sicurezza sull’uomo, la via di somministrazione, l’assorbimento, l’escrezione, ecc., ma che non hanno dimostrato piena efficacia per l’indicazione terapeutica originale. Sempre secondo la Thomson Reuters i tempi di accesso al mercato potrebbero essere ridotti di 3-5 anni, rispetto ai tempi necessari a un nuovo farmaco, con conseguente riduzione dei costi. Oggi si contano più di 300 esempi di drug repositioning e una fortissima attività scientifica relativa a questo tema, con numerose pubblicazioni su molte riviste specializzate.