L’innovazione sembra essere uno degli elementi che descrivono meglio la fase storica in cui viviamo, caratterizzata da un’impressionante accelerazione del progresso tecnologico e dai rapidi adattamenti sociali e culturali che da questa derivano. Un’epoca che, proprio per l’alta densità di innovazioni che la contraddistingue, sembra differenziarsi da quelle precedenti. Eppure − come sostiene lo scrittore e blogger Scott Berkun − non è mai esistito un tempo in cui l’innovazione non sia stata un elemento fondamentale per lo sviluppo della cultura umana [1]. È cambiata piuttosto la qualità, oltre che la quantità, delle innovazioni che hanno contribuito all’evoluzione del nostro sistema sociale negli ultimi anni. Novità che tuttavia non hanno sempre portato a un reale progresso per la società e che in molti casi, per quanto geniali e affascinanti, non si sono dimostrate risolutive dei problemi per cui erano state introdotte. Una questione che in ambito medico costituisce una sfida centrale per la sostenibilità dei sistemi sanitari di tutto il mondo: trovare un equilibrio tra la seduzione del nuovo e l’incertezza dei vantaggi che le innovazioni possono garantire o promettere.
Non è tutto innovazione quello che luccica
Una sfida, quella dell’innovazione in sanità, che qualche anno fa ha portato Barack Obama e i membri delle sue amministrazioni a prendere una posizione molto precisa. Come sottolineato da Ezekiel J. Emanuel − consigliere dell’ex presidente Usa in ambito salute e ideatore dell’Affordable care act − in un articolo uscito sul New York Times [2], nella progettazione della riforma sanitaria entrata in vigore nel 2010 si è deciso consapevolmente di dare maggior peso al controllo dei costi e alle evidenze comparative, piuttosto che all’introduzione di farmaci e dispositivi definiti come altamente innovativi ma caratterizzati da scarse prove di efficacia. Elementi questi che Emanuel definisce “pseudo-innovazioni”, interventi che producono un notevole aumento dei costi senza incidere in modo significativo sulla salute dei pazienti. Tra questi, l’ex consigliere di Obama cita il famoso robot “da Vinci”, il sistema di chirurgia robotica di ultima generazione utilizzato negli interventi di rimozione della prostata, nelle sostituzioni di valvole cardiache e nel trattamento di altre patologie del torace e dell’addome. Uno strumento dal costo estremamente elevato (oltre un milione di dollari) la cui efficacia relativa, rispetto ai protocolli chirurgici tradizionali, non è mai stata dimostrata in un trial clinico randomizzato. “Questo è il tipo di innovazioni che non trarrà vantaggio dall’Affordable care act”, scriveva Emanuel nel 2012. Al contrario, tra gli obiettivi principali della riforma voluta da Obama c’era quello di sostenere interventi capaci di portare benefici concreti e misurabili per la salute dei cittadini americani. “Questi forse saranno meno vistosi, e spesso neanche visibili, ma permetteranno di migliorare realmente le cure e di ridurre i costi”.
Un esempio in questo senso è costituito dalle cosiddette checklist. A sostegno della sua argomentazione Emanuel cita uno studio del 2006, pubblicato sul New England Journal of Medicine [3], in cui si dimostrava l’efficacia di una checklist di cinque elementi, introdotta in un contesto ospedaliero e composta da indicazioni relative all’importanza di lavarsi le mani e di pulire accuratamente la pelle dei pazienti, grazie alla quale era stato possibile eliminare quasi del tutto le infezioni da catetere intravenoso, una complicazione il cui costo è di circa 45.000 $ a paziente e che negli Stati Uniti provoca la morte di 28.000 persone ogni anno. Interventi semplici quindi, ma che garantiscono risultati quantificabili. Tra gli strumenti che nel prossimo futuro permetteranno di raggiungere obiettivi importanti ed economicamente sostenibili, Emanuel include tuttavia anche le applicazioni per smartphone che consentono il monitoraggio da remoto dei livelli di glucosio, i sistemi wireless domestici per il controllo dei pazienti affetti da insufficienza cardiaca congestizia o i contenitori intelligenti di pillole che avvisano i familiari quando un paziente dimentica di assumere un farmaco. Strumenti che dispongono di prove di efficacia e che costituiscono quindi una solida base per interventi utili, oltre che innovativi. Secondo l’ideatore dell’Affordable care act è infatti necessario smettere di considerare qualsiasi nuova tecnologia come un’innovazione in grado di migliorare la salute dei cittadini. “In medicina un elemento di novità conta solo nel momento in cui si dimostra migliore di quelli precedenti. Quando aumenta i tassi di sopravvivenza, riduce gli effetti collaterali, migliora la qualità della vita o permette di mantenere costante, con un costo minore, il livello delle prestazioni”. Uno strumento di qualità comprovata è quindi sempre preferibile a uno la cui caratteristica principale è quella di essere innovativo o persino futuristico. Come scrisse Enzo Bearzot, commissario tecnico della nazionale italiana di calcio campione del mondo nell’82 : “Il fuoriclasse fa i numeri, il Campione (con l’iniziale maiuscola) non ne ha la necessità”. Infine, l’obiettivo ultimo di un sistema sanitario è quello di garantire la salute dei cittadini, non di essere innovativo. Restando nella metafora calcistica, è inutile segnare un goal meraviglioso se poi si perde la partita. Come scrive Luca Pani, direttore dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) dal 2011 al 2016: “I pazienti e le loro famiglie hanno diritto a una speranza fondata, non possono essere sacrificati sull’altare di interessi di altra natura che impediscono le conquiste reali e sottraggono energie e risorse che andrebbero virtuosamente destinate a garantire le cure a tutti” [4]. Ritornando agli Stati Uniti, sarà quindi fondamentale capire cosa accadrà se davvero il neo eletto presidente Donald Trump smantellerà (come promesso) l’Affordable care act. C’è il rischio che la sua amministrazione supporti percorsi di approvazione agevolati per farmaci e dispositivi altamente innovativi, e quindi costosi, a scapito delle evidenze scientifiche e degli outcome di salute, garantendo così profitti elevatissimi alle aziende produttrici.
In medicina un elemento di novità conta solo nel momento in cui si dimostra migliore di quelli precedenti.
– Ezekiel J. Emanuel
L’efficacia vale più dell’innovazione
Da un punto di vista linguistico, il problema è che negli ultimi anni si è talmente abusato della parola innovazione che questa ha gradualmente perso il suo significato originale. Sempre più spesso questo termine viene utilizzato per mascherare dei fallimenti in termini di sostenibilità economica, concludendo che l’entità considerata non era “sufficientemente innovativa”. Tuttavia, come sostiene Scott Berkun in un articolo pubblicato su Business Week [5], la maggior parte delle organizzazioni che non raggiungono risultati non pagano la mancanza di una spinta innovativa, quanto l’assenza di solide competenze di base. Si pensi, facendo un parallelo con il mondo dei dispositivi elettronici, a un caso di successo come quello dell’iPad. Si tende a pensare che la Apple abbia rivoluzionato il mercato dell’informatica introducendo un dispositivo che per le sue caratteristiche è risultato innovativo rispetto a ciò che era disponibile in precedenza. Se però si analizza il contesto in cui è esploso il fenomeno iPad ci si rende conto che al momento del suo lancio il prodotto della multinazionale di Cupertino non costituiva affatto un elemento di novità; al contrario, questo andava a inserirsi in un mercato in cui erano già presenti molti prodotti simili. Il successo del tablet della Apple non è dipeso da quanto questo fosse innovativo ma bensì dalla qualità e dalla solidità del prodotto. Così come è accaduto per altri casi illustri − il browser Firefox, il Kindle di Amazon, lo stesso motore di ricerca Google − l’elemento innovativo dell’iPad era rappresentato principalmente dalla sua efficacia e semplicità. Infatti, come conclude Berkun, “spesso progetti con finalità innovative falliscono perché i loro creatori sono distratti dal proprio ego e finiscono per dimenticare che l’obiettivo principale è di risolvere i problemi reali della gente”.
Nell’ambito delle politiche sanitarie questo significa privilegiare interventi di dimostrata utilità, preferendoli a soluzioni caratterizzate da un elevato coefficiente di innovazione e limitate prove di efficacia. Un approccio che si fonda necessariamente sui meccanismi della evidence-based medicine (ebm) e che pone al centro della valutazione la sperimentazione su larga scala, controllata, randomizzata e a doppio cieco. Negli ultimi anni si è invece progressivamente sacrificato il valore statistico della ricerca clinica a scapito di interventi terapeutici personalizzati, basati sulle caratteristiche genetiche, cliniche, umane e sociali del singolo paziente. Una tendenza − quella della medicina di precisione − che si è legittimamente sviluppata anche in relazione ad alcuni fallimenti della ebm, come la prescrizione di statine (efficaci solo su una ridotta percentuale di pazienti) o lo screening prostatico di massa (che genera falsi positivi e chirurgie invalidanti), ma che in molti casi ha contribuito a generare una speranza sproporzionata verso tutto ciò che viene considerato innovazione. Si pensi ad esempio ai nuovi farmaci oncologici, spesso efficaci su un numero estremamente limitato di pazienti e caratterizzati da prezzi insostenibili per un sistema sanitario, come quello italiano, che si fa carico di una quota superiore al 75% della spesa complessiva per i farmaci. Il problema del costo delle terapie è “l’elefante nella stanza dell’oncologia clinica”, sostiene Vinay Prasad, oncoematologo dell’Oregon health and sciences university che studia, tre le altre cose, le innovazioni fallimentari della medicina. In questo senso, la vera innovazione potrebbe quindi essere rappresentata dall’implementazione di nuove strategie di controllo dei prezzi, utili ad assicurare ai cittadini le cure di cui hanno bisogno.
![]() Medico laureato a Harvard e specializzato a Oxford, architetto dell’Affordable Care Act (meglio conosciuto come Obama Care), fratello di Rahm, ex sindaco di Chicago, e di Ari, agente di Hollywood: la storia della sua famiglia l’ha raccontata nel libro Brothers Emanuel: a memoir of an American family (Random House, 2013). È stato direttore del centro di bioetica dei National Institutes of Health, Emanuel e “semplicemente” non sopporta la prima colazione così come viene servita nei locali di Washington: questa la ragione della sua performance gastronomica alla presenza del critico di cucina di The Atlantic. Zeke ha iniziato cucinando per i tre fi gli, perché anche sua moglie è medico. “In cucina è come quando fai sport: se ti viene bene, vuoi farlo sempre meglio. E io sono terribilmente competitivo”. Dicono che non abbia un carattere facile, ma almeno cambia spesso opinione ascoltando quelle degli altri. E in molti ambienti questa sarebbe una grande innovazione… |
Innovazione, collaborazione, ottimizzazione
Per ottenere questi risultati, secondo Pani, è necessario sviluppare “nuove modalità di interazione tra regolatori, pagatori, operatori della salute e aziende”, al fine di evitare “il collasso finanziario del sistema”. Un tipo di innovazione che presuppone quindi un progetto collaborativo. “Servono strategie condivise a livello globale” – sostiene l’ex direttore dell’Aifa. La globalizzazione è ormai un fenomeno che interessa tutte le fasi della vita di un farmaco, dalla ricerca alla produzione, dalla commercializzazione alla farmacovigilanza. In altre parole, solo una visione d’insieme e una collaborazione senza frontiere consentiranno di ottenere i risultati sperati. Berkun sostiene che spesso si pensa erroneamente all’innovazione come al risultato dell’epifania di un singolo inventore o di una singola organizzazione, quando invece la quasi totalità dei progetti innovativi che ottengono dei risultati reali sono il prodotto di un processo collettivo [6]. In ambito medico, questo significa dare anche ai pazienti la possibilità di partecipare alle scelte e di influenzare i meccanismi dell’innovazione, contribuendo con le loro necessità e competenze all’evoluzione della ricerca e della pratica clinica. Un processo che, secondo Pani, non può prescindere da “un’informazione corretta e autorevole, che dia al cittadino fiducia e consapevolezza, dotandolo degli strumenti necessari per districarsi nel flusso di informazioni spesso parziali, inattendibili o distorte, veicolate soprattutto in rete, su questioni legate alla salute e alla cura”. Infatti, l’assenza di una validazione sperimentale può far sì che alcuni elementi percepiti come innovativi si trasformino per “volontà popolare” in un dato meritevole di dignità scientifica. L’onda emotiva che accompagna alcune vicende, come quella che ha caratterizzato il caso Stamina, è quindi un fattore che va preso in considerazione; il rischio è che qualcuno cavalchi l’emotività dei cittadini e dei pazienti per obiettivi propagandistici o commerciali, o per ottenere una maggiore deregolamentazione.
L’innovazione passa quindi anche da una migliore comunicazione e da un maggiore empowerment del paziente. È necessario dotare la popolazione degli strumenti informativi e formativi necessari per occuparsi della propria salute in modo consapevole, avendo coscienza dei fattori di rischio modificabili connessi agli stili di vita, del valore della diagnosi precoce e dell’importanza della prevenzione. Inoltre, è fondamentale mettere in atto quegli interventi − questi sì veramente innovativi − necessari a garantire a tutti condizioni lavorative e sociali compatibili con stili di vita corretti e che consentano a tutti un accesso rapido e tempestivo all’assistenza sanitaria. Anche se povere di innovazione tecnologica, strategie di questo tipo possono fare veramente la differenza in termini di outcome di salute, offrendo soluzioni ai problemi reali dei pazienti e agendo sulle disuguaglianze. Molto spesso infatti le “soluzioni” informatizzate, al centro delle politiche di sviluppo di molti paesi occidentali, non riescono a sciogliere i nodi organizzativi dei sistemi sanitari a causa delle fragilità che questi mostrano a livelli inferiori, quelli che Berkun definirebbe delle competenze di base. Per un sistema sanitario universalistico come quello italiano, ad esempio, sembra controproducente inseguire costose − e spesso illusorie − innovazioni tecnologiche, utili a gruppi estremamente ristretti di pazienti, quando mancano solide basi in termini di accesso alle cure, corretta informazione e sostenibilità economica.
Da questo punto di vista, la vera innovazione potrebbe quindi nascondersi in una migliore e più efficiente gestione delle risorse. In Italia si sprecano circa 25 miliari di spesa sanitaria ogni anno. Soldi pubblici utilizzati per finanziare interventi che non producono risultati in termini di salute e che, per una buona parte, dipendono da un utilizzo inappropriato dei test diagnostici. La crisi della sostenibilità dei sistemi sanitari impone quindi di riconoscere nel valore, inteso come il rapporto tra outcome rilevanti per la salute del paziente e costi sostenuti dal sistema, il motore per il futuro della sanità. Una visione per cui tutto ciò che non migliora lo stato di salute delle persone deve essere considerato appunto come uno spreco. Interventi innovativi potrebbero quindi essere rappresentati da strategie di disinvestimento, intese come il recupero delle risorse provenienti da qualunque pratica, tecnologia o farmaco che rispetto al costo determina un guadagno di salute minimo o nullo, e di riallocazione. Allo stesso modo si dovrebbe lavorare al fine di aumentare l’appropriatezza organizzativa del sistema sanitario, coltivando la capacità dei servizi di assistere il paziente nel modo più adeguato in relazione ai suoi bisogni di salute e alla sostenibilità economica degli interventi. Di nuovo, questa capacità non può prescindere da un processo collaborativo che chiami in causa tutti gli attori coinvolti e che sia finalizzato a ottenere un sistema di setting assistenziali variabili per intensità di cura e modalità avanzate di integrazione socio-sanitaria.
Einstein, Ford, Leonardo da Vinci, Picasso, Jobs e Edison raramente utilizzavano la parola innovazione e così dovreste fare anche voi.
− Scott Berkun
L’innovazione è un’altra cosa
Si sente sempre più spesso parlare di innovazione ma, soprattutto in ambito medico, non sempre questo termine si accompagna a dei risultati misurabili in termini di salute. “Bisogna smettere di usare la parola innovazione”, suggeriva Berkun in un provocatorio post sul suo blog [7], “Einstein, Ford, Leonardo da Vinci, Picasso, Jobs e Edison la utilizzavano raramente e così dovreste fare anche voi”. Un linguaggio semplice, che utilizzi termini come “prototipo”, “problema” e “soluzione” accelera il progresso, parole pretenziose e altisonanti invece lo rallentano, nascondendo la volontà di chi le pronuncia di impressionare gli altri. “Dire di essere alto non ti rende una persona alta”, conclude lo scrittore. In medicina invece la “parola con la i” − come la chiama Berkun − viene utilizzata di frequente per descrivere un farmaco, un dispositivo o una procedura che semplicemente si basa su concetti differenti o utilizza metodi e tecnologie diverse da ciò che veniva usato in precedenza, a prescindere dai risultati che questi permettono di ottenere. Emanuel sostiene che al contrario bisognerebbe definire innovativi solo quegli interventi che permettono, anche con strumenti semplici e poco costosi, di risolvere i problemi di salute reali dei pazienti, attraverso risultati stabili e scientificamente dimostrabili: “Reindirizzare le risorse e la creatività dalle tecnologie che non migliorano gli outcome, o riducono i costi, verso strumenti e idee che invece lo fanno”. Infine, l’analisi dei risultati mediante trial randomizzati è quindi fondamentale per trovare il giusto equilibrio tra rischi e benefici associati a tutto ciò che si presenta di nuovo in medicina, garantendo allo stesso tempo la sostenibilità economica del sistema e, di conseguenza, l’accesso alle cure per tutti.
I 10 miti dell’innovazione1. Il mito dell’epifania.
Scott Berkun è un autore statunitense di bestseller e speaker su temi che riguardano la creatività, la filosofia, la cultura, il business e altri soggetti. Tra le sue opere di maggiore suggesso Confessions of a public speaker (originale di questo testo), The myths of innovation e Making things happen hanno scalato le vette delle classifiche. The Washington Post, The New York Times, Wired Magazine, Fast Company, Forbes Magazine e altri media. Ha insegnato alla University of Washington ed è commentatore delle reti televisive Cnbc, Msnbc. |
Bibliografia
[1] Berkun S. What innovation means: a short report. Scottberkun.com 2006; 5 luglio.
[2] Emanuel EJ. In medicine, falling for fake innovation. The New York Times 2012; 27 maggio.
[3] Pronovost P, Needham D, Berenholtz S, et al. An intervention to decrease catheter-related bloodstream infections in the Icu. N Engl J Med 2006;355:2725-32.
[4] Pani L. L’innovazione sostenibile. Il farmaco e le sfide per il futuro del nostro Sistema sanitario nazionale. Milano: Edra, 2015.
[5] Berkun S. Good beats innovative nearly every time. Scottberkun.com 2013; 7 gennaio.
[6] Berkun S. The then myths of innovation: the best summary. Scottberkun.com 2013; 26 marzo.
[7] Berkun S. Stop saying innovation – Here’s why. Scottberkun.com 2008; 1 gennaio.