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Big data Articoli

Big data e psicopolitica: ancora e sempre fatti versus interpretazione?

Una riflessione filosofica sul presente futuro dei big data.

Luciano De Fiore

Sapienza Università di Roma

By Novembre 2016Settembre 30th, 2020Nessun commento

Anche in filosofia si riflette sulla rilevanza attuale e prossima dei big data. Non soltanto in chiave etica, interrogandosi sulla questione della privacy, ma sui risvolti della loro pervasività sulle forme di vita.

“Protect me from what I want”. È il truismo di Jenny Holzer scelto dal coreano Byung-Chul Han per l’esergo di un pamphlet che, di suo, ha molto della verità ovvia [1]. Invece che all’Italica bold, font della gigantesca scritta originale dell’artista americana, o alle note indie dei Placebo autori della canzone dallo stesso titolo ispirata dalla Holzer, stavolta il messaggio è affidato a una riflessione veloce, ma affilata, sulle nuove tecniche di potere del neoliberismo. Che dei big data farebbero il proprio big deal, un grandissimo affare: stato di sorveglianza e mercato venendo così a coincidere.
Da cosa ci si dovrebbe proteggere? Dalla nostra stessa libertà di desiderare. Libertà di singoli, considerati però come nient’altro che l’eccesso del capitale stesso, il quale sfrutterebbe la “libertà” dell’individuo per riprodursi. Essere davvero liberi dovrebbe significare piuttosto realizzarsi insieme (secondo il Marx dei “Manoscritti”), mentre l’isolamento a cui il regime neoliberale induce − secondo Han, e nonostante i social media, anzi − non produrrebbe affatto quella libertà, rendendo piuttosto ognuno servo del proprio lavoro, o per meglio dire, delle proprie azioni. Scelte, beninteso, “liberamente”, giacché soltanto lo sfruttamento della libertà individuale offre il massimo rendimento. Secondo questo punto di vista, anche la “moltitudine” invocata da Antonio Negri e Michael Hardt non sarebbe che un insieme irrelato di solitudini, inatto a formare un Noi politico capace di un agire comune. Tutti, di nuovo e sempre, soggetti. Sottomessi, cioè, a un ordine che si erge a nuova trascendenza, con l’acquiescenza di tutti.

Questa versione neo-apocalittica della postmodernità si servirebbe dei social media per operare un controllo capillare ed estremamente produttivo di coloro che contribuiscono volontariamente al proprio sfruttamento. Come? Grazie all’autoesposizione e all’autodenudamento volontari consentiti, anzi promossi, dai social che rendono ogni nostro dato immesso sulla rete un’informazione, e così un quantum sfruttabile economicamente. Autoesposizione favorita, aggiungeremmo, dal narcinismo imperante [2]. I dispositivi tecnici fungerebbero così da oggetti devozionali: se inteso come strumento di soggettivazione (nel senso proprio, di assoggettamento individuale), uno smartphone funzionerebbe al dunque come una volta il rosario per un cristiano, mutuando la funzione di controllo e sorveglianza su se stessi: “il like è l’amen digitale. Mentre clicchiamo like, ci sottoponiamo al rapporto di dominio”.

Una tecnica di potere assai efficace che rende possibile che gli uomini si sottomettano da sé alla dipendenza, senza coercizioni: il neoliberalismo come capitalismo del like, seducente piuttosto che inibente, invitante di continuo a comunicare, condividere, partecipare, esprimere le nostre opinioni, desideri e preferenze. Ognuno, dice Han, diviene così il benthamiano panottico di se stesso. D’altra parte, sostiene non a caso Tim Cook, Ceo della Apple, “oggi nessuno esce di casa senza lo smartphone, domani probabilmente saremo connessi allo smartphone” [3]. In altri termini, se oggi disponiamo di protesi mnemotecniche, domani esse saranno parte integrante di noi, fino al punto di anticipare i nostri desideri, alla “Minority Report”. Lo aveva in qualche modo previsto anche Sigmund Freud: “L’uomo è per così dire divenuto una specie di dio-protesi, veramente magnifico quando è equipaggiato di tutti i suoi organi accessori; questi, però, non formano un tutt’uno con lui e ogni tanto gli danno ancora del filo da torcere. Si consoli tuttavia: questa evoluzione non finirà nell’anno del Signore 1930”, quando pubblicò il suo Disagio nella civiltà, da cui il passo è tratto [4]. Proprio così.

Ecco che allora i big data divengono, agli occhi di critici estremi come Mayer-Schönberger, Kenneth Cukier [5] o appunto Han, “uno strumento psicopolitico estremamente efficace, che permette di estrarre un sapere sconfinato sulle dinamiche della comunicazione sociale. Questo sapere è un sapere del dominio, che consente di avere accesso alla psiche e di influenzarla su un piano pre-riflessivo”. In altre parole, attraverso le informazioni che liberamente affidiamo alla rete, anche spinti dal narcisismo esibizionistico che anima la nostra epoca, le nostre stesse persone si positivizzerebbero in merci quantificabili, misurabili e controllabili: “i big data annunciano la fine della persona e della volontà libera”.

Con quali conseguenze politiche? Secondo Han, “la crisi della libertà nella società contemporanea consiste nel doversi confrontare con una tecnica di potere che non nega o reprime la libertà, ma la sfrutta. La libera scelta viene annullata in favore di una libera selezione tra le offerte”. Tutte le informazioni divengono merci preziose: la popolazione va amministrata scrupolosamente, concentrandosi su procreazione, tassi di natalità e mortalità, stati di salute, durata e qualità della vita, scelte economiche e di stili di vita. Il che era già proprio della politica intesa come biopolitica, alla Foucault.

Ma con un salto evidente: usando le statistiche demografiche, la biopolitica non accedeva allo psichico. Ecco quindi il necessario passaggio neoliberista alla psicopolitica: “per questo la statistica si differenzia dai big data: da essi si può ricavare non solo lo psicoprogramma individuale, ma anche quello collettivo e in caso lo psicoprogramma dell’inconscio”. Non è il petrolio il motore del capitalismo, ma la libido: l’energia libidinale dev’essere canalizzata sugli oggetti di consumo così da assorbire le eccedenze della produzione industriale. Si tratterebbe allora di captare la libido, vale a dire di confezionare i desideri secondo le necessità degli investimenti. E su questo ho dei dubbi: in particolare, sulla capacità di confezionare (façonner, dice Bernard Stiegler [6]) i desideri attraverso le protesi mnemotecniche. Si tratta forse di una sfumatura, ma ho l’impressione piuttosto che le mnemotecnologie (una volta era in testa la televisione, oggi i social) condizionino fin dalla radice le forme di consumo, semmai schermando la coscienza dai propri desideri, separandola dai propri desideri o offuscandoli.

Jenny Holzer, The Survival series, Protect Me From What I want, 1985-1986

 

Ora, si chiede Han, “i big data riusciranno effettivamente non solo a sorvegliare il comportamento umano, ma anche a sottoporlo a un controllo psicopolitico?”. Sì, sostiene: libera da qualsivoglia restrizione prospettica, caratteristica dell’ottica analogica, la sorveglianza digitale ha eliminato gli angoli ciechi, rendendo possibile anche lo scrutare la psiche. Come per Voltaire la statistica significava tout court l’illuminismo, poiché quest’ultimo dava accesso a un sapere oggettivo fondato su cifre e condotto su basi numeriche, così la trasparenza diviene la parola-chiave del secondo, perverso illuminismo: il dataismo.

Ma come Georg Wilhelm Friedric Hegel aveva svelato l’anima ideologica dell’illuminismo nel concetto di utile, così Han è convinto che anche il dataismo, con la sua pretesa di affrancarsi da qualsivoglia ideologia, sia esso stesso un’ideologia: quella del totalitarismo digitale in base al quale, quando siano disponibili dati a sufficienza, alla Chris Anderson, ogni teoria è superflua [7]. Rinunciando totalmente al senso e alla narrazione, secondo il filosofo coreano, il dataismo non sarebbe altro che l’ennesima versione del nichilismo postmoderno.

Nel ragionamento di Han balena un’incongruenza. Per un verso, la psicopolitica sarebbe in grado di collettare una quantità gigantesca di dati e informazioni, senza però riuscire a conferire senso al loro insieme. Rimanendo così al di qua del significato e di un sapere in termini propri. Per un altro, Han si riferisce esplicitamente alle conoscenze frutto dei big data come a un sapere del dominio, potente al punto da riuscire a influenzare addirittura l’inconscio individuale dei soggetti. Delle due l’una.
E inoltre, e soprattutto: perché contrapporre, ancora una volta, i dati al loro significato, anzi, al processo esperienziale della ricerca dei loro significati? La polemica estrema contro i big data assomiglia troppo alle vecchie requisitorie degli ermeneuti contro i realisti, vetero o neo che siano. Conta di più il fatto o la sua interpretazione? Valgono entrambi, piuttosto. Ridurre l’individuo a quantified self – a un corpo dotato di sensori che automaticamente registrano ogni suo dato: temperatura, tasso glicemico, consumo di calorie, tragitti, massa grassa e magra, alterazioni del battito cardiaco, per restare solo alle informazioni di carattere igienico-sanitario – non ha ovviamente senso, se a ciò non si accompagna poi la capacità di raccontare e collegare quei dati e dar loro un senso complessivo. È bene comunque tener presente che Facebook – solo per fare un esempio di un social che vanta, ad oggi, 1 miliardo e 700 milioni di utenti attivi nel mondo – da tempo raccoglie informazioni sui propri utenti, e di recente ha rinnovato la pagina delle preferenze, facilitandone la visualizzazione. Facebook deduce le preferenze politiche (oltre che economico-commerciali e quelle attinenti lo stile di vita) sulla base delle pagine più frequentate dai suoi utenti o su quelle alle quali abbiamo messo un like, ammesso non si siano direttamente dichiarate le proprie idee nella pagina del proprio profilo [8]. Ogni informazione, interpretata, può valere molto. Gli inserzionisti, tra cui molti partiti politici, pagano cifre molto consistenti per mostrare i loro annunci a specifici gruppi demografici. Le etichette che Facebook assegna ai propri utenti aiutano infatti le campagne a mirare con la massima precisione un pubblico particolare. Ovvio che contare non è raccontare, e sappiamo bene che il Sé – ammesso esista – deriva da un racconto. Nel quale però le singole informazioni, per quanto parcellizzate, hanno un proprio significato, se collegate e interconnesse secondo scelte politiche sensate.

Se può creare allora qualche problema, specie di privacy, il fatto che i candidati a un’elezione politica ricorrano al micro targeting per rivolgersi agli elettori in modo estremamente selezionato, non ci scandalizzeremmo altrettanto se il data mining consentisse di evitare sprechi in sanità [9], oppure di programmare campagne di prevenzione ultramirate, profilate secondo le caratteristiche dei diversi cluster anche di una stessa popolazione, sfruttando anche la nuova tecnologia di anonimizzazione dei dati frutto della cosiddetta privacy differenziale [10].

La questione vera, evidente a tutti, è che quando si ha a che fare con i big data ci si confronta davvero con il big: con grandezze enormi, la cui decifrazione e interpretazione pongono innanzitutto rilevanti problemi di calcolo – come sanno bene gli operatori sanitari alle prese, per esempio, con le decifrazioni delle infinite mutazioni genetiche di un tumore – prima ancora che di carattere etico, politico e di privacy. Ma non è detto affatto che l’era dei big data si annunci come un’epoca senza ragione.

you-are-my-ownJenny Holzer, You Are My Own, 1999.

Bibliografia

[1] Byung-Chul Han. Psicopolitica, edizione italiana a cura di Federica Bongiorno. Roma: Nottetempo, 2016.
[2] Colette Soler, psicanalista lacaniana, ha coniato ormai una decina d’anni fa questa espressione fortunata, coniugando narcisismo e cinismo, per defi nire la cifra fondamentale del nostro tempo.
[3] Cook T. Uno smartphone per ogni abitante della Terra, saremo connessi non violando la privacy. La Repubblica 2016, 18 agosto, p. 20.
[4] Freud S. Il disagio della civiltà, in: Freud S, Opere 1924-1929. Torino: Paolo Boringhieri, 1978 (p. 582).
[5] Mayer-Schönberger V, Cukier K. Big Data. Die Revolution, die unser Leben verändern wird. Monaco: Redline Verlag, 2013.
[6] Vedi ad esempio Stiegler B. Economie de l’hypermatériel et psychopouvoir. Paris: Mille et une nuits, 2008.
[7] Anderson C. The End of Theory: the Data Deluge makes the Scientifi c Method obsolete. Wired 2008, 23 agosto.
[8] Hermann J, Inside Facebook’s (Totally Insane, Unintentionally Gigantic, Hyperpartisan) Political-Media Machine. New York Times 2016, 24 agosto.
[9] Secondo un rapporto della McKinsey (2013), l’analisi dei big data consentirebbe alla sanità americana risparmi per 300 miliardi di dollari l’anno.
[10] www.cis.upenn.edu/~aaroth/Papers/privacybook.pdf