La capacità di persuasione degli influencer tra professionalità e celebrità, credibilità e spontaneità, la relazione tra follower e influencer, il paradosso dell’autenticità online. Ne parliamo con Maria Angela Polesana, sociologa dei media e autrice di diversi libri sulla comunicazione e la pubblicità nel mondo dei media e dei consumi.
Influencer, brand ambassador e testimonial, key opinion leader e divulgatore scientifico: sono quattro figure diverse nella comunicazione al grande pubblico. Che cosa distingue l’influencer?
Innanzitutto l’influencer si distingue dalle altre figure ricordate nella domanda per essere legato a un medium specifico ossia il web e in particolare i social media. Si tratta infatti di un soggetto capace di crearsi un proprio seguito grazie alla condivisione di contenuti incentrati sulla narrazione testuale e visuale della propria vita quotidiana. L’influencer è un content creator, cioè un soggetto che crea contenuti in grado di coinvolgere i propri follower, o meglio la propria comunità. In effetti, grazie alla condivisione della propria quotidianità e del realismo che caratterizza i propri racconti, l’influencer costruisce quel senso di intimità, accessibilità e relazione che pone le basi per la creazione di un senso di prossimità con i propri follower e per lo sviluppo di una relazione sociale, comunitaria e affettiva. Abbiamo cioè a che fare con una influenza relazionale, basata, appunto, sulla comunità dei follower. Oltre al medium specifico, come abbiamo ricordato alcune righe sopra, rispetto al brand ambassador e al testimonial, l’influencer si contraddistingue per una maggiore credibilità e autenticità, dal momento che risulta essere una cosiddetta “do it yourself celebrity” ovvero, apparentemente, una celebrità fai da te. Un soggetto qualunque riuscito cioè a costruirsi la propria fama, il proprio successo da solo. E, come tale, questa figura viene percepita come più libera, meno soggetta alle logiche di marketing. È l’influencer a scegliere i brand con cui collaborare, in base a personali affinità, e non il contrario, come accade invece per brand ambassador e testimonial che sono scelti dal brand.
L’influencer costruisce quel senso di intimità e di prossimità con i propri follower per lo sviluppo di una relazione sociale, comunitaria e affettiva.
Diversamente dal key opinion leader il punto di forza dell’influencer viene più dalla relazione sociale che dalle conoscenze…
I key opinion leader sono persone – medici, giornalisti, designer, ecc. – con una professione anche offline e che debbono la loro fama online al loro riconoscimento di esperti da parte della comunità che li segue e li ascolta per il loro background culturale, le loro competenze e la loro autorevolezza. Mentre gli influencer, che sovente non sono veri esperti (ad esempio Chiara Ferragni nasce come fashion victim che ama condividere con i propri seguaci il suo amore per la moda attraverso i suoi outfit, ma non ha alcuna competenza specifica nel settore), creano seguito soprattutto per i contenuti di intrattenimento che veicolano, per la loro autorappresentazione e per la condivisione di un determinato lifestyle. Diversa è la figura del divulgatore scientifico. Si tratta di un soggetto impegnato nella divulgazione di concetti scientifici con un linguaggio semplice, che si caratterizza, ancora una volta dunque, per specifiche competenze, conoscenze ma che, a differenza dei key opinion leader, non deve il suo seguito e quindi la sua notorietà ai social media. Inoltre, la comunicazione del key opinion leader è più leggera e giocosa rispetto a quella del divulgatore scientifico, in ragione del medium. Spesso infatti il key opinion leader posta contenuti legati alla propria quotidianità che contribuiscono a renderlo una figura familiare, dal volto umano, aiutandolo a costruire e a mantenere una comunità affettiva.
Il web 3.0 si caratterizza per un tipo di relazione in cui è primario il piacere o meglio il far provare piacere
Quale tipo di comunicazione caratterizza l’interazione tra influencer e follower nel web 3.0?
Il web 3.0 si caratterizza per un tipo di relazione in cui è primario il piacere o meglio il far provare piacere. Si tratta di una socievolezza che rimanda a una forma di comunicazione faticosa. Una comunicazione cioè in cui lo stabilire un contatto, la semplice compagnia, il gusto di parlare sono un fine in sé. Le informazioni che vengono scambiate in tali processi comunicativi, tra influencer e follower, non sono referenziali ma riguardano aspetti dell’identità sociale dei partecipanti, gusti e preferenze, modi d’essere, che sono fondamentali per il mantenimento di una relazione comunicativa anche in vista di comunicazioni future. Una comunicazione in cui trasparenza e autenticità giocano un ruolo centrale nel favorire l’empatia e nel costruire la credibilità e quindi la fiducia che riconosciamo all’influencer.
L’autenticità è la cifra distintiva della identità degli influencer in ragione del fatto che si tratta di soggetti che si sono creati “da soli” grazie alle proprie capacità comunicative.
Secondo il fondatore di Amazon Jeff Bezos “il personal branding è tutto ciò che la gente dice di te non appena esci dalla stanza”. Come diventare marchio di sé stessi e come sfruttare la fedeltà dei propri follower e potenziali “consumatori”?
Una società pervasa dall’ideologia neoliberale è un terreno fertile per “autoprodursi” e gestire managerialmente la propria identità per affermarsi sul mercato del lavoro e ottenere successo economico. Come affermava Tom Peters, esperto di management e autore di diversi bestseller, già nel 1997 nel saggio “The brand called You”, il personal branding diventa fondamentale per garantire all’individuo la possibilità (proprio come succede ai prodotti grazie ai brand), di differenziarsi, di distinguersi imponendosi per le proprie competenze, esperienze, conoscenze, eccetera: per farsi notare sul mercato. Essere un brand significa lavorare per costruirsi una immagine solida (che superi cioè la fluidità che caratterizza le identità contemporanee sempre più fragili perché prive dei punti di ancoraggio del passato: religione, famiglia, lavoro, ecc.), coerente, una reputazione tale da conquistare la fiducia delle persone. Reputazione che online si basa sulla trasparenza, sull’autenticità, sul numero di follower che il soggetto è riuscito a conquistare e che si traduce in una conferma del suo valore. Anche gli influencer devono infatti ispirarsi, nella costruzione della loro identità digitale, alla marca, fare proprie le logiche del branding lavorando sulla propria “unique selling proposition”, cioè su quella unicità, specificità, su quei punti di forza, che li distinguono rispetto agli altri individui “concorrenti” con un intento chiaramente commerciale. Il self-branding diventa funzionale all’obiettivo retorico e disciplinare di fornire agli individui uno stimolo a produrre contenuti continuamente per timore di perdere di rilevanza/visibilità.
Una delle maggiori criticità a cui gli influencer possono trovarsi di fronte è “il paradosso dell’autenticità online”. Su che cosa si gioca la credibilità e l’immagine di autenticità dell’influencer?
Nell’economia post-fordista l’autenticità è divenuta un argomento pubblicitario, una risorsa per lo sviluppo dei mercati, del turismo, dei brand e degli stessi individui come brand. In particolare, l’autenticità è la cifra distintiva della identità degli influencer in ragione del fatto che si tratta di soggetti che si sono creati “da soli”, facendosi largo in una serie di settori grazie alle proprie capacità comunicative. Si tratta tuttavia di una autenticità paradossale poiché risente delle logiche di branding: un’autenticità costruita. L’ingresso del sé nella sfera economico-commerciale implica infatti che l’autenticità anziché rispondere in primis al sé, alla sua unicità-originalità, finisca invece con il doversi confrontare costantemente con gli altri individui, in particolare nei social media, dove è necessario piacere, che è necessario conquistare se si vogliono raggiungere benefici economici. Gli influencer sono infatti costretti a mediare tra le attese di autenticità rispetto a sé stessi, ai propri follower, al mondo del marketing e della pubblicità e infine, ma non certo ultime, alle attese delle piattaforme. La gestione dell’autenticità, da parte degli influencer, avviene attraverso una serie di strategie intese a conservare la credibilità e la fiducia accordate dai propri follower pur accogliendo i brand nei propri contenuti. Per esempio, gli influencer si scattano molti selfie come strumento di certificazione della loro effettiva esperienza di uno specifico prodotto. Essi inoltre pianificano i loro post, organizzando i feed, nel caso di Instagram, sincronizzando i post in modo da ottimizzare la loro visibilità tra i follower: considerato che nei digital media l’autenticità è sempre meno una qualità statica e sempre più, invece, performativa. Gli influencer lavorano cioè per essere percepiti come persone reali creando contenuti che, sovente, hanno il sapore di quelli prodotti in maniera amatoriale o video che si caratterizzano per l’immediatezza del dialogo e l’atmosfera dal vivo.
Nei digital media l’autenticità è sempre meno una qualità statica e sempre più, invece, performativa.
Uno dei casi studio degli influencer è quello di Chiara Ferragni. Quali ritiene essere i risvolti positivi e quelli negativi nel condizionare inconsapevolmente il comportanti dei giovani e dei meno giovani?
Credo che ai livelli di Chiara Ferragni, che conta più di 29,5 milioni di follower, non ci sia nulla di inconsapevole. Per quanto riguarda il settore del fashion, cui appartiene, i suoi outfit sono espressione della volontà di promuovere determinati brand, tra cui il suo. Sono azioni di sponsorizzazione o product placement simili alla pubblicità tradizionale, con la differenza che sono inseriti in situazioni di vita quotidiana e quindi tanto più pervasivi grazie ai social media. Per quanto attiene ai temi sociali ogni sua presa di posizione non è una semplice esibizione fine a sé stessa, ma manifesta il desiderio di influenzare le persone rispetto a temi cari/sentiti dalla influencer. Pensiamo, ad esempio, al suo impegno contro la violenza sulle donne. A volte espresso però in maniera, a mio modo di vedere, abbastanza discutibile. Tuttavia sarebbe ingenuo ritenere che gli individui rinuncino a ragionare, a pensare criticamente, siano cioè passivamente oggetto di influenza da parte degli influencer. Esemplare il caso della giovanissima fan di Chiara Ferragni che non ha esitato a criticare la influencer circa la pubblicazione di foto che la ritraevano in abbigliamento intimo e che lei non condivideva. Non condivideva cioè l’oggettivazione del corpo femminile, la sua mercificazione. Quindi non solo gli influencer non sono inconsapevoli circa l’influenza che possono esercitare sui follower ma nemmeno i loro follower lo sono nel senso che decidono a cosa aderire o meno in base ai propri valori e al proprio vissuto.
Anche le istituzioni e organizzazioni pubbliche, come il Ministero della salute o le agenzie e aziende sanitarie, potrebbero oggi diventare influencer per guadagnare autorevolezza e credibilità?
Credo che, pur nella loro differenza e specificità, le istituzioni e organizzazioni che lei cita, dovrebbero effettivamente lavorare sulla loro comunicazione evitando toni paternalistici, doveristici, moralistici, in favore, ad esempio, dell’ironia (frequentemente praticata nei social) che maggiormente coinvolge il destinatario nella decodifica del messaggio. Un destinatario che è un prosumer, ovvero non solo un consumatore ma anche un produttore di messaggi. Si tratta dunque di creare contenuti tali da favorire l’instaurarsi di un vero dialogo anziché calarli dall’alto, sforzandosi di rendere chiari anche concetti complessi. Evitando però, come in taluni casi è accaduto, per raggiungere un target giovane, l’uso di un linguaggio “giovanilista”, un linguaggio cioè che assomiglia a quello dei giovani senza essere sufficientemente credibile e che quindi può produrre l’effetto contrario rispetto a quello perseguito. Ossia allontanare anziché avvicinare il target.
A cura di Laura Tonon
Nota. In questa intervista, Maria Angela Polesana offre uno sguardo sociologico sulle figure dell’influencer, del key opinion leader e del divulgatore scientifico che nel mondo della sanità hanno una connotazione spesso differente da quella qui descritta. È una conferma di quanto sia essenziale trovare un accordo sui significati delle parole e dei concetti.
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Proteggere i follower dalla pubblicità occulta
Di fronte alla pubblicità commerciale il consumatore è consapevole degli interessi di chi promuove il prodotto. Invece nel caso dell’influencer questo non è chiaro e la sua attività promozionale (anche se indiretta e inconsapevole) è ancora caratterizzata da una certa ambiguità. Va segnalato che, in materia di trasparenza, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria e l’Unione nazionale consumatori hanno assunto un ruolo fondamentale in Italia. In particolare, l’Istituto di autodisciplina pubblicitaria si preoccupa di monitorare e intervenire con un’azione di moral suasion verso le aziende associate, nei casi di scorrettezza nella comunicazione.
Dal 2016, ha redatto un codice di comportamento dando vita alla “Digital chart”, che regolamenta tutte le varie forme pubblicitarie tracciando, così, una linea tra tutto ciò che è contenuto organico e quello che, invece, è contenuto commerciale. Contenuto che deve essere segnalato tramite specifici hashtag, tra cui i più utilizzati: #ad, #adv, #sponsorizzato, #sponsored, #prodottofornitoda, #pubblicità, #advertising.
Come sottolinea Maria Angela Polesana, si tratta comunque di una situazione piuttosto complessa, da regolamentare, che presenta tutta una serie di incertezze e non poche complessità. Per esempio, in una campagna di influencer marketing, è difficile individuare chi tra l’azienda, l’agenzia che la segue, la piattaforma scelta per comunicare e l’influencer non abbia ottemperato al regolamento della “Digital chart”.
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Dove si informano gli europei?
Di chi si fidano?
Secondo un’indagine di Statista.com condotta nel 2022 – su un campione di mille cittadini in Belgio, Germania, Spagna, Francia e Olanda – i social media sono la principale fonte di informazioni sulla salute per la metà degli europei intervistati, mentre per un intervistato su quattro lo è un personal trainer e/o un nutrizionista e per uno su sei lo sono i media online. Seguendo un health influencer quasi la metà ha dichiarato di avere adottato un nuovo stile di vita consono alle proprie esigenze, a differenza di una percentuale analoga che, pur avendo utilizzato alcuni prodotti promossi sui social, non ha cambiato del tutto quelle abitudini che incidono sulla salute. Nella Global Consumer Survey, che ha coinvolto oltre 120.000 consumatori in 28 Paesi, l’Italia è il Paese europeo in cui gli influencer dimostrano di essere maggiormente persuasivi: il 22 per cento degli italiani tra i 18 e i 65 anni ha scelto di acquistare un prodotto pubblicizzato da un influencer o da altro personaggio noto, una percentuale maggiore rispetto ai Paesi più ispirati al consumismo, quali il Regno Unito e gli Stati Uniti. Qual è il profilo degli italiani che seguono almeno un health influencer sui social media? Il 38 per cento ha un reddito familiare annuo elevato, una percentuale relativamente elevata ritiene che la salute e la sicurezza sociale siano questioni che devono essere affrontate. •
Fonte: Statista.com 2022 | 2023