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Influencer Interviste

Filo diretto con i cittadini.
I rischi e i vantaggi degli influencer per l’informazione scientifica

Un confronto tra professionisti sanitari, divulgatori e giornalisti

Intervista a

Nino Cartabellotta

Medico, Fondazione Gimbe

Salvo Di Grazia

Medico e divulgatore, MedBunker - Le scomode verità

Pierluigi Lopalco

Epidemiologo, Università del Salento

Walter Ricciardi

Medico di sanità pubblica, Università Cattolica del Sacro Cuore Roma

Simona Scarioni

Medica specializzanda, divulgatrice su Instagram “Escherichia Libri”

Roberta Villa

Giornalista e divulgatrice

Antonella Viola

Immunologa, Università di Padova

By Ottobre 2023Ottobre 9th, 2023Nessun commento
forum influencer cittadini informazione scientifica
Fotografia di Lorenzo De Simone

A suo parere, c’è una continuità di “funzione” e di impatto sui comportamenti sanitari tra opinion leader e i nuovi influencer sanitari?

Antonella Viola. Dipende da cosa si intende con i due termini. In alcuni casi un influencer sanitario ha alle spalle una carriera e delle competenze che ne fanno un opinion leader: in questi casi certamente c’è una continuità di funzione, nel senso che si tratta dello stesso ruolo con mezzi diversi. Naturalmente poi ci sono influencer in ambito sanitario che invece non hanno sufficiente cultura sanitaria e che non solo non sono opinion leader ma che fanno spesso anche danni.

Walter Ricciardi. Non vedo una continuità, ma un pericolo. Temo che oggi, soprattutto da parte di alcuni, venga banalizzata la complessità dei problemi e vengano date delle soluzioni semplici a problemi complessi. Che poi è ciò che oggi una popolazione poco alfabetizzata dal punto di vista scientifico e sanitario si vuole sentir dire.

Pierluigi Lopalco. L’influencer, a mio avviso, è una persona che per qualche motivo è diventata famosa e per questo riesce a portare avanti delle operazioni di marketing. Dunque, la premessa fa capire perché mi spaventa la figura dell’influencer in ambito sanitario. L’opinion leader, invece, veniva e viene ascoltato per la sua autorevolezza scientifica.

Nino Cartabellotta. La letteratura sulla implementation science dimostra l’efficacia – seppur modesta – degli opinion leader nel modificare i comportamenti professionali, ma solo se inserita nell’ambito di una strategia multifattoriale. Evidenze scientifiche, peraltro, utilizzate molto di più dall’industria farmaceutica che dalle organizzazioni sanitarie. I nuovi influencer sanitari durante il periodo della pandemia si sono rivolti a un pubblico generalista e i media hanno spesso puntato più sul confronto e sulla polarizzazione che sull’informazione scientifica. In assenza di evidenze che possano dimostrare la “continuità di funzione” e di impatto sui comportamenti professionali, le narrative ci dicono chiaramente che i professionisti hanno seguito gli “influencer sanitari”, sia nel solco della scienza sia, talvolta, applicando posizioni francamente anti-scientifiche. Al punto che gli stessi cittadini e pazienti potevano scegliere, se volevano, il loro medico no-vax, no-mask o addirittura complottista. Fortunatamente molti di questi sono stati sospesi se non addirittura radiati dall’albo.

Temo che oggi venga banalizzata la complessità dei problemi e vengano date delle soluzioni semplici a problemi complessi. – Walter Ricciardi

Una grande differenza tra gli opinion leader di una volta e gli influencer di oggi è che è venuta meno l’intermediazione della stampa: oggi gli influencer parlano e interagiscono direttamente col pubblico. Cosa comporta? Quali sono i rischi e i vantaggi?

Salvo Di Grazia. Non avendo il filtro della “traduzione” da parte del giornalista c’è una caratteristica tipica: si parla il linguaggio comune. Che è comprensibile ma spesso interpretabile, con risultati disastrosi. Inoltre il meccanismo di internet (e dei social) rende tutto più rapido. Messaggi semplici, veloci, brevi, non adatti ai delicati e complessi discorsi scientifici. È impossibile portare i dibattiti dei convegni scientifici nell’arena del web. E non dimentichiamo il protagonismo, la voglia di farsi notare, l’ubriacatura da riflettori. Quando mai un medico o uno scienziato ha una platea di un milione di spettatori che aspetta una sua dichiarazione? Sono trappole nelle quali è semplice cadere. I vantaggi? Sicuramente uno. Chi è veramente interessato o ha sincera curiosità ha una facilità enorme nel trovare risorse e notizie una volta impensabili. E contatti semplicissimi. Oggi posso parlare direttamente con un premio Nobel, se lui solo ne ha voglia.

Roberta Villa. Credo si possa parlare dei rischi di questa disintermediazione se si parte dal presupposto che i giornalisti, generalisti e scientifici, svolgano effettivamente un ruolo di watch-dog e fact-checker. Negli anni scorsi, invece, purtroppo abbiamo visto anche su quotidiani tradizionali presunti esperti sostenere verità controfattuali senza nessuna obiezione da parte di chi li intervistava. Il ruolo di mediazione del giornalista presuppone un’indipendenza dalla politica e dagli inserzionisti che, diversamente da quella anglosassone, la nostra stampa purtroppo ha perso, o forse non ha mai avuto. La disintermediazione consentita dai social media, quindi, in assenza di questo filtro, fa a mio parere meno danno, soprattutto perché parallelamente consente uguale libertà e accessibilità al grande pubblico a chi vuole portare messaggi corretti, che sia una/o scienziata/o, una/un divulgatore o anche un vero e proprio influencer che decida di usare il proprio potere comunicativo a scopo sociale.

Antonella Viola. Il ruolo del giornalista scientifico è essenziale nella comunicazione della sanità. Il problema è che, nonostante i giornalisti scientifici esistano e siano molto preparati, spesso a parlare di salute ci sono giornalisti che non hanno una preparazione specifica. È necessaria l’intermediazione? Dipende. Se l’influencer sanitario è competente, parla solo sulla base dei fatti acclarati e condivisi dalla comunità scientifica e sa comunicare, probabilmente non è necessario che tra il pubblico e lo scienziato ci sia un giornalista. Questo rende il rapporto più diretto, la scienza più vicina e accessibile ed è un bene per tutti. Ovviamente se una delle tre condizioni viene a mancare, il discorso cambia. Il giornalista scientifico per esempio ha il vantaggio di sapere chi è esperto di cosa e di utilizzare al meglio le competenze degli opinion leader. Faccio un esempio legato alla pandemia: c’è una grande differenza tra epidemiologia e immunologia ed ovviamente il pubblico può ricevere informazioni più complete se a parlare di diffusione dei contagi è un epidemiologo mentre l’immunologo parla dei vaccini.

Nino Cartabellotta. Non è proprio così. Molti influencer erano già molto attivi sui social prima della pandemia, che poi ne ha potenziato il ruolo in termini di follower. Sino a generare l’interesse della stampa, oltre che di radio e televisioni. Diciamo che si è creata una interrelazione tra diversi media, tradizionali e non. La mia esperienza personale dimostra che la presenza multichannel ha potenziato complessivamente la circolazione dei messaggi delle analisi indipendenti della Fondazione Gimbe che volevo diffondere. È ovvio che rischi e vantaggi di questa dinamica sono correlati alla capacità di studio e di analisi del singolo influencer, ma soprattutto alla sua onestà intellettuale. Perché di fatto c’è chi ha sfruttato l’onda per divulgare bufale, avere un seguito, sino a tentare la scalata al Parlamento.

Simona Scarioni. Il rapporto diretto con le persone è tra le cose più belle dei social: io posso stare seduta alla mia scrivania e parlare a uno schermo, e risuonare nelle case di migliaia di persone vicine e lontane. Non c’è filtro, non c’è rielaborazione, e se si lavora con costanza si costruisce uno stretto rapporto di fiducia con il pubblico, fiducia che richiede responsabilità. Personalmente ho sempre cercato di prepararmi il più possibile prima di affrontare un discorso su Instagram per essere ragionevolmente sicura di non sbagliare, di non prendere cantonate. Ma questo sta alla sensibilità di ciascuno di noi: nulla mi può vietare di manipolare l’informazione o l’esposizione per trasmettere un messaggio in modo disonesto. Non ci sono codici di condotta o regole valide per tutti. I social sono un mare libero in cui può essere complicato imparare a nuotare, sia come utente che come creator.

Il ruolo di mediazione del giornalista presuppone un’indipendenza dalla politica e dagli inserzionisti che la nostra stampa purtroppo ha perso. – Roberta Villa

È stata criticata la molteplicità di punti di vista emersa nel periodo pandemico: ha nuociuto al cittadino oppure ne siamo usciti migliorati, con i cittadini più consapevoli su temi di salute? Siamo sicuri sia stata negativa questa ricchezza di informazioni?

Pierluigi Lopalco. Durante la pandemia credo che l’abbondanza di informazioni sia andata a discapito della qualità: ricordo infatti che non sempre un raccolto abbondante è anche ricco. Il problema è stato dar voce anche a persone che non avevano competenze, ma non tutti i cittadini avevano gli strumenti per distinguere le informazioni di buona qualità da quelle di qualità inferiore. Dunque, credo che il cittadino medio sia stato confuso da questa sovrabbondanza di informazioni.

Walter Ricciardi. Il problema è che il cittadino medio non ha gli strumenti per discriminare il vero dal falso e molto spesso prende per buono ciò che vuole sentirsi dire. I social media poi hanno fatto il resto perché sono stati talmente pervasivi che le scelte sono state negativamente condizionate.

Antonella Viola. Credo che la discussione nella scienza sia vitale, così come la molteplicità di punti di vista, ma il confronto tra esperti deve avvenire nel mondo scientifico e accademico e non davanti al pubblico che non conosce le dinamiche della scienza. Quando un divulgatore parla al pubblico deve mettere da parte le proprie opinioni e rappresentare il punto di vista della maggioranza della comunità scientifica, per poter dare ai cittadini dei punti di riferimento saldi. L’errore è stato portare sui media le opinioni personali non supportate dai fatti. Durante la pandemia i fatti erano pochi e cambiavano rapidamente ma questo non giustifica il comportamento di chi ha parlato senza tenerne conto.

Roberta Villa. Credo che l’eccesso di informazioni abbia nociuto non tanto per un problema di quantità, ma di qualità e modalità. Prima di tutto, si sono sempre confusi fatti, ipotesi, sospetti, speranze e opinioni, in una comunicazione sempre strumentale a spingere i cittadini verso l’una o l’altra percezione della pandemia, mai per illustrarne la complessità o fornire alle persone gli strumenti per fare scelte libere e informate. Ho aggiunto il termine “modalità” perché questa informazione così mescolata nei contenuti è inoltre arrivata al pubblico attraverso dibattiti televisivi o posizioni contraddittorie di esperti che ci si aspettava dovessero essere considerati autorevoli, in un martellamento quotidiano h24 più simile alla propaganda che all’informazione. Nemmeno online si trovava un solo sito affidabile e univoco dove i cittadini potevano trovare risposte. Tutto questo non ha a mio parere nulla a che vedere con la “ricchezza di informazioni”.

Quando un divulgatore parla al pubblico deve mettere da parte le proprie opinioni e rappresentare il punto di vista della maggioranza della comunità scientifica. – Antonella Viola

Simona Scarioni. Quando si parla di medicina bisognerebbe sempre distinguere tra linee guida e opinioni. Facciamo un esempio: il Ministero della salute dice che un certo vaccino è raccomandato per le persone di una certa età in base alle evidenze scientifiche e alle linee guida internazionali, e in questo caso la mia opinione in merito dovrebbe essere irrilevante. Invece le persone chiedono la nostra opinione anche sulle raccomandazioni ministeriali, perché le persone tramite i social hanno costruito un rapporto di fiducia con noi, e si fidano di noi come si fidano della nonna e della sua ricetta per la torta di mele. Non è un fenomeno nuovo, ci sono fior fiore di storie di cialtroni e truffatori che hanno sfruttato la fiducia della gente, sia in ambito medico che non, ma temo che la pandemia abbia acuito molto questo aspetto, anche grazie alle molteplici voci che dicevano tutto e il contrario di tutto, sia sui social che in televisione e sui giornali. Non so sinceramente se la popolazione nel suo intero abbia tratto giovamento da questa situazione o al contrario ne sia uscita più sfiduciata e stanca; sarebbe interessante fare uno studio a riguardo. Io, egoisticamente, spero che almeno la mia nicchia abbia acquisito un po’ di consapevolezza in più, un po’ di autonomia in più sui temi di salute. Spero di essere riuscita a trasmettere non tanto informazioni o nozioni su sars-cov-2, ma almeno un metodo per riuscire a informarsi in modo corretto, a discernere tra opinioni e raccomandazioni.

Salvo Di Grazia. A me è dispiaciuto tantissimo che tanti scienziati e (veri) esperti abbiano iniziato una sorta di “news war”, di guerra di informazioni. Perché se è vero che queste cose succedono ai convegni medici e che la discussione è l’anima del progresso, tante volte si dimentica che i social sono un’arena con spettatori di tutti i tipi, di estrazione e cultura diverse, e ognuno interpreta senza filtri. Sui social non c’è dibattito ma opinioni e se uno dice che è bianco e l’altro che è nero non resta al pubblico che dividersi, tifare per l’una e l’altra parte e il tifo, si sa, non è né razionale né obiettivo. In un momento di emergenza totale, ci è servito?

Nino Cartabellotta. Tre problematiche non hanno permesso di tesaurizzare l’esperienza pandemica. Innanzitutto i ricercatori, a fronte di una enorme mole di dati ottenuti in pochissimo tempo, hanno preferito massimizzare la produzione scientifica raggiungendo numeri di pubblicazioni e citazioni mai visti nella storia della ricerca biomedica. Un fenomeno definito covidization of research, che ha prodotto troppe pubblicazioni di bassa qualità e poche evidenze scientifiche robuste. In secondo luogo, frammentazione della ricerca, numero di studi e rapidità di pubblicazione hanno ostacolato la produzione di revisioni sistematiche e linee guida. E, infine, questa instabilità nel processo di produzione e sintesi delle evidenze ha contribuito a resuscitare il “parere dell’esperto”, già collocato dall’evidence-based medicine nella parte più bassa della piramide delle evidenze. Con quella molteplicità di punti di vista che si è di fatto polarizzata in fazioni a cui cittadini e pazienti si sono fidati in relazione a quello che volevano sentirsi dire.

Tante volte si dimentica che i social sono un’arena con spettatori di tutti i tipi, di estrazione e cultura diverse, e ognuno interpreta senza filtri. – Salvo Di Grazia

Ursula Kirchmayer, ricercatrice del Dep Lazio, ha scritto che “per veicolare messaggi basati su evidenze scientifiche e utili per la salute pubblica lo stesso Ministero della salute dovrebbe diventare un influencer e dotarsi degli stessi strumenti di chi lo fa con successo”. Cosa pensa a riguardo?

Nino Cartabellotta. Ineccepibile. E non solo con gli stessi strumenti, ma anche con gli stessi linguaggi, nel pieno rispetto del ruolo istituzionale. I grandi propalatori di bufale sui social devono essere contrastati anche dalle istituzioni. Perché il loro silenzio, in quegli ecosistemi, legittima contenuti antiscientifici e ne favorisce la diffusione – un “silenzio-assenso” molto rischioso per la salute pubblica.

Pierluigi Lopalco. In un mondo ideale sarei d’accordo. Alcuni tentativi, tra l’altro, sono stati fatti. Penso a “Dottore ma è vero che”, un sito di informazione della Fnomceo che tenta di parlare il linguaggio della divulgazione. Credo, però, che siti o sperimenti di questo tipo difficilmente riescano a raggiungere lo stesso risultato di un influencer. La forza degli influencer è che le persone si identificano con loro, e questo obiettivo è difficile che lo raggiunga il ministro della salute o un funzionario delle istituzioni. Quindi la metodologia comunicativa non può essere quella dell’influencer. Piuttosto è importante provare a capire quali siano le modalità comunicative più efficaci sui social media o su altre piattaforme. Altro discorso è che un ente istituzionale possa utilizzare un influencer per trasmettere messaggi positivi riguardanti la salute.

Il silenzio delle istituzioni sui social media legittima contenuti antiscientifici e ne favorisce la diffusione. – Nino Cartabellotta

Antonella Viola. Sono assolutamente d’accordo. Oggi il tema fondamentale per la sostenibilità del nostro sistema sanitario e della società tutta è la prevenzione. E promuoverla dovrebbe essere la missione primaria del ministero della salute. Capire come comunicare alle varie fasce di età, studiando gli influencer sanitari che funzionano, è senz’altro una strategia vincente.

Walter Ricciardi. C’è del vero in questa affermazione: le istituzioni pubbliche dovrebbero acquisire la stessa padronanza e la stessa confidenza degli influencer nell’utilizzare i social media. È però molto difficile perché le istituzioni sono legate a meccanismi di comunicazione lenti, complessi, inadeguati. Il problema, però, è che i social media rispondono a una logica di profitto: strumenti come Facebook, Instagram o TikTok alimentano una serie di informazioni che tendono a mantenere le persone sulla piattaforma per il maggior tempo possibile per poter poi vendere la pubblicità. Fino a quando i social media non verranno regolati, le istituzioni perderanno sempre.

La forza degli influencer è che le persone si identificano con loro, e questo obiettivo è difficile che lo raggiunga il ministro della salute – Pierluigi Lopalco

Con quale confidenza si allontana dai suoi terreni abituali quando si rivolge ai suoi follower sui social?

Simona Scarioni. Generalmente cerco di affrontare solo temi attinenti alla mia area e che conosco bene. Mi è capitato di fare contenuti in ambiti diversi dal mio per promuovere associazioni o iniziative benefiche, ma in questi casi ho sempre cercato di fare contenuti efficaci ma molto imparziali e basilari. Preferisco indirizzare le persone ad altri profili esperti in un campo specifico diverso dal mio, se necessario.

Roberta Villa. Pochissima confidenza. Sono molto più insicura di quanto sembri anche nei campi di cui leggo e studio ogni giorno, per cui ne esco raramente e solo se ho possibilità di prepararmi.

Salvo Di Grazia. Direi che ormai ci sono abituato. Sono sul web da oltre 15 anni e i cambiamenti sono tanti però l’esperienza aiuta. In realtà sono due persone diverse. Quella in reparto e sala operatoria e quella che si esibisce sui social. Mi esibisco. Perché non ha senso (e sarebbe pure patetico) il medico che “evangelizza” i pazienti su internet. Però sono già vecchio per il “nuovo” web. Oggi attirano i balletti e le facce strane. Io resto nel mio. Meglio per me cercare la via più semplice per spiegare un concetto, usare l’ironia, che ogni tanto si lascia andare alla battuta, cercare il caso curioso. Alla fine io non ho mai voluto fare il divulgatore o l’influencer, lo sono diventato perché questo si è sui social, è il ruolo affibbiato, la parte che bisogna fare. A me piace sinceramente spiegare e stupirmi con i miei lettori. Per questo mi sento a mio agio. Quello che dico agli altri è quello che piace a me. Se ritengo una cosa interessante, tanto da raccontarla è perché ha stupito anche me.

Preferisco indirizzare le persone ad altri profili esperti in un campo specifico diverso dal mio, se necessario – Simona Scarioni

In alcuni Paesi europei sono in vigore normative che obbligano gli influencer alla trasparenza sui compensi ricevuti: sarebbe d’accordo? Cosa pensa al riguardo?

Simona Scarioni. Certo, è giusto che il pubblico sappia quando un contenuto è spontaneo e quando invece è sponsorizzato. Sta al creator valutare se la sponsorizzazione sia o meno coerente con i propri contenuti e con il proprio profilo e se sia giuridicamente consentito fare un contenuto sponsorizzato, ad esempio dal proprio codice deontologico. Se il creator ha fatto un buon lavoro costruendo la propria community, il pubblico capirà che in qualche modo tutti dobbiamo portare a casa da mangiare. Se non è così, allora c’è da spiegare l’importanza e il valore del lavoro che sta dietro i profili social, c’è da spiegare che un contenuto che si fruisce gratuitamente non è necessariamente un contenuto che si produce senza fatica e senza impegno.

Roberta Villa. Credo che bisognerebbe trovare un modo per regolamentare il settore a tutto tondo, definendo prima di tutto in modo chiaro le differenze tra un influencer, un giornalista, un divulgatore sui social. Il business model dell’influencer è ben chiaro e accettato dal pubblico. Chi vede Chiara Ferragni gustare un gelato con scritto #adv sa che sta guardando uno spot, come in televisione o su un manifesto per strada. Il problema è come garantire una possibilità di guadagno a chi vuole fare della divulgazione un lavoro, senza creare conflitti di interesse che possano condizionarne i contenuti. Già oggi chi accetta sponsorizzazioni in teoria dovrebbe segnalarlo, ma tutto è affidato alla coscienza del singolo. Il supporto dei follower in genere è minimo. È un mondo nuovo, un mestiere nuovo per cui occorre creare nuovi modelli di sostenibilità economica.

A cura di Rebecca De Fiore