Sui social la comunicazione molto diretta, coinvolgente, con il proprio follower è centrata sull’immagine dell’altro da prendere come modello. Quanto i social media possono influenzare il rapporto con il proprio corpo e con il cibo di un adolescente e di una adolescente?

Fondatrice e direttrice della Rete per i disturbi del comportamento alimentare della Usl 1 dell’Umbria, Laura Dalla Ragione ha pubblicato numerosi articoli e libri su anoressia, bulimia e obesità in età evolutiva. È co-curatrice e co-autrice di “Social Fame. Adolescenza, social media e disturbi alimentari” (Roma: Il Pensiero Scientifico Editore, 2023).
Vorrei fare una premessa per inquadrare il problema. Sui social abbiamo due diversi profili di influencer: il food influencer e il fit influencer che, rispettivamente, propongono modelli alimentari finalizzati al controllo del peso e modelli corporei da raggiungere. Sono due filoni distinti ma che si intersecano: l’adolescente che segue un influencer con il modello di magrezza assoluta certamente segue anche un influencer che suggerisce un’alimentazione molto restrittiva abbinata a una intensa attività fisica. L’immagine corporea diventa un punto centrale nell’adolescente che è in una fase di trasformazione e con l’influencer si instaura una relazione virtuale di identificazione e imitazione. Ma il modello proposto sul social media è lontano dalla realtà. Molte delle foto pubblicate su Instagram sono modificate con Photoshop e raccontano uno stile di vita inverosimile, cadenzato da otto ore di attività fisica giornaliere senza superare le 500 calorie al giorno. Quello dell’influencer diventa dunque un modello irraggiungibile – se non al prezzo di configurarsi un disturbo alimentare. E l’adolescente da questo processo di identificazione ed emulazione non può che uscirne perdente. Ciò che preoccupa è che, per la maggior parte, questi influencer non sono solo personaggi famosi, come Chiara Ferragni per fare un esempio, ma anche coetanei sconosciuti. I social danno visibilità e fama, non solo a chi è già famoso. Basta costruire una pagina Instagram che propone un’immagine del corpo irreale in cui l’altro si identifica. In poco tempo questi profili arrivano a 200-300mila follower e raccolgono un forte consenso sui social su tutto ciò che riguarda il corpo e il cibo.
Come anticipava a questo si aggiungono i food influencer che possono essere professionisti – dietologi o nutrizionisti – oppure autodidatti o appassionati di cucina salutare che intrattengono i propri follower con foto sui social. Come viene narrato il cibo?
Con i food influencer abbiamo un altro grande problema che tocca anche aspetti legali. La norma prevede che puoi dare consigli sulla alimentazione solo se sei formato e sei iscritto all’ordine dei nutrizionisti o dietisti ed eserciti la professione. Se non hai queste caratteristiche diciamo che “ti arriva un controllo e ti fanno chiudere”. Ma sui social si contano migliaia e migliaia di persone che danno consigli nutrizionali senza avere alcuna competenza; attraverso pagine molto accattivanti e grazie alla capacità di costruire relazioni sociali diventano dei punti di riferimento con il rischio però di dare consigli non sempre scientifici e potenzialmente pericolosi. Alcuni food influencer danno indicazioni su cosa mangiare e quanto mangiare per non superare le 1500 calorie giornaliere, altri addirittura suggeriscono di assumere un certo numero di pasticche al giorno di carnitina per bruciare più calorie o, ancora, spiegano come bloccare lo stimolo biologico dell’appetito. Come nel caso dei fit influencer rientrano in questo profilo molti adolescenti che vengono seguiti da migliaia di altri adolescenti su Facebook e Instagram. Il problema è la mancanza totale di controllo in particolare su Instagram, canale più seguito, e che ha gli algoritmi più sofisticati, attraverso i quali nel momento in cui si cerca la parola “dieta” o la parola “cibo”, immediatamente arrivano tutte proposte relative alla ricerca che hai fatto. Questo significa che se, per esempio, un adolescente cerca su Tik Tok “dieta restrittiva, come fare per dimagrire” dopo pochi minuti viene letteralmente bombardato da informazioni su quel tema. Ecco, uno degli aspetti più inquietanti, che ci vede abbastanza impotenti, è proprio il tipo di comunicazione sull’alimentazione che circola in rete, che – come spieghiamo anche nel libro “Social fame” – non è ovviamente la causa dei disturbi alimentare, che è ben più profonda e legata a una depressione di tipo identitario, ma certamente è un fattore di diffusione. La modalità comunicativa tipica dei social facilita la diffusione di problematiche legate al comportamento alimentare.
Quello dell’influencer diventa un modello irraggiungibile – se non al prezzo di configurarsi un disturbo alimentare. E l’adolescente da questo processo di identificazione ed emulazione non può che uscirne perdente.

Il cibo sui social in Italia. Secondo uno studio di Buzzoole, agenzia specializzata in influencer marketing, sui social si parla sempre più spesso di cibo. In Italia, la pandemia è stata un driver fondamentale: dal 2019 al 2020 i post a tema food sono cresciuti del 57,4 per cento. Il canale maggiormente utilizzato per condividere contenuti che riguardano il food è Instagram con il 75,64 per cento, seguito da Facebook e Twitter; TikTok invece si trova in coda ma sempre più in crescita, tanto da aver toccato 11.800 post solo nell’ultimo anno. La maggioranza dei follower italiani è composta da giovani adulti e da donne.
La sociologa Maria Angela Polesana spiega che tra influencer e follower si instaura “una comunicazione in cui autenticità e trasparenza giocano un ruolo centrale nel favorire l’empatia e costruire credibilità e fiducia”. Gli influencer non potrebbero essere dei modelli per un buon rapporto con il proprio corpo?
Molte pagine in internet, in rete, soprattutto su Instagram, sono le cosiddette pagine di recovery. È il caso di due pagine aperte da ragazze (Peso Positivo e Animenta) che – dopo aver superato il loro problema con l’alimentazione – hanno intrapreso in rete una bellissima azione di prevenzione e di informazione sul tema. Pertanto possono esserci anche elementi positivi e, anzi, il punto è proprio che dovremmo lavorare tutti perché la rete venga usata virtuosamente. Visto che si possono raggiungere migliaia e migliaia di persone si deve riuscire a diffondere buona informazione nel campo dei disturbi alimentari attraverso una modalità di comunicazione di contenuti anche positivi. Tra l’altro durante e dopo l’esperienza del covid abbiamo cominciato tutti a utilizzare di più i media e la telemedicina, e alcune pagine online sono state utilissime in quella fase e lo sono anche adesso.
I social media sono strumenti di comunicazione in forte espansione che non possiamo controllare. In un mondo sempre più digitalizzato quali competenze servono per un uso funzionale e consapevole di questi strumenti?
L’alfabetizzazione mediatica è la competenza chiave per essere padroni del mezzo. Nelle scuole, così come si insegnano l’educazione tecnica e l’educazione civica, dovrebbe essere insegnata l’educazione digitale. Gli adolescenti di oggi, i cosiddetti “nativi digitali”, conoscono il mezzo e la tecnologia meglio della generazione precedente; non sono però padroni del mezzo, di come utilizzarlo e di come discernere i contenuti veri da quelli falsi. Né sanno proteggersi dall’impatto emotivo delle relazioni virtuali. I giovani sono immersi costantemente in una realtà in cui virtuale e reale si confondono. Dobbiamo far capire loro come difendersi dai pericoli in questo mondo costantemente onlife, usando il neologismo coniato dal filosofo Luciano Floridi. Un tempo un ragazzino di dodici anni usciva di casa ed era legittimo e normale che i genitori gli domandavano “dove vai, con chi vai? A che ora torni?”; oggi un dodicenne entra in rete e i genitori non possono sapere chi incontra, chi vede, quando torna, cosa fa. Questo significa che anche i genitori dovrebbero imparare a confrontarsi, non a proibire e basta; a discutere con i ragazzi di questi problemi esortandoli a condividere e a parlarne insieme. Ma è la scuola a dover fornire gli strumenti attraverso appunto un’educazione all’uso del digitale.
I giovani sono immersi costantemente in una realtà in cui virtuale e reale si confondono. Dobbiamo far capire loro come difendersi dai pericoli in questo mondo costantemente onlife.

Le conversazioni su Twitter.Secondo il “Twitter Birdseye report”, in seguito alla pandemia del 2020, le conversazioni su Twitter relative all’alimentazione sono aumentate e cambiate lasciando trasparire l’interesse del pubblico per un’ampia varietà di argomenti sul “mangiare sano”, oltre che per la sostenibilità. Il “digiuno intermittente” è stato il più citato in tutte le conversazioni sui regimi alimentari. Altri picchi di interesse hanno riguardato la scelta di prodotti veg o le ricette di dolci senza glutine
I social media sono diventati i mezzi di comunicazione che usiamo tutti i giorni. Non si tratta di abolirli ma di imparare a usarli.
Le istituzioni potrebbero diventare dei validi influencer in un’ottica di prevenzione del cosiddetto “social fame”?
Credo che le istituzioni dovrebbero investire in campagne sull’uso etico e consapevole dei social media digitali. Dovrebbero “influenzare” i genitori e sensibilizzarli a rispettare alcune norme, come per esempio l’esposizione ai device. La Società italiana di pediatria sconsiglia di esporre a smartphone e tablet i bambini con meno di due anni e raccomanda di non superare 2 ore al giorno di esposizione tra i due e i cinque anni. Purtroppo sappiamo benissimo, però, che questi limiti non trovano un riscontro nella realtà. Eppure abbiamo raccolto delle evidenze sulla correlazione tra l’aumento di casi di sindrome dell’attenzione di apprendimento e l’abuso della tecnologia nell’infanzia. Il Ministero della salute, il Miur e i tutti i ministeri dovrebbero dare delle indicazioni per prevenire i danni causati da un uso improprio di questi strumenti e per utilizzarli al meglio. I social media sono diventati i mezzi di comunicazione che usiamo tutti i giorni. Non si tratta di abolirli ma di imparare a usarli. Con una metafora, i social media sono come il fuoco dobbiamo imparare ad usarlo perché altrimenti ci bruciamo.
A cura di Laura Tonon