La comunicazione dovrebbe essere orientata da tre coordinate di base: le intenzioni, il contesto e gli interlocutori ai quali si rivolge. Un influencer pianifica la propria comunicazione o agisce per lo più in modo spontaneo e immediato?
Credo che prima di questa domanda ci si debba chiedere cosa intendiamo con influencer. In linea teorica, qualunque persona che ne influenza altre con le proprie opinioni, con le proprie idee e con quello che condivide, è un influencer. Micro o macro influencer a seconda anche del bacino di utenza. Ma il discorso finisce spesso per creare un’opposizione inesistente fra divulgatore e influencer. Un esempio: Alessandro Barbero è un docente e uno studioso, ma è anche un influencer nel suo campo. Quella di influencer è un’etichetta spesso usata per creare una cesura: se sei influencer non sei un’altra cosa, e si è visto nella discussione che ha riguardato Michela Murgia. Sappiamo anche che esistono invece tante persone, mediamente giovani, che non fanno divulgazione ma raccontano la loro vita, dall’organizzazione di un armadio agli argomenti più vari che riguardano il lifestyle – e di questo, attraverso le sponsorizzazioni, hanno fatto un lavoro. Quindi la domanda prima di tutto è: a chi ci riferiamo? A persone che hanno un background di studi e che per vari motivi, compresa la popolarità, sono diventati anche influencer? O a chi racconta la propria manicure o il beverone che fa dimagrire?
Chi usa la presenza online come lavoro ha la necessità di sapere in che contesto si muove e deve sicuramente implementare una strategia comunicativa per attirare il più ampio numero possibile di persone. Possiamo interrogarci sulle intenzioni, che non sempre possono essere chiare.
Perché ritiene che le intenzioni di chi comunica siano un aspetto fondamentale?
Perché credo che sia un aspetto che riguarda anche la propria coscienza. In che consapevolezza e con quale coscienza divulghi le tue idee? Penso che per molti la spinta sia quella di condividere informazioni ritenute importanti con un pubblico più ampio possibile. Ma c’è anche chi lo fa solo per lo hype e per ricevere il like. E ce ne sono. E lì, soprattutto, è una questione di sincerità, come direbbe Herbert Grice. Sii sincero, perché la comunicazione funziona davvero quando parli di cose che conosci bene e della cui bontà “sei convinto”.
La stupidità dei colti è un grosso problema che, soprattutto in rete, può avere delle conseguenze deflagranti.
Sincerità e competenza: perché però si finisce con l’esprimersi anche su argomenti distanti dal proprio ambito?
Nel campo della medicina e soprattutto durante la pandemia molte persone hanno detto di tutto. Credo che esista un problema di hubris, di tracotanza, che riguarda le persone molto competenti. Spesso le persone molto competenti in un campo, ahimè, si improvvisano esperte di altri campi: così che abbiamo visto un virologo improvvisarsi linguista per spiegare perché non bisogna usare i femminili professionali ricorrendo a esempi che hanno fatto accapponare la pelle a chiunque abbia studiato la morfologia della lingua. Ecco: la stupidità dei colti è un grosso problema che, soprattutto in rete, può avere delle conseguenze deflagranti.
È così importante sapere di non sapere e riconoscere i limiti della propria conoscenza, in qualsiasi campo.
Come rispondere a una domanda su un tema che non conosciamo?
Le confesso che anche a me chiedono l’opinione sulla qualunque e io nella maggior parte dei casi molto tranquillamente rispondo “Non lo so” o “Non sono competente”. Fine e non succede nulla. Non è che io perda di credibilità nel mio campo perché quando mi hanno chiesto cosa penso dei vaccini ho risposto di non avere nulla di intelligente da dire, se non che mi sono vaccinata quattro volte. No? Ci si può sottrarre al giochino di improvvisarsi esperti. Mi chiedo sempre quanto le persone, socraticamente parlando, arrivate a un certo livello di sapere, continuino a ricordare che la loro competenza è relativa. Cioè, quando arrivi a essere considerato il semidio della virologia, ti ricordi che non sei un meteorologo o esperto di vini? È così importante sapere di non sapere e riconoscere i limiti della propria conoscenza, in qualsiasi campo.
La realtà è complessa e ha bisogno di una chiave di lettura complessa.
Covid ha obbligato a cambiare idea, perché nuove evidenze hanno via via modificato la conoscenza sulla malattia, sui meccanismi del contagio, sulle misure di prevenzione. Da linguista, cosa basterebbe dire per ammettere con sincerità che le proprie convinzioni sono cambiate?
Penso che alla base di tutto ci sia una mancanza di abitudine al pensiero metacognitivo. La maggior parte delle persone è inconsapevole del fatto che il metodo scientifico, in qualsiasi campo, procede attraverso trial and error, cioè prevede che sullo sbaglio si costruisca nuovo sapere e si avanzi. Un pensiero scientifico che neghi la possibilità di avere sbagliato è antiscientifico. La storia della conoscenza è piena di errori e di cambiamenti di paradigma. Anche l’esperienza cognitiva è disordinata, pure quando è massimamente scientifica.
Molte persone si abituano ad avere ragione. Ho la fortuna di aver studiato con maestri e maestre che mi hanno insegnato il pensiero divergente in ambito linguistico, il “thinking out of the box”. Posso immaginare che contribuisca anche l’età, che potrebbe suggerire di sedersi su quello che si conosce come noto facendo smarrire la voglia di esplorare l’ignoto. Penso che sarebbe molto importante ascoltare voci autorevoli dire “Abbiamo sbagliato, dobbiamo rifare lo studio”, perché anche chi è fuori da questi contesti specifici potrebbe abituarsi all’idea che è proprio così che funziona pensiero scientifico.
Aggiungerei una cosa: Tullio De Mauro nel 1975 pubblicò le dieci tesi per l’educazione linguistica democratica, nelle quali sosteneva che non bastava l’insegnamento formale alla grammatica, ma occorreva insegnare la complessità del sistema linguistico in tutte le sue sfaccettature. Perché? Perché la realtà è complessa e ha bisogno di una chiave di lettura complessa. Era l’idea dell’esercizio di un pensiero metalinguistico oltre che linguistico. Ecco, questa stessa idea andrebbe allargata a tutte le materie per abituare le persone alla complessità del pensiero metacognitivo, cioè a come si studiano le cose, a come si avanza nei vari campi del sapere.
Dovrebbe esserci molta più compenetrazione e collaborazione fra mondi scientifici e mondo degli influencer, perché in questo modo si potrebbe anche aspirare ad aiutare le persone a capire meglio le cose.
Cosa rende influencer una persona competente?
Da una parte sicuramente la competenza e dall’altra anche la capacità di tradurre concetti complessi in una lingua comprensibile alla maggior parte delle persone. Poi, se hai fortuna, se sei anche simpatica o carismatica, puoi fare il salto di qualità e diventare una influencer in senso positivo. Continuo a dare alla parola una valenza assolutamente duplice. Intendo dire che non condivido il disprezzo che spesso è associato alla figura dell’influencer. Anzi, secondo me ci dovrebbe essere molta più compenetrazione e collaborazione fra mondi scientifici e mondo degli influencer, perché in questo modo si potrebbe anche aspirare ad aiutare le persone a capire meglio le cose.
Quando inizi ad avere la sensazione che hai una legione di persone che ti segue, tenere dritta la barra è complicato.
Anche se esistono influencer portatori di false informazioni…
Tornando al pensiero di Grice, c’è una domanda a cui può rispondere in buona fede solo la persona interessata, che può ammettere di sapere di non sapere. Sei convinto, convinta della bontà e della validità delle cose che vai dicendo? Può esserci un problema di autoinganno. Oppure si può essere in cattiva fede ed è anche peggio. Cioè lo si può fare per i soldi, o per la fama, e non per il desiderio di condivisione della conoscenza. È difficile resistere al richiamo del guadagno facile. Quando inizi ad avere la sensazione che hai una legione di persone che ti segue, tenere dritta la barra è complicato.
A cura di Luca De Fiore
Sociolinguista, traduttrice e divulgatrice, Vera Gheno
si occupa in particolare di comunicazione digitale
e di inclusività nella lingua italiana. È una sostenitrice
dell’uso dello scevà (-ǝ) nella lingua italiana scritta e orale.
Conduce il podcast settimanale “Amare parole”,
prodotto da Il Post. Nel suo ultimo libro
“L’antidoto. 15 comportamenti che avvelenano
la nostra vita in rete e come evitarli”
(Milano: Longanesi, 2023) spiega come rendere
la rete un posto migliore per tutti.