Internet ha dato una dimensione prima impensabile alla possibilità di narrarsi in quanto persona affetta da una malattia. Come si è arrivati dal racconto di Lev Nikolàevič Tolstoj ai blog?
Fino a pochi anni fa le narrazioni letterarie di malattia e di morte erano molto rare. La morte di Ivan Il’ič di Tolstoj era una piccola grande eccezione. Nel 1930 Virginia Woolf in un saggio sulla malattia scriveva: “Considerato quanto sia comune la malattia, appare davvero strano che non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza, poemi epici alla febbre tifoidea, liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni, la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente”. Ai nostri giorni Virginia Woolf dovrebbe ritrattare completamente questa sua analisi, perché nel frattempo la narrazione letteraria, sia scritta sia filmica e dei serial televisivi, si è impadronita dell’ambito della malattia, della morte e della cura, in tutte le sue dimensioni umane.
Ma c’è anche un’altra forma di narrazione abbinata alla medicina che ha preso il sopravvento negli ultimi decenni: è la narrazione del dolore che racconta di quello che si patisce quando si è costretti ad attraversare il buio territorio della malattia.
Nel 1973 il giornalista Gigi Ghirotti ha fatto scandalo perché, dopo che gli è stato diagnosticato un cancro, si è messo in televisione e ha parlato della sua vicenda clinica. Il servizio è poi diventato il libro: Nel tunnel della malattia. In quegli anni era una cosa scioccante: la tendenza di chi era colpito da una malattia in genere e da alcune in particolare, come il cancro, era di tacere. Cercava di nascondere, non ne parlava. Mentre oggi la prima reazione di chi ha un fatto patologico grave è di mettersi in rete, raccontandola.
Siamo praticamente invasi da storie (auto)biografiche – in inglese misery report – che raccontano le vicende della lotta per la salute e della convivenza con la malattia dal punto di vista di chi le ha vissute. Non c’è patologia che non abbia il suo referente narrativo. La narrazione del dolore è diventato un argomento di condivisione quasi ossessiva: è un “selfie con malattia”. Oggi chiunque si sente pienamente autorizzato a mettersi on line e parlare del suo vissuto di malattia – dalla diagnosi alle terapie – giungendo nei casi più estremi a raccontare in diretta la propria morte.
Un caso emblematico di narrazione del dolore è stato l’appello lanciato da Salvatore Iaconesi, che dopo la diagnosi di un tumore al cervello ha voluto condividere in rete la sua malattia, chiedendo ai cybernauti di aiutarlo a combattere la malattia e di accompagnarlo sulla strada della guarigione. Anche la sua vicenda è diventata un libro: La cura.
Questo scenario generale è indicatore sia della complessità di evocare la narrazione in medicina, sia della novità del fenomeno e dell’importanza di rifletterci.
“Considerato quanto sia comune la malattia, appare davvero strano che non figuri insieme all’amore, alle battaglie e alla gelosia tra i temi principali della letteratura. Verrebbe da pensare che romanzi interi siano stati dedicati all’influenza, poemi epici alla febbre tifoidea, liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni, la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente.” — Virginia Woolf
In che modo la rete, attraverso la condivisione di racconti di malattie e guarigioni, sta modificando il modello di cura?
Lo rimette completamente in discussione. Nel modello tradizionale della medicina paternalistica il paziente bussa alla porta di chi ha la competenza, la conoscenza, la volontà e l’organizzazione per risolvere il problema o quanto meno per accompagnarlo nel percorso della cura. L’elemento fondante è la compliance: “Un malato comincia a guarire quando ubbidisce al medico” sentenziava il clinico spagnolo Gregorio Marañón. Ora i ruoli dei protagonisti della cura stanno cambiando. Il medico, anche il più competente e aggiornato, deve accettare che la sua scienza – sotto la vigilanza della sua coscienza – non rappresenta più l’unico canale informativo aperto al paziente; egli propone il percorso terapeutico e le eventuali alternative, ma non le impone; eventualmente può offrire un consiglio, che il malato non è tenuto a osservare. Il paziente si informa e spesso cerca una seconda opinione. Andare in rete è una sorta di thousand opinion, con tutti i rischi che comporta, perché la rete ha qualche analogia con le discariche dove si può trovare di tutto e di più, senza avere la garanzia che l’informazione condivisa sia corretta. Inoltre troppe informazioni possono essere per il paziente anche un rischio di confusione: potrebbe aumentare ancora l’incertezza, fino a produrre un senso di paralisi rispetto a decisioni drammatiche. È necessario che il cittadino che entra nella rete sociale faccia uso di un senso critico ancor più sviluppato. Questo scenario ci obbliga a rimettere in discussione il concetto di empowerment. Questo si può muovere in due diverse direzioni: quella della persona che diventa potenziata attraverso la conoscenza e l’assunzione di responsabilità, ma anche quella della persona che vuole comandare il percorso di cura e guarigione, guidarlo, pretenderlo. Nella seconda ipotesi l’empowerment può condurre a un drammatico isolamento del malato, lasciato solo a decidere (secondo il brutale modello: “Vuoi la pillola rossa o quella bianca? Decidi tu!”). Oggi non è inconsueto il caso del paziente che si rivolge al medico con una sua opinione già formata, quasi che il parere del medico sia una second opinion; e del medico al quale viene chiesto di essere compliant rispetto a quanto stabilito dal paziente rispetto alla terapia. Così inteso e praticato, l’empowerment comporta una subordinazione del medico a un’autoreferenzialità assoluta del malato. Questo cambiamento di scenario è un’occasione per interrogarsi sul valore che vogliamo dare al concetto di empowerment nella relazione tra medico e paziente. Allo stesso tempo dobbiamo rimettere in discussione quei modelli fasulli di empowerment, purtroppo molto diffusi nella pratica clinica, nei quali il consenso informato si riduce a una mera procedura burocratica per tutelare il medico e la struttura. La questione non è chi “comanda nel processo di cura”, ma come percorrere insieme la strada che porta a decisioni condivise. Basterebbe farsi la domanda: “Che cosa vuole sapere il malato che ho davanti a me?”. Fornire al malato che ha appena avuto una diagnosi devastante tutta una serie di informazioni, comprese le percentuali di sopravvivenza e di esito, potrebbe essere paralizzante, portare al disempowerment. Le informazioni non richieste possono costituire una forma di violenza. Per conoscere ciò che la persona vuole sapere e cosa la rende unica, il buon professionista non ha altro strumento che la narrazione: sollecitare il malato a raccontare la sua storia e disporsi ad ascoltarla. È questa, in buona sostanza, la medicina narrativa nella pratica clinica: uno strumento per arrivare a una decisione condivisa. Questa è anche la proposta formulata dalle “Linee di indirizzo della medicina narrativa in ambito clinicoassistenziale” nella conferenza di consenso convocata dall’Istituto superiore di sanità nel giugno 2014.
“Un malato comincia a guarire quando ubbidisce al medico.” — Gregorio Marañón
Concentrandosi sul concetto di empowerment oggi, forse più che parlare di empowerment del paziente bisognerebbe parlare dell’empowerment dell’alleanza medico-paziente. Bisognerebbe trovare forse anche un altro termine?
Usare un termine straniero che non ha il suo corrispettivo in italiano è già di per sé indice che ci muoviamo in un territorio per il quale non disponiamo di risorse terminologico- linguistiche e probabilmente nemmeno di quelle culturali. Un termine straniero come empowerment è una gruccia che utilizziamo per camminare anche molto faticosamente. Spesso viene proposto ed enfatizzato il termine “alleanza”, ma anche in questo caso è necessario riflettere sul significato della parola. Il termine di “alleanza” nella nostra eredità linguistico-religiosa (la “antica alleanza” ebraica e la “nuova alleanza” cristiana) equivale ad affidarsi a un’entità potente che assicura la salvezza. Applicato alla medicina, può costituire una trappola, perché evoca una relazione tra alleati che non hanno lo stesso potere: c’è qualcuno che concede l’alleanza e un altro che l’accetta; per restare nell’alleanza bisogna osservare ciò che stabilisce colui che concede l’alleanza (nel contesto religioso, i comandamenti; in quello medico ciò che viene prescritto dal curante). Questo tipo di alleanza è essenzialmente asimmetrica. Per molto tempo la medicina si è esercitata su questo modello: il medico porta il paziente alla guarigione e il paziente deve aderire alla prescrizione. Se il paziente non è compliant, infrange l’alleanza. Ma non è questo che la nuova medicina e la nuova cultura della cura richiedono: quando siamo malati non ci mettiamo nelle mani di un salvatore, ma ci adoperiamo perché si incontrino competenze diverse: quella del curante, basata sulla scienza, e quella di colui che viene curato, basata sulla sua biografi a. La buona medicina oggi nasce dalla fusione tra l’evidence-based medicine e la narrative-based medicine, tra la medicina basata sulle prove scientificamente validate, che si traducono in un sapere condiviso nel mondo scientifico, e la medicina basata sull’ascolto della narrazione, che serve a far conoscere la patologia e a dar voce al vissuto e ai bisogni del malato. In questa visione l’alleanza equivale alla capacità di misurare, di soppesare, interfacciare queste due diverse facce della medicina, dalla cui fusione prende forma una medicina personalizzata: “sartoriale”, tagliata su misura. Questa nuova medicina nasce da un diverso rapporto tra curanti e curati: è attenta all’ascolto dei valori e delle preferenze personali; attraverso la narrazione permette di condividere le decisioni. È una strada percorsa insieme. L’obiettivo dell’empowerment in questo scenario è fare in modo che chi offre la cura e chi la riceve si ascoltino davvero. Per questo mi permetto di proporre la “conversazione” come modello di relazione. La conversazione non come sinonimo di passatempo, ma simbolo della più alta civiltà.
“Per molto tempo la medicina si è esercitata su questo modello: il medico porta il paziente alla guarigione e il paziente deve aderire alla prescrizione. Se il paziente non è compliant, infrange l’alleanza. Ma non è questo che la nuova medicina e la nuova cultura della cura richiedono: quando siamo malati non ci mettiamo nelle mani di un salvatore, ma ci adoperiamo perché si incontrino competenze diverse: quella del curante, basata sulla scienza, e quella di colui che viene curato, basata sulla sua biografia.”