Si chiamano e-patients. Sono pazienti che usano la tecnologia digitale per costruire un modello di cura basato sulla partecipazione attiva con il medico. Uno dei più attivi è Dave, icona di un vero e proprio movimento che lotta per stabilire un rapporto medico-paziente più diretto. Dave se l’è vista brutta. Dopo una diagnosi accidentale di un carcinoma renale metastatico e poche speranze di guarire con le cure tradizionali, parla con il proprio medico che gli prescrive l’iscrizione a un portale di pazienti con patologie oncologiche, frequentato da una folta comunità di pazienti che si scambiano informazioni sulle proprie patologie. Dave stabilisce numerosi contatti con pazienti con patologie simili alla sua e scopre che in un’altra città c’è un centro che recluta pazienti con la sua patologia per uno studio sperimentale con un nuovo farmaco. Dave riesce a entrare nello studio e la sua patologia viene radicalmente ridimensionata e messa sotto controllo. Da allora Dave de Bronkaert ha partecipato ad oltre 500 conferenze per raccontare la sua storia e sollecitare i pazienti ad avere un ruolo attivo nel proprio rapporto con il medico e a reclamare l’accesso ai propri dati clinici.
I portali dedicati ai pazienti hanno guadagnato i titoli di diverse riviste per il loro potenziale. Uno dei prototipi più noti è PatientsLikeMe, una piattaforma online che consente la condivisione di dati clinici tra pazienti con la stessa patologia. Il dettaglio di queste informazioni è molto elevato. Da un lato, i pazienti fanno una valutazione fine del proprio stato di salute (più fine di quella che viene fatta tradizionalmente negli studi clinici), dall’altro questi dati fanno gola ad alcune aziende, soprattutto quando riguardano effetti collaterali osservati dopo la somministrazione di un farmaco. Tant’è, PatientsLike- Me ha un modello di business che prevede la vendita dei dati generati dai pazienti. Molto difficile da digerire per la cultura europea, che peraltro ha eccellenti esempi di comunità online di pazienti. Basti pensare a Rare Connect, una piattaforma pensata per supportare comunità di pazienti con malattie rare. In questo caso la ricaduta interessante è che pazienti che non avrebbero mai incontrato qualcuno con la loro stessa malattia, si ritrovano in contatto fra loro. Non si tratta solo di scambiarsi informazioni per sostenersi psicologicamente. Avete mai sentito le statistiche che riguardano la ricerca di notizie online sulla salute? I pazienti affetti da malattie gravi possono essere veri e propri mastini nella ricerca di informazioni che per varie circostanze non sono note al medico. Dave non avrebbe avuto accesso allo studio che l’ha salvato se il proprio medico non gli avesse suggerito di cercare. I pazienti, specie quelli con malattie gravi, sarebbero capaci di scovare qualsiasi cosa nascosta nei meandri di internet pur di guarire. Il medico non ha abbastanza tempo. Dal punto di vista della partecipazione alle cure è un clamoroso vantaggio.
Personal health record
Una volta li chiamavamo personal health record. Avevamo immaginato che i pazienti, soprattutto quelli cronici che ricevono frequenti prestazioni sanitarie, potessero farsi carico dell’archiviazione delle loro informazioni cliniche, in modo che fossero loro stessi ad autorizzare l’accesso ai propri dati. Su questo avevano scommesso anche i “big”, che avevano rilasciato prodotti online aperti per questo scopo (come Google Health e Microsoft Health Vault), poi ritirati. Ci riprova ora Apple con Healthkit, tutte le informazioni sulla salute del paziente sul telefonino e tutti i sensori dello smartphone a disposizione. Alcune grandi istituzioni come Mayo Clinic (lo leggiamo a pagina 10 nell’intervista a Aaron Leppin) hanno già stabilito una collaborazione formale con i fornitori di questi servizi digitali per fini di ricerca e di assistenza. È ovvio che la ricerca abbia un focus su questo tipo di tecnologie. La accessibilità dei dati e al calcolo complesso non è ancora al passo con una metodologia chiara che ci permetta di usare al meglio questo flusso infinito di dati. È ormai chiaro comunque che i pazienti desiderano fortemente avere accesso ai propri dati clinici. La disponibilità diffusa di prodotti per la cartella clinica elettronica (almeno in USA) ha permesso intanto di attivare alcune iniziative di rilievo. La prima, ormai abbastanza diffusa, è Blue button: un grande tasto blu su una pagina web riservata dell’ospedale, con il quale il paziente può fare il download della propria cartella clinica istantaneamente. Un buon numero di ospedali offre un vero e proprio record elettronico interoperabile, compatibile cioè con altri prodotti simili e quindi veramente portatile. Il diritto del paziente ad avere accesso ai propri dati clinici trova quindi nella tecnologia digitale una facilitazione.
OpenNotes
Ma la vera novità si chiama OpenNotes. Il principio della partecipazione del paziente alle cure viene in questo caso applicato direttamente alla redazione della cartella clinica. Al paziente viene offerta una modalità di accesso alla propria cartella clinica, privata e sicura, e la possibilità di modificare e aggiungere informazioni. Iniziata con il timore che l’accesso dei pazienti alla cartella clinica potesse diventare un boomerang, OpenNotes oggi è al servizio di circa 8 milioni di pazienti americani. Il beneficio della partecipazione attiva è diretto: i pazienti hanno consapevolezza maggiore del proprio percorso di cura, possono aggiungere informazioni rilevanti e correggere gli errori. Paura che questo possa causare un improvviso aumento delle cause legali verso i medici? Circa la metà dei medici che hanno partecipato a OpenNotes ha dichiarato che la fiducia dei propri pazienti è aumentata, più di un terzo dei pazienti ha confermato questa impressione, e circa un quarto di essi ha segnalato una possibile imprecisione nei dati registrati. Meno dell’1% dei pazienti ha dichiarato di aver peggiorato il proprio rapporto con il medico a causa dell’accesso alla propria cartella clinica. Se dobbiamo parlare di fiducia reciproca tra medico e paziente non si può trascurare la condivisione.
“…[OpenNotes] mi dà la possibilità di instaurare un dialogo veramente buono con il mio medico, di essere sicura che siamo sulla stessa lunghezza d’onda…” — Una paziente del Deaconess Medical Center in Boston
Una marea di dati
Vi irrita che Google vi suggerisca in anticipo quando è ora di andare in aeroporto per evitare di perdere il vostro volo? Pensate alla possibilità che le decisioni che riguardano le patologie dei pazienti vengano prese non solo sulle informazioni e sui dati rilevati durante un ricovero ospedaliero, ma anche sui dati rilevati direttamente dal paziente mentre si trova a casa. Oltre che attraverso il cellulare (ormai diventato una potentissima aggregazione di sensori) una quantità di dispositivi commerciali a portata di tutte le tasche ha guadagnato la fiducia di un grande pubblico. Nati con l’obiettivo di monitorare il fitness degli atleti, i sensori commerciali sono ormai estremamente diversificati e capaci di misurare qualsiasi parametro vitale o ambientale. I cardiologi se ne sono accorti rapidamente e hanno più volte curiosato nei dati generati da questi dispositivi fi no a creare strumenti pratici. Immaginate una custodia per il vostro telefonino che sul retro abbia incorporati due elettrodi. Date il dispositivo a un paziente che potrebbe avere una fibrillazione atriale e chiedetegli di trasmettere il tracciato se ha dei sintomi. Basta mettere due dita sugli elettrodi. Costo del dispositivo? 99 dollari (e il dispositivo è approvato da FDA). Ma si può andare oltre. In fondo siamo entrati a tutti gli effetti nell’era della precision medicine. La sensazione tuttavia è che la “precisione” sia affidata soprattutto alle -omics, genomica, proteomica, metabolomica, metagenomica, ecc. Ma non vale la pena ragionare anche sulla “precisione” dei fenotipi? D’altra parte, i più interessanti lavori scientifici degli ultimi anni mettono spesso insieme “exome sequencing” (quindi caratterizzazione del patrimonio genetico) e “deep phenotyping” (ovvero studio approfondito delle componenti del fenotipo). Tuttavia, ancora non ci siamo spinti a considerare tra i fenotipi complessi l’oceano di dati che possono essere generati dai comuni sensori disponibili in commercio. C’è un movimento che si chiama Quantified self che propugna l’uso di sensori multipli per tracciare una serie di parametri personali e descriverli minuziosamente. Ormai le risorse di calcolo sono così abbordabili che non è difficile immaginare di analizzare grandi quantità di dati per generare ipotesi che non possono essere altrimenti intuite per la loro complessità. I partecipanti a questo movimento raccolgono continuamente dati che li riguardano, soprattutto al di fuori degli incontri diretti tra medico e paziente. Infatti, una delle importanti ricadute delle tecnologie digitali è proprio l’abbattimento delle barriere fisiche e temporali della relazione medico-paziente. Tra le possibilità offerte dalla telemedicina, quelle relative alla formazione a distanza del paziente, al telemonitoraggio dei parametri clinici e alla decisione assistita meritano particolare attenzione. Queste funzioni, infatti, puntano direttamente all’autonomia del paziente e alla possibilità che il paziente possa acquisire competenza in operazioni di routine che riguardano soprattutto la gestione di patologie croniche (basti immaginare la manutenzione di un catetere venoso centrale). Come già accennato a proposito dei sensori, l’altra possibilità è quella di garantire che attraverso il telemonitoraggio il paziente fornisca dati funzionali (funzione cardiaca, funzione respiratoria) e che le decisioni terapeutiche vengano prese sulla base di una serie di informazioni molto più estese. Infine, i percorsi diagnostico-terapeutici possono essere direttamente suggeriti al paziente sulla base di tutte queste informazioni perché prenda in autonomia le decisioni più opportune. È un’opportunità grande: pensate al paziente con asma bronchiale che, consultando una semplice app e fornendo informazioni sulla sintomatologia e i dati di una spirometria fatta a casa, viene guidato sulle scelte terapeutiche in caso di crisi sulla base della linea guida più recente.
Morale della favola
La tecnologia aiuta eccome. Senza di essa probabilmente saremmo rimasti ancora a discutere la teoria di come favorire la partecipazione attiva del paziente alle cure. Siamo di fronte invece a uno scenario in cui la partecipazione ci viene richiesta direttamente dal paziente. Dopo 20 anni di discussioni su come applicare concretamente i principi della medicina basata sulle evidenze abbiamo una clamorosa opportunità, e cioè che siano proprio i pazienti ad aiutarci a favorire la sua applicazione. Per alcune tecnologie digitali si tratta di risorse che migliorano semplicemente l’accesso ad alcuni servizi. Per esempio, le opportunità offerte dalla telemedicina non dovrebbero essere condizionate dalla disponibilità di evidenze, ma supportate da altri tipi di studio più affini alle scienze ingegneristiche. Per altre tecnologie abbiamo bisogno di rispondere a domande aperte: come possiamo analizzare accuratamente i trend così ricchi di informazioni di alcuni parametri clinici? I sensori che abbiamo a disposizione forniscono informazioni accurate e riproducibili? Così tante informazioni sono davvero utili a migliorare gli outcome clinici? Sicuramente questi quesiti aprono un filone per la ricerca scientifica interessantissimo e di grande valore. Per contro esiste ancora qualche problema culturale, in particolare tra i medici. Il timore che una maggiore partecipazione dei pazienti alla generazione e alla gestione dei dati clinici aumenti la probabilità di incorrere in sanzioni legali è presente. Dovremo semplicemente superarlo con coraggio. Probabilmente non si tratta più di una opzione ma di un obbligo.
Li vogliamo piccoli ma onnipotenti
Quanti sensori ci saranno mai in uno smartphone? Innanzi tutto quelli legati al movimento: l’accelerometro e il giroscopio, per esempio. Poi quelli utili alla localizzazione, come il magnetometro o i sensori di prossimità. Ancora, i sensori ambientali che misurano temperatura, pressione atmosferica o la luce. In sé, il numero dei sensori può dirci poco: quello che conta sono le apps che li sfruttano per darci informazioni o per farci – più o meno – divertire. Quasi tutti questi sensori lavorano senza che ce ne accorgiamo. Talvolta, anche senza che li abbiamo esplicitamente autorizzati, ma qui il discorso diventa difficile: a quanta della nostra riservatezza siamo disposti a rinunciare con la prospettiva di essere più consapevoli e informati?
Bibliografia
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