Per chi oggi osserva la malattia da hiv nella parte ricca del mondo, è difficile immaginare quale sia stato alle origini l’impatto dell’epidemia in paesi come gli Stati Uniti. Proviamo a ricordarlo brevemente. Siamo all’inizio degli anni ’80 del XX secolo quando una generazione, vissuta in un periodo di grande crescita economica e che ha visto un’espansione senza precedenti delle libertà individuali nonché uno sviluppo rapido dell’efficacia degli interventi medici, si trova improvvisamente a doversi confrontare con la diffusione di una malattia contagiosa e fortemente legata ai comportamenti individuali. Una malattia che appare inevitabilmente letale e che nel giro di pochissimi anni non solo sarebbe riuscita ad invertire una tendenza di diminuzione della mortalità che durava da tempo, ma che addirittura sarebbe presto diventata la prima causa di morte per i giovani adulti, in particolare tra i maschi [1]. Insomma, quella generazione si trova ad affrontare qualcosa che le appare del tutto inaccettabile.
A dimostrazione del fatto che non si intende stare passivamente a guardarsi morire, nel 1983 nel corso della Fifth lesbian and gay health conference viene elaborato un documento in cui si afferma tra l’altro: “Condanniamo il tentativo di etichettarci come ‘vittime’, termine che indica sconfitta, e siamo solo occasionalmente dei ‘pazienti’, termine che indica passività e dipendenza da altri, noi siamo ‘persone con aids’”. E questo documento, noto come The Denver Principles è considerato una sorta di atto di nascita dell’attivismo sulla malattia da hiv [2]. Da una parte questo attivismo si concentrò sulle attività di auto-aiuto (i buddy programs), e di informazione, anche con la creazione di hot-lines come nel caso dell’organizzazione Gay men’s health crisis. In altri casi prese la forma di piccoli gruppi autorganizzati che avevano come finalità primaria quella di procurare agli aderenti farmaci che si riteneva potessero essere attivi contro hiv, o potenziare il sistema immunitario; sia farmaci in corso di sperimentazione clinica sia farmaci alternativi (come estratti di corteccia di alberi, o paste ottenute da funghi esotici). Si trattava dei cosiddetti buyers’ club, divenuti recentemente noti anche al grande pubblico grazie ad un film apparso nel 2013, “Dallas Buyers’ club”. In altri casi ancora, l’attivismo prese la forma di un vero e proprio movimento politico [3]. È il caso ad esempio di Act Up (The aids coalition to unleash power) fondata nel 1987 a New York City che sviluppa un programma di azione politica diretta contro la discriminazione, l’inerzia delle istituzioni (resta famoso lo slogan silence=death), la carenza di fondi per la ricerca, la lentezza dei programmi di sperimentazione clinica, le politiche commerciali delle aziende farmaceutiche. Il debutto di Act Up si concretizza in una clamorosa manifestazione a Wall Street contro la Food and drug administration (Fda) accusata di avere tempi troppo lunghi per l’approvazione dei farmaci, che portò all’arresto di 17 attivisti ma anche ad una revisione delle politiche dell’agenzia americana [4]. Ed in larga parte gli stili e le basi organizzative di questi movimenti si basavano su quanto negli anni immediatamente precedenti aveva costruito il Gay liberation movement.
The Denver Principles (1983)
Statement from the People with AIDS advisory committee
We condemn attempts to label us as “victims,” a term which implies defeat, and we are only occasionally “patients,” a term which implies passivity, helplessness, and dependence upon the care of others. We are “People With AIDS.”
All’interno di questi movimenti si sviluppa infine una componente che si propone di entrare direttamente nei meccanismi istituzionali del processo di ricerca di terapie efficaci per l’infezione da hiv, un attivismo per la terapia (treatment activism) portato avanti da gruppi come il Treatment and Data Committe of Act Up/New York, dal quale poi nasce il Treatment action group, o il Treatment issue committe of Act Up Golden gate. E si iniziano a produrre pubblicazioni gestite dagli attivisti come AIDS treatment news o Treatment issue. La richiesta principale è quella di partecipare alle scelte. Nel 1986 John James, editor di AIDS Treament News scrive: “Le industrie che vogliono i loro profitti, i burocrati che vogliono difendere il loro territorio, i dottori che non vogliono che si creino problemi, si sono tutti seduti al tavolo. Anche le persone con aids che vogliono la loro vita devono essere là” [5].
Il percorso per sedere al tavolo
Ma come affermare il diritto delle persone con aids a sedere a quel tavolo? Da un lato questo diritto viene promosso con azioni clamorose di contestazione che non risparmiano nessuna componente del mondo della ricerca, dall’altra si cerca di dare credibilità degli attivisti con una specifica esperienza e formazione (lay expert) per essere parte attiva nella costruzione del sapere biomedico. Steven Epstein, che ora insegna Sociologia alla Northwestern University di Chicago, in un saggio del 1995 ha individuato quattro componenti nella costruzione della credibilità degli attivisti [5]. Il primo aspetto è l’impadronirsi del linguaggio ed il comprendere la cultura della biomedicina. Gli attivisti si rendono conto che, se da una parte è necessario comunicare con un linguaggio non scientifico con le persone con hiv, dall’altro devono imparare a parlare la lingua delle riviste mediche e dei congressi scientifici se vogliono realmente partecipare ai processi di ricerca. E questo è anche un modo di rompere la sudditanza culturale che ispiravano i termini utilizzati dai ricercatori. “E così entrai e mi sentii completamente sopraffatto – ricorda Mark Harrington di ACT UP parlando di un meeting sulla terapia. Voglio dire volavano gli acronimi. E pensai, oh questi parlano turco, non li capirò mai” [5].
Un secondo modo di affermare la propria credibilità è stato quello di mostrare una rappresentatività che si basava sulla capacità di mobilizzazione politica e sulla capacità di coinvolgere attivamente nelle sperimentazioni cliniche le persone con hiv. Un terzo nodo stava nella capacità di unire aspetti metodologici della ricerca con aspetti più propriamente etici. Un esempio in questo campo è la battaglia per mettere in piedi sperimentazioni cliniche che non escludessero persone tossicodipendenti o donne in età fertile. Una battaglia che venne intrapresa e che ancora dura per un principio di equità nella possibilità di accesso a nuovi trattamenti, ma anche nel rispetto di un principio di validità scientifica di una sperimentazione secondo il quale la popolazione studiata nelle sperimentazioni dovrebbe rappresentare, quanto più possibile, la popolazione delle persone cui il trattamento, se dimostrato efficace, verrà somministrato. Ed infine gli attivisti intervenivano direttamente su temi già presenti nel dibattito scientifico sulle sperimentazioni cliniche. Negli anni ’80 alcuni studiosi come Dianne Feinstein e Tim Peto avevano sostenuto la necessità di condurre trial clinici “pragmatici”, cioè studi di grandi dimensioni con misurazioni semplificate ed essenzialmente cliniche e criteri di inclusione molto allargati che mirassero sostanzialmente a valutare l’efficacia pratica di strategie terapeutiche. Molti ricercatori però favorivano la realizzazione di trial più complessi “esplicativi” (o fastidious) condotti su gruppi di pazienti omogenei e molto selezionati, con numerosi test di laboratorio ed in grado di fornire informazioni anche sui possibili meccanismi d’azione dei farmaci. Anche qui gli attivisti prendono posizione: per loro i trial esplicativi servivano più ad affrontare quesiti di rilevanza accademica che a dare risposte ai pressanti bisogni clinici delle persone con aids.
“Figure chiave del mondo della ricerca come Anthony Fauci, direttore del National institute for allergy and infectious diseases statunitense, cominciarono a promuovere un atteggiamento pragmatico volto a cogliere i migliori contributi provenienti dal mondo dell’attivismo, pur mantenendo una chiarezza sulla differenza dei rispettivi ruoli.”
Il percorso che ha portato i lay expert al tavolo della ricerca non è stato per nulla lineare. Le resistenze nel mondo biomedico sono state forti, alimentate anche da atteggiamenti aggressivi nei confronti dei ricercatori che avevano indotto addirittura le autorità federali americane a fornire guardie del corpo ad alcuni ricercatori durante la partecipazione alla Conferenza sull’aids del 1990 a San Francisco [6]. E, comunque, come ha sostenuto l’attivista Martin Delaney, erano convinzioni diffuse tra i ricercatori che: i pazienti andassero difesi dalla loro stessa disperazione; i farmaci sperimentali potessero portare più danni che benefici; se si fosse consentito un accesso allargato ai farmaci sperimentali, questo avrebbe reso impossibile condurre sperimentazioni cliniche controllate. D’altra parte molti attivisti erano convinti che fosse necessario mantenere una certa “purezza” ed una contrapposizione dura all’industria farmaceutica ed all’establishment medico scientifico. Ma si venne anche rapidamente diffondendo tra settori importanti dell’attivismo la coscienza che, parallelamente al mantenere un alto livello di pressione e mobilitazione, fosse necessario accettare i principi di fondo del metodo scientifico nella valutazione dei farmaci e che una soluzione terapeutica poteva venire solo dall’impegno del mondo scientifico “ufficiale”. D’altra parte, figure chiave del mondo della ricerca come Anthony Fauci, Direttore del National institute for allergy and infectious diseases statunitense, cominciarono a promuovere un atteggiamento pragmatico volto a cogliere i migliori contributi provenienti dal mondo dell’attivismo, pur mantenendo una chiarezza sulla differenza dei rispettivi ruoli. Tutto questo ha portato a importanti iniziative come la costituzione nell’ambito dell’aids Clinical trial group (una struttura per le sperimentazioni cliniche creata dai National institutes of health statunitensi) di un Community constituency group che includeva attivisti esperti e la formazione di Community advisory board nei siti di sperimentazione [4].
Le innovazioni nel metodo
Nell’ultimo decennio del XX secolo, la partecipazione degli attivisti al processo di sperimentazione ha portato ad un serie di innovazioni di metodo che sono rimaste un patrimonio generale delle sperimentazioni terapeutiche [4]. Ad esempio, la Fda per la prima volta dopo il 1997 ha accettato l’uso di marcatori surrogati, in particolare la viremia hiv, negli studi registrativi di un farmaco per una malattia infettiva. Questa decisione fece seguito alle dure critiche piovute sullo studio Actc 320 che aveva dimostrato la grande efficacia della terapia antiretrovirale di combinazione che includeva inibitore delle proteasi [7]. Questo studio aveva come esiti principali lo sviluppo di aids o la morte dei pazienti, ma gli attivisti avevano sostenuto che fosse inaccettabile continuare lo studio sino a raggiungere una differenza significativa negli eventi clinici, quando i dati che si accumulavano mostravano come la nuova terapia avesse una grandissima efficacia nel bloccare la replicazione virale [8].
Un altro risultato dell’attivismo fu quello di ottenere la creazione di programmi di accesso allargato che consentissero a pazienti gravi, senza alternative terapeutiche e che non potevano essere arruolati in un trial, di accedere a farmaci promettenti ed in fase avanzata di sperimentazione clinica. Fino ad allora infatti l’accesso a questi farmaci era possibile solo con una autorizzazione concessa dalla Fda su base individuale.
Sotto la spinta degli attivisti, la Fda inoltre accettò di creare un canale accelerato di sperimentazione e registrazione dei nuovi farmaci (fast track) che a partire dal 1998 ha consentito di mettere a disposizione dei pazienti in tempi brevi prima farmaci antiretrovirali ed in seguito farmaci per malattie neoplastiche, ematologiche e per altre malattie infettive. Infine gli stessi Nih hanno promosso la creazione di un gruppo di progetto definito Community program for clinical research on aids che sviluppasse programmi di ricerca pragmatici da condurre anche al di fuori dei centri clinici accademici.
L’attivismo per la terapia si è esteso rapidamente anche in altri paesi industrializzati. In Europa nel 1992 fu fondato lo European aids treatment group che cinque anni dopo creava lo European community advisory board, una struttura dedicata ad interagire con l’industria per discutere disegno ed obiettivi delle sperimentazioni cliniche. Il contributo dell’associazionismo europeo è stato particolarmente significativo da quando è stata fondata la European medicines agency. È grazie alle pressioni degli attivisti che anche in Europa si è potuto procedere con un accesso precoce alle terapie di combinazione nella seconda metà degli anni ’90, mentre nel primo decennio del 2000 la comunità delle persone con hiv ha contribuito a rendere centrale nella gestione del trattamento la considerazione degli effetti collaterali dei farmaci antiretrovirali, primo fra tutti la lipodistrofia.
All’inizio del XXI secolo, mentre la situazione nella parte ricca del mondo iniziava ad apparire meno drammatica grazie alla disponibilità di terapie sempre più efficaci, gli attivisti del trattamento aprivano un nuovo fronte. Alla conferenza internazionale sull’aids di Durban nel 2000 Act Up e la Health global access coalition lanciano una campagna per l’accesso ai farmaci antiretrovirali, troppo costosi perché vi potessero accedere milioni di malati dei paesi poveri del mondo. Questa campagna, che allora appariva destinata al fallimento, ha in realtà innescato un processo che in poco più di un decennio ha portato da zero ad oltre 10 milioni il numero di pazienti in trattamento antiretrovirale nei paesi poveri del mondo.
Più di recente l’attivismo sull’hiv ha mostrato la sua capacità di cambiare seguendo l’evoluzione della malattia, ad esempio promuovendo studi su esiti clinici a lungo termine della terapia o la realizzazione di studi clinici ‘esplicativi’ per identificare strategie di eradicazione dell’infezione [9], o infine collaborando attivamente al disegno ed alla realizzazione di studi sulle strategie di prevenzione [10].
“Questa – sostiene Stephen Epstein – è una storia nella quale nessuna parte ha tutte le risposte. Tutti i protagonisti hanno dovuto modificare le loro rivendicazioni e cambiare le loro posizioni”. Ma è anche e soprattutto, aggiungiamo noi, una storia che ha segnato un punto di svolta nel coinvolgimento delle comunità nella ricerca biomedica.
Bibliografia
[1] Buehler JW, Devine OJ, Berkelman RL, Chevarley FM. Impact of the human immunodeficiency virus epidemic on mortality trends in young men, United States. Am J Public Health 1990;80:1080-6.
[2] Smith RA. Drugs Into Bodies! A History of AIDS Treatment Activism. Body Positive, Issue 2, 2006.
[3] Howard Lune. Urban Action Networks: HIV/AIDS and Community Organizing in New York City. New York: Rowman & Littlefi eld Publishers; 2006.
[4] Killen JY jr. HIV research. In : Emanuel EJ, Grady EC, Crouch RA et al. (eds). The Oxford Textbook of Clinical Research Ethic Oxford University Press 2008.
[5] Boff C. History of AIDS Activism, 2006.
[6] Epstein S. The Construction of Lay Expertise: AIDS Activism and the Forging of Credibility in the Reform of Clinical Trials. Science, Technology, & Human Values 1995;20:408-37.
[7] Hammer SM, Squires KE, Hughes, MD, et al. A controlled trial of two nucleoside analogues plus indinavir in persons with Human Immunodefi cency Virus Infection and CD4 cell count of 200 per cubic millimeter or less. N Engl J Med 1997;337:725-33.
[8] Levin J. ACTG 320, the controversial clinical endpoint study of Crixivan, has been stopped due to convincing data demonstrating clinical superiority. NATAP 1996.
[9] Lo YR, Chu C, Ananworanich J, Excler JL,Tucker JD. Stakeholder engagement in HIV cure research: lessons learned from other HIV interventions and the way forward. AIDS Pat Care STDs 2015; 29: 389-99.
[10] Newman PA, Rubincam C, Slack C, et al. Towards a science of community stakeholder engagement in biomedical HIV prevention trials: an embedded four-country case study. PLoS ONE 2015, 10:e0135937.