Antonella è la mamma di Cristian, sette anni. Ha confrontato la propria esperienza con quella di altri genitori, lavorando insieme alla preparazione di una guida alle tappe fondamentali della crescita del bambino. Un progetto avviato dall’Istituto Mario Negri, momento di un percorso che continua a crescere con l’obiettivo di trovare una sintesi tra le evidenze della ricerca e i vissuti delle persone. Antonella ha anche contribuito ad un’altra esperienza, quella dello studio ENBe, finanziato dalla Agenzia italiana del farmaco nell’ambito dei programmi di supporto alla ricerca indipendente. L’acronimo sta per “Efficacia del beclometasone versus placebo nella profilassi del wheezing virale in età prescolare”. Detto così può sembrare una roba strana ma chiunque abbia un figlio sa come questo principio attivo anti-asmatico sia troppe volte prescritto per il raffreddore, la tosse o il mal di gola, così che i bambini italiani hanno una probabilità tre volte superiore di assumere il medicinale rispetto ai loro coetanei di altre nazioni.
Quella di Antonella è una storia di empowerment e di engagement. Due termini inglesi, a sottolineare un’esigenza – o una “pressione” – che supera i confini nazionali. Riguarda paesi e contesti che da tempi diversi e con percorsi altrettanto differenti provano a rispondere alla stessa sollecitazione.
Con riferimento al malato, la parola empowerment è spesso resa con il termine esperto. Posto che alla expertise del paziente non può concorrere la sola esperienza di malattia, assume un’importanza centrale l’informazione in grado di dare forza al paziente per accrescere la sua consapevolezza. Il paziente empowered è dunque il più “informato”? Difficile pensarlo. I criteri di giudizio della qualità dell’informazione scientifica sono infatti messi in discussione da tempo: dagli indici bibliometrici classici (su tutti, l’impact factor) a quelli di introduzione più recente (dall’H-index a Altmetrics); dai filtri a monte della pubblicazione (tutte le diverse forme di peer review) a quelli di valutazione delle risorse online (basti pensare all’HON Code, teoricamente adottato anche da siti clamorosamente pubblicitari). Il risultato è che non possiamo contare su una modalità condivisa per giudicare l’affidabilità dell’informazione. Anche per questa mancanza di strumenti il paziente esperto non può essere quello che fruisce passivamente di informazione di dubbio valore, ma chi contribuisce a determinare la conoscenza attraverso un ruolo attivo di dialogo e di confronto più ampio possibile.
Potremmo così dire che non si dà un paziente esperto “isolato”. La condizione è essere connessi a un gruppo o a una comunità di pazienti ugualmente aperti e consapevoli, disponibili a mettere a frutto i propri saperi a vantaggio di una collettività che riconosce il valore delle esperienze individuali e che dà fiducia alla singola competenza arricchendola con quella del gruppo. Anche in questo caso, la “stanza dei pazienti” è più intelligente della somma delle capacità individuali.[1] È nella combinazione delle storie, nella ricostruzione dei tanti diversi pezzi di malattia, guarigione o dolore che si determina un’esperienza plurale, in continua evoluzione.[2]
“Quando la conoscenza entra a far parte di una rete, la persona più intelligente della stanza è la stanza stessa: la rete che unisce persone e idee presenti e le collega con quelle all’esterno.” — David Weinberger
Considerata la molteplicità delle voci, può dunque sorgere un problema legato alla rappresentanza. Il ruolo sempre più visibile delle associazioni di pazienti le rende ormai un interlocutore ricercato e talvolta privilegiato della politica e dell’industria. Un ruolo delicato, perché un’associazione di malati o di loro familiari fonda la propria credibilità nella capacità di conservare indipendenza e trasparenza delle scelte e delle decisioni: una condizione quasi universalmente disattesa. Allo stesso modo, c’è un problema di tempestività del coinvolgimento perché è ancora troppo raro che la partecipazione sia prevista nella costruzione di conoscenze. Potremmo dire che la voce in capitolo che ha il cittadino nelle diverse fasi della ricerca è inversamente proporzionale all’importanza del contributo che potrebbe dare (figura 1). “Tirato per la giacchetta” da molti stakeholder nelle fasi approvative e regolatorie, il punto di vista del cittadino è infatti quasi del tutto trascurato quando si tratta di determinare le priorità della ricerca[3]. Si sottolinea come gli esiti riportati dal paziente siano essenziali per la misurazione dell’efficacia, della tollerabilità o della sicurezza di un intervento sanitario, ma la premessa è che il cittadino sia coinvolto nella determinazione di questi stessi outcome. Perché ciò avvenga la ricerca indipendente dovrebbe tornare a essere importante per il servizio sanitario nazionale, mettendo al centro le aspettative dei pazienti e delle famiglie, anteponendole dunque sia agli interessi dell’industria, sia a quelli della medicina accademica.
“Usiamo storie per dare senso al nostro mondo e per condividere questa comprensione con altri.” — Frank Rose
In apertura, dicevamo di ENBe. Alla sperimentazione ha partecipato anche Patrizia, lei nella veste di pediatra, coinvolta anche nella disseminazione dialogante di evidenze attraverso il progetto Lo sai mamma?, ENBe e le altre esperienze in certa misura collegate sono rappresentative di una cultura della ricerca che non si limita alla stesura di mappe – troppe volte inutilizzabili – per cercare di descrivere il territorio rappresentato dal malato [4]. Prove di risposta alla sfida che vivono oggi i sistemi sanitari, sostenibili solo se in presenza di un’autentica centralità del cittadino, sostenuta da un coinvolgimento di tutti gli altri protagonisti utile a costruire una molteplicità di competenze capaci di integrarsi e di arricchirsi vicendevolmente: “Il problema di oggi – hanno scritto Gerd Gigerenzer e Sir Muir Gray – riguarda meno il paziente che il sistema sanitario che abbiamo ereditato. Il paziente è solo l’ultimo anello di una catena che determina e alimenta una diffusa health illiteracy”.
Bibliografia
[1] Weinberger D. La stanza intelligente. La conoscenza come proprietà della rete. Torino: Codice edizioni, 2012.
[2] Rose F. Immersi nelle storie. Torino: Codice edizioni, 2013.
[3] Liberati A. Need to realign patient-oriented and commercial and academic research. Lancet 2011;25:1777-8.
[4] Verghese A. Culture shock—patient as icon, icon as patient. N Engl J Med 2008;359:2748-51.
[5] Gigerenzer G, Gray JM. Better doctors, better patients, better decisions: Envisioning health care 2020. Cambridge (MA): Mit Press, 2011.