Confini, conflitti, contaminazioni: come interpretare queste parole nel mondo di oggi?
Le parole “confini”, “conflitti” e “contaminazioni” sono termini profondamente ambigui, nel senso che possono significare tutto e il contrario di tutto. A partire dagli anni Novanta ci si è abituati a pensare che queste parole avessero perso la loro importanza, perché si è introdotta e imposta progressivamente come termine onnicomprensivo la parola “globalizzazione”, che si autoproclamava arbitrariamente, nel linguaggio e nella pratica, come definizione ufficiale di una realtà di fatto indefinibile. Valida sia per le persone sia per le merci: per le persone mirava esplicitamente, senza strepito, per non destare resistenze, a sostituirsi alla logica dell’universalità dei diritti umani della Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1948; per le merci e i mercati coincideva di fatto con la dichiarazione di un nuovo ordine, confini e frontiere dovevano ridefinirsi in modo da essere funzionali alla libera circolazione di ciò che si doveva vendere-comprare in un mondo nuovo, che aveva bisogno di una qualifica che ne dichiarasse l’autonomia, l’immunità, l’impunibilità rispetto al diritto universale delle persone e dei popoli. La logica e il linguaggio della globalizzazione impongono un nuovo vocabolario: i conflitti possono e debbono essere qualificati e normati come “concorrenza”; gli unici confini che contano sono quelli dei contratti proprietari, privati e pubblici, della sempre più importante “proprietà intellettuale” o della vecchia ma sempre più invadente “estrazione di valore” in una realtà che mira a rinnovare il tempo delle colonie; la creatività delle contaminazioni che avevano scritto la storia della civiltà umana viene degradata a essere folklore da riconoscere nella misura in cui arricchisce e favorisce gli scambi. La globalizzazione nasce per un artificio definitorio dall’alto: dichiara pericolose le parole che mantengono la visibilità alle tante diversità che evocano, quasi confuse con la minaccia di terrorismi, il diritto delle minoranze, i progetti in cui il diritto deve rispondere a scelte responsabili degli umani di un dato territorio, e non può obbedire a regole emanate dai poteri di turno. La globalizzazione ha bisogno di inventare muri di qualsiasi tipo, e confini che siano espressione e garanzia di separazioni inviolabili di interessi. Bauman parlava della liquidità come indicatore della novità del mondo e della sua civiltà, ma mai come oggi i muri di qualsiasi tipo (economici, fisici) sono diventati la regola che nessuno può infrangere. Le tre parole da cui si è partiti definiscono dunque un vivere in tempi di profonda transizione, necessariamente confusa, in cui esplicitamente alcune delle categorie che erano state considerate acquisite sono messe in discussione. Su tutte il diritto: nei suoi confini di competenza, e ancor più di direttività condivisa tra le parti in causa.
La globalizzazione ha bisogno di inventare muri di qualsiasi tipo, e confini che siano espressione e garanzia di separazioni inviolabili di interessi.
La parola “confini” può avere dunque accezioni positive o negative. Per esempio, l’identità di un popolo si fonda anche sui confini: io sono italiano perché vivo all’interno dei confini italiani. In questo senso annullare i confini è davvero una soluzione?
La cancellazione della definizione rigida di confini come segnali di separazione e di comunicazione controllata in termini di cittadinanza era stata una delle caratteristiche più importanti dell’Unione europea. Nei primi anni Novanta i trattati di Schengen – con tutti i limiti che avevano – in un certo senso eliminavano i passaporti e quindi i confini. In antagonismo a quello che accadeva in molte parti del mondo dove negli stessi anni si rafforzava la necessità del passaporto per le persone ma si introduceva, quanto sopra si è ricordato, il “non confine” per le merci. In Europa ci si era evoluti da Unione economica a Unione europea degli Stati e dei rapporti dei loro popoli: l’Europa rappresentava ancora una frontiera aperta nella interpretazione del diritto. La storia-memoria dei confini tragici della seconda guerra mondiale, e della guerra fredda, erano venuti meno. Oggi la nostra civiltà interpreta i confini da un lato come libera circolazione, dall’altro come giustificazione dell’espulsione. La parola “senza confini” è la parola dei diritti umani, sarebbe molto importante se la dignità delle persone prevalesse su tutte le altre interpretazioni. È la grande sfida, in fondo, che pongono ogni giorno i migranti. Perché mai il diritto deve discutere se questi sono umani. I migranti sono i soli per i quali l’omicidio non è considerato un delitto. E in una storia dell’Europa – e degli altri Stati democratici – dove si discutono all’infinito e senza nessun piano di pace perfino le guerre guerreggiate (non solo quella ucraina) con bilanci impensabili in termini di armi di ogni tipo, non si riesce né si vuole neppure mettere all’ordine del giorno la priorità di un vero e proprio popolo, quello dei migranti, che è di fatto l’espressione più autentica e di futuro di quella che dovrebbe essere una civiltà della inclusione e della sostenibilità umana: i migranti sono di fatto il popolo senza confini né frontiere di razza, di colore, di cultura, di religione di cui è fatto il mondo globale. La non soluzione – e peggio la negazione formale del popolo dei migranti come misura di civiltà e la sua repressione come crimine impunito contro l’umanità – di questo nodo di confini, frontiere, contaminazioni coincide con una scelta, senza se e senza ma, di inciviltà e non-democrazia.
Sono tanti i confini e ognuno dovrebbe essere inteso come un orizzonte: il bello è andare a scoprirne la diversità e la diversificazione.
I confini da un lato possono essere zone di conflitto, dall’altro zone positive di contaminazione tra popoli. Anche in questo caso, dunque, una doppia accezione della parola confine…
La diversità è uno dei grandi motivi di ricchezza e per anni è stata la protagonista delle generazioni che diventavano adulte nel periodo della prima globalizzazione. È molto bello scoprire la diversità e poter scegliere tra tante cose. Il problema è che tutto questo oggi viene messo sotto il giudizio di una logica economica che ha come suo dogma intoccabile un termine che è parte integrante della cultura attuale dei confini: sostenibilità. Si può fare ciò che si può pagare. Cosa saggia, se letta in un contesto di diritti universali. Ma se il contesto è quello della diseguaglianza crescente, trasversale e invasiva, fino a fare della povertà assoluta una parte importante del vivere, la contaminazione non è creazione di innovazione ma condivisione di strategie di sopravvivenza, restrizione di spazi di libertà. Solo la classifica di “umano” è senza confini e ha bisogno di contaminazioni: fa delle frontiere l’opportunità di scoprire la positività di conflitti favorevolmente orientati a includere ciò che ancora è escluso. Sono tanti i confini e ognuno dovrebbe essere inteso come un orizzonte: il bello è andare a scoprirne la diversità e la diversificazione.
Come si applica tutto ciò alla sanità, in Italia ma non solo?
È forse difficile oggi avere memoria, ma la sanità è nata, nella Dichiarazione universale e nella nostra Costituzione, come uno degli indicatori più immediati della democrazia sostanziale, di un universalismo vissuto non come dichiarazione soddisfatta di principi, ma come ricerca e sperimentazione permanente. Se si perde questa memoria, qualsiasi speranza di una sanità a misura umana è pura chiacchiera. I Lea o Lep condividono tutte le ambiguità delle parole che si sono discusse fin qui. Segnano confini e frontiere. Se le persone reali, portatrici di bisogni e fragilità inevase, sono considerate nei fatti come il popolo dei migranti di cui si è parlato prima, esse subiranno la stessa sorte dei migranti. Le statistiche sanitarie dovrebbero divenire strumenti di trasparenza, comunicazione, guida nella scelta e nella cura concreta delle priorità. Fare della epidemiologia delle malattie solo o principalmente uno strumento per misurare costi, ritardi, carenze e non uno strumento di visibilità tempestiva e permanente dei destini delle popolazioni equivale ad alzare muri; così come non garantire continuità vera tra i vari livelli assistenziali ospedalieri e comunitari, tra privato e pubblico, corrisponde a fare del sistema sanitario un insieme di frontiere che escludono; e la separazione tra aspetti strettamente sanitari e sociali significa riprodurre il non riconoscimento della contaminazione di saperi, di punti di vista, di complementarietà culturali come generatrice di saperi originali e di interventi creativi e personalizzati.
La separazione tra aspetti strettamente sanitari e sociali significa riprodurre il non riconoscimento della contaminazione di saperi.
Il confine, come tutti i limiti, può rappresentare un ostacolo o una protezione. Possono, ad esempio, riserve naturali essere luoghi chiusi che preservano popolazioni-culture che vi sono nate? Ci sono nel mondo esempi di confini che sono una protezione?
La domanda apre uno dei capitoli più delicati, controversi, dolorosi del mondo dei diritti. Sulla carta l’esistenza e la dignità dei “popoli originari” si possono considerare ben definite e acquisibili. Ci sono realtà importanti di miglioramento della situazione, soprattutto a livello delle grandi realtà del Pacifico come Australia e Nuova Zelanda, e, in modo spesso controverso, in Canada. La situazione è molto più precaria in altre aree come l’Amazzonia, soprattutto, ma non solo quella brasiliana, la Bolivia, il Perù, la popolazione Mapuche in Cile, per non dimenticare l’Africa, o altre popolazioni asiatiche. D’altra parte è noto che tutt’oggi il diritto che protegge l’ambiente è ancora molto separato da quello che regola i rapporti economici tra i poteri multinazionali e gli Stati dove vivono questi popoli. L’attuale crescita di una logica di sfruttamento delle risorse delle terre non ancora gentrificate che riproduce quella coloniale non costituisce certo un indicatore ottimistico per il futuro. È certo che l’applicazione rigida di norme che evocano la logica della riserva non è un quadro di riferimento che permetta di guardare al futuro con molto ottimismo. Dunque, le prossime generazioni hanno di fronte a sé il problema di guardare avanti, perché non si possono riprodurre le stesse definizioni che sono state utilizzate fino adesso. Tutto è cambiato. C’è stato un tempo in cui il confine veniva interpretato come opportunità, perfino la nostra migrazione era stata interpretata in questo senso, ma poi si è tornati indietro in maniera drammatica. Per interpretare il futuro devi sapere quello che c’è dietro, ma devi sapere che il problema vero è quello di sperimentare il futuro. Sarà permesso – in un mondo che sembra aver tanta fiducia nella digitalizzazione e negli algoritmi predittivi – avere nostalgia concreta di un mondo in cui la misura di ciò che è legittimo è l’accessibilità universale al diritto della cura?
A cura di Rebecca De Fiore