Finanziare. Progettare. Costruire. Operare. Erogare. Mantenere.
Non mancano i terreni su cui immaginare una collaborazione tra le istituzioni e le imprese. Tra pubblico e privato. I sistemi sanitari saranno sempre di più sollecitati a migliorare qualità ed efficienza delle strategie di prevenzione, tutela della salute e assistenza. Inoltre, c’è la grande sfida della raccolta dati, del proteggerli e utilizzarli. Ancora, i sistemi sanitari dovranno aprirsi a un’integrazione con la componente sociale, rispondendo alle esigenze di assistenza lungo tutto l’arco della vita e utilizzando la tecnologia per migliorare l’erogazione delle prestazioni. La collaborazione è indispensabile. Da sette anni Forward è un esempio di come si possa stabilire uno spazio di confronto attivo, potenzialmente costruttivo, in cui le diverse parti siano disponibili a dialogare in modo aperto, dimenticando talvolta l’abito al quale sono più legate.
Perché pubblico e privato dovrebbero collaborare e quali sono le opportunità di contaminazione?
Marina Davoli. Per prima cosa dobbiamo chiarire di quale privato parliamo. Innanzitutto c’è il privato nella gestione dei servizi sanitari che si divide in privato accreditato, che è di fatto una gestione privata di un servizio pubblico, e il privato out of pocket, che sappiamo essere in crescita anche a causa delle assicurazioni fornite dalle aziende ai dipendenti come benefit e per la possibilità di detrazione. Poi c’è la parte dell’industria del farmaco e dei dispositivi, che è un interlocutore sia del gestore pubblico sia del gestore privato. Comunque il pubblico e il privato dovrebbero collaborare, anche solo perché sono tutti attori di uno stesso sistema. A volte, però, non si riescono a identificare bene i confini: pensiamo, ad esempio, all’intramoenia per cui un medico dipendente del servizio pubblico può lavorare in un regime privato nella stessa struttura pubblica o anche in una struttura privata. O, ancora, pensiamo ai trial finanziati dall’industria che però utilizzano le risorse del pubblico sia in termini di personale che di struttura. Quindi è determinante stabilire delle regole per la collaborazione affinché questa sia fruttuosa e porti un vantaggio a tutto il sistema.
È determinante stabilire delle regole per la collaborazione affinché questa sia fruttuosa e porti un vantaggio a tutto il sistema. — Marina Davoli
Walter Ricciardi. Siamo nel mezzo di una tempesta perfetta: quello che sta succedendo è dettato da un lato dalle onde della domanda, ovvero un invecchiamento della popolazione e di conseguenza un aumento di malattie croniche, dall’altro dalle onde dell’offerta, ovvero una grande innovazione tecnologica e una differenziazione professionale con scarsità di professionisti. Tutto questo, se non gestito dal pubblico, determina un aumento delle disuguaglianze. Il pubblico dovrebbe attivarsi per evitarle scegliendo uno dei due modelli che oggi predominano: il servizio sanitario nazionale universalistico e il modello bismarckiano presente ormai nella maggior parte dei Paesi europei. E questo ruolo lo deve esercitare con competenza, professionalità, rigore, trasparenza. Dopodiché nel meccanismo di erogazione delle prestazioni ci deve essere una collaborazione tra pubblico e privato. In Italia il problema è che questo rapporto non è ben regolato ovunque: oscilliamo da realtà in cui il privato viene fortemente incoraggiato, come in Lombardia, a realtà in cui il privato viene sostanzialmente ignorato, fino a realtà in cui il privato deve colmare un vuoto, determinando grande eterogeneità tra Regioni. Dunque servirebbero regole chiare su tutto il territorio nazionale e collaborazioni trasparenti per l’erogazione delle prestazioni e incentrate sul diritto alla tutela della salute.
Quali invece i motivi di possibili conflitti e come possono essere affrontati?
Marina Davoli. I conflitti possono nascere quando le regole non ci sono, oppure non sono chiare o non vengono rispettate. Torno a fare l’esempio dell’intramoenia: il cittadino si trova di fronte a un conflitto all’interno della stessa struttura di cui subisce solo gli effetti negativi. Se ci concentriamo sulla parte della gestione dei servizi il grande problema è che il privato ha spesso occupato un vuoto generato dalle carenze del pubblico, costruendo e organizzando strutture per fornire servizi che il pubblico non garantiva. Pensiamo alle residenze sanitarie assistenziali, alla riabilitazione, alla chirurgia ortopedica protesica. È mancata la capacità di committenza del pubblico e di far rispettare gli standard quantitativi e qualitativi. Il Decreto ministeriale 70 del 2015 è stato rivoluzionario perché ha fissato degli standard di qualità misurabili non solo per il privato ma anche per il pubblico. Oggi, a distanza di otto anni da quel decreto, si continuano a pagare con fondi pubblici strutture che non rispettano quegli standard. Questo per dire che non basta un atto regolatorio se non è seguito da azioni che facciano rispettare queste regole. Infine, i conflitti nascono quando le regole non sono uguali. Pensiamo alle regole di assunzione del personale, completamente diverse tra pubblico e privato: il pubblico non può scegliere i propri professionisti, mentre il privato sì.
Ci sono dei confini che non andrebbero superati?
Walter Ricciardi. Sono quelli del ritiro del pubblico dalla tutela dei diritti e dalla tutela della salute: se il pubblico non investe adeguatamente e soprattutto non regola adeguatamente il sistema, i confini si spostano a vantaggio di un privato che, il più delle volte, non guarda all’equità ma al profitto. Ma nel momento in cui cessa la tutela pubblica della salute si va incontro a una logica di puro mercato, che in sanità non funziona perché costringe gli operatori a rincorrere continuamente la produttività e quindi ad abbandonare le prestazioni essenziali, come quelle della prevenzione, della sanità pubblica, della tutela della salute mentale, di cui il privato non si può occupare perché nella stragrande maggioranza dei casi poco redditizie.

Fonte: Crea Sanità, 18° Rapporto Sanità.
La delicatezza della gestione dei dati dei cittadini è una delle ragioni che rendono più difficile la collaborazione pubblico-privato?
Marina Davoli. Una delle ragioni che rende difficile tutta la ricerca sanitaria e non solo la collaborazione pubblico-privato è l’interpretazione miope della normativa che regola la protezione dei dati individuali. In generale oggi rischiamo di perdere una grande occasione di crescita culturale e di lasciare al mercato il potere dei dati. Su questo sarebbe importante una contaminazione tra i due mondi scientifici che si occupano rispettivamente della metodologia della ricerca e di data analytics e intelligenza artificiale, per evitare che siano i dati e non la domanda di ricerca a comandare.
Nel momento in cui cessa la tutela pubblica della salute si va incontro a una logica di puro mercato, che in sanità non funziona. — Walter Ricciardi
Quali sono gli ambiti, gli obiettivi possibili e le opportunità da cogliere per una ricerca collaborativa pubblico-privato nella sanità pubblica?
Walter Ricciardi. Penso sia necessaria una regolazione forte e trasparente da parte del pubblico, finalizzata alla tutela del diritto alla salute in maniera uniforme e omogenea su tutto il territorio nazionale. Una volta posta questa condizione, è possibile una collaborazione tra gli attori del pubblico e privato lasciando a ognuno gli spazi che merita in funzione della propria professionalità. Si tratta di collaborare insieme per capire come soddisfare la domanda che è legata alla tipologia degli interventi e alle strutture.
Marina Davoli. Alla base di una ricerca collaborativa virtuosa tra pubblico e privato deve esserci una definizione pubblica delle priorità e dei quesiti della ricerca che non deve venire dal mercato ma dalle esigenze di conoscenza del nostro sistema sanitario per rispondere ai bisogni dei cittadini. Stessa cosa vale per la definizione di regole per il disegno di un protocollo valido scientificamente e la pubblicazione dei risultati anche se scomodi. A mio avviso gli ambiti di una ricerca collaborativa dovrebbero essere quelli di interesse pubblico. Non posso non ricordare l’esempio virtuoso della ricerca indipendente di Aifa, che partiva proprio da questo concetto. Quando un’industria conduce una serie di studi sperimentali e questi studi superano le prime fasi della ricerca, l’industria stessa per l’immissione sul mercato del farmaco si dovrebbe impegnare a co-finanziare una ricerca valutativa sperimentale o osservazionale. Dunque, la contaminazione tra pubblico e privato e quella tra ricerca e assistenza sono tutti elementi potenzialmente molto positivi. La ricerca nel nostro Paese, come sosteneva anche Alessandro Liberati più di dieci anni fa, non dovrebbe essere solo appannaggio degli Irccs ma di tutto il servizio sanitario. Su questo invece siamo tornati indietro.
Lavorando in un ente privato convenzionato, si sente comunque l’appartenenza al Servizio sanitario nazionale?
Walter Ricciardi. Assolutamente sì. Anche in questo caso bisognerebbe distinguere tra strutture accreditate non profit e strutture accreditate profit che hanno una diversa visione. Attualmente vengono spesso accomunate, ma è un errore grave perché si sottovaluta che la mission delle strutture non profit è svolgere un ruolo pubblico. Se si lavora all’interno di una istituzione non profit è chiaro che ci si sente parte di un servizio pubblico e di una missione addirittura più grande.
A cura di Rebecca De Fiore