Finanziare. Progettare. Costruire. Operare. Erogare. Mantenere.
Non mancano i terreni su cui immaginare una collaborazione tra le istituzioni e le imprese. Tra pubblico e privato. I sistemi sanitari saranno sempre di più sollecitati a migliorare qualità ed efficienza delle strategie di prevenzione, tutela della salute e assistenza. Inoltre, c’è la grande sfida della raccolta dati, del proteggerli e utilizzarli. Ancora, i sistemi sanitari dovranno aprirsi a un’integrazione con la componente sociale, rispondendo alle esigenze di assistenza lungo tutto l’arco della vita e utilizzando la tecnologia per migliorare l’erogazione delle prestazioni. La collaborazione è indispensabile. Da sette anni Forward è un esempio di come si possa stabilire uno spazio di confronto attivo, potenzialmente costruttivo, in cui le diverse parti siano disponibili a dialogare in modo aperto, dimenticando talvolta l’abito al quale sono più legate.
Il contesto sanitario complesso richiede sempre più collaborazione e competenze multidisciplinari. Per esempio, nell’ambito della comunicazione hanno sempre maggiore importanza le figure che sono in grado di “interagire” con i software di intelligenza artificiale. Cosa sta succedendo nel vostro settore a questo riguardo?
Gestire la complessità significa fare in modo che l’innovazione diventi un’opportunità anziché un problema: penso ai nuovi trattamenti, alla possibilità di combinare farmaci con soluzioni digitali, alle opportunità per accompagnare il paziente in tutto il percorso diagnostico-assistenziale. Per massimizzare i benefici che l’innovazione può portare, è necessaria una collaborazione tra figure differenti, in alcuni casi anche nuove figure professionali come i data scientist. Personalmente mi occupo di ricerca e mai come negli ultimi anni ho lavorato con informatici, ingegneri, esperti di digitale; questo richiede non solo di acquisire nuove competenze ma anche di saper dialogare con qualcuno che fa un mestiere diverso dal proprio trovando un lessico comune che superi il confine della propria competenza individuale. Bisogna avere voglia di lasciarsi reciprocamente contaminare nella logica di imparare qualcosa di più.
Nel confronto tra pubblico e privato molte barriere cadono nel momento in cui si porta valore al tavolo della discussione, perché spesso gli obiettivi sono comuni e le competenze complementari.
Il “governo intelligente” dei dati è un aspetto chiave sia per le istituzioni sia per le aziende della comunicazione e del farmaco. La condivisione dei dati della ricerca è stata molto discussa negli anni passati: oggi la situazione sembra essere migliore. La vostra azienda ha da tempo definito nuove policy che hanno sottolineato una discontinuità rispetto al passato: quali sono i punti chiave su cui agire per superare i confini tra pubblico e privato?
Anche in questo caso non si può non parlare di competenze perché alcune volte è la paura del non sapere esattamente come affrontare un problema a diventare una barriera che impedisce di fare un passo avanti. Ma la chiave penso stia nel superare il conflitto di interessi e i confini di ruolo, identificando obiettivi comuni di sistema e sostenendoli in sinergia: rendere l’Italia più attrattiva come Paese in cui investire in ricerca, migliorare il contesto tecnico e normativo per l’utilizzo dei big data in sanità, ad esempio. Noi, come azienda, rispetto al data sharing abbiamo un approccio molto rigoroso e nel contempo molto aperto alla condivisione: da anni mettiamo a disposizione dei ricercatori i dati dei nostri studi. Al contrario, non è altrettanto facile accedere ai dati del servizio sanitario per noi utili al fine di rispondere a domande che possono anche migliorare la pratica clinica. Dunque, a proposito di confini, l’Italia dovrebbe abbracciare un approccio su cui già l’Unione europea spinge e posizionarsi fra i Paesi più innovativi e più aperti.
Fonte: Crea Sanità, 18° Rapporto Sanità. | Fonte: Ema, dati riferiti al 2018-2019.
A proposito di conflitti di interesse, qualche anno fa il New England Journal of Medicine promosse una serie di contributi che sottolineavano il bisogno di ripensare la questione sostenendo la “convergenza di interessi” tra la ricerca istituzionale e quella promossa dalle industrie. È sicuramente vero che l’obiettivo condiviso è il benessere dei cittadini e la cura dei pazienti. Arriviamo a un altro tema chiave: noi – come aziende editoriali – e voi – l’industria farmaceutica – siamo accusati di conseguire utili troppo elevati al punto da rendere difficile la sostenibilità del sistema sanitario. Come possiamo ridurre i motivi di conflitto legati a questi argomenti?
Penso che si dovrebbero focalizzare le riflessioni sul valore che le soluzioni da noi offerte portano alle persone e al sistema. Inoltre, andrebbe tenuto in considerazione che lavorare con rigore, qualità ed eticità richiede significativi investimenti, tanto nei singoli progetti quanto nel capitale umano. Una quota non irrilevante degli utili, fra l’altro, viene nuovamente investita in ricerca e in formazione, oltre che nel garantire la sostenibilità economica. Occorre trovare un bilanciamento tra questi elementi e probabilmente occorre spiegarli e raccontarli ancora, per guadagnare credibilità e fiducia, anche da parte dei cittadini. Abbiamo visto come la percezione del lavoro di un’azienda farmaceutica cambi nel momento in cui ci si rende conto che la maggior parte delle soluzioni terapeutiche viene sviluppata grazie alla ricerca privata. Credo che di base ci sia una superficialità nella conoscenza del settore che può essere superata solo attraverso la comunicazione: spiegando più nel dettaglio come il lavoro viene svolto, facendo conoscere le persone che ci sono dietro e che contribuiscono ad arrivare a dei risultati con competenza, impegno e passione. Nella mia esperienza, nel confronto tra pubblico e privato molte barriere cadono nel momento in cui si porta valore al tavolo della discussione perché tante volte, appunto, gli obiettivi sono comuni e le competenze complementari. Tra pubblico e privato penso sia importante il dialogo, scambiarsi prospettive, perché si è esposti a esperienze diverse.
La sfida è superare il confine tra i disegni tradizionali e le metodiche nuove per rispondere a quesiti rilevanti per la sanità, sia clinici che umanistici ed economico-organizzativi.
La disponibilità di grandi volumi di dati, potenzialmente in tempo reale, rende possibile disegnare e condurre ricerche impensabili fino a pochi anni fa. La ricerca osservazionale sta traendo enorme beneficio da queste opportunità: come pensa che l’utilizzo dei real world data possa integrare la conduzione di studi controllati randomizzati?
Occorre fare una premessa: nonostante si parli di dati in sanità ormai da qualche anno, abbiamo ancora diverse barriere da superare in termini di disponibilità e governance dei dati. Finalmente riscontriamo la concreta volontà politica nell’investire in infrastrutture e regole specifiche, e speriamo che con il Pnrr e le numerose iniziative in corso a livello europeo si facciano rapidamente i necessari passi in avanti. Lo studio controllato randomizzato metodologicamente rimane il gold standard per valutare l’effetto di un intervento, ma dobbiamo considerare due cose: non sempre, a seconda dell’area di patologia presa in esame, lo possiamo condurre; non a tutte le domande, anche per ragioni di tempo e sostenibilità, si può rispondere con le metodiche tradizionali. I dati di pratica clinica, che sono la “traccia” che ogni paziente lascia nel sistema sanitario durante il suo percorso assistenziale, diventano una fonte preziosa di informazioni complementari alla ricerca clinica, non sostituendola ma integrandola, rispondendo a domande aggiuntive. Sono convinta, quindi, che le sfide che ci troviamo a gestire richiedano di superare il confine tra i disegni tradizionali (studi clinici randomizzati controllati) e le metodiche nuove (valorizzazione del digitale e dei big data) per rispondere a quesiti rilevanti per la sanità, sia clinici che umanistici ed economico-organizzativi.
Anche in sanità i confini geografici sono importanti. Nonostante l’impegno di molti Paesi, l’Unione europea non riesce a garantire ai cittadini delle diverse nazioni un accesso omogeneo ai medicinali condizionandone in modo radicale la salute. Quali sono gli obiettivi da raggiungere?
I confini vengono purtroppo percepiti in tutti gli ambiti, non solo in quello sanitario ma anche in ambito sociale, economico, culturale. L’Europa stessa si dimostra in questo senso molto frammentata. In Italia, inoltre, abbiamo anche una serie di disuguaglianze legate ai confini regionali. Il confine come ricchezza ed eterogeneità delle varie realtà mi piace, tuttavia in alcuni ambiti diventa inevitabilmente barriera al pieno, rapido ed efficace sviluppo di approcci nuovi. A livello europeo, anche in ambito sanitario, esistono iniziative e strategie comuni che segnano la direzione. Il problema è come e quando i singoli Paesi si adeguano e le adottano. Probabilmente, per quanto riguarda i dati sanitari e la ricerca, vedremo i benefici anche nel breve termine. Dal punto di vista dell’azienda per la quale lavoro, il fatto di avere una visione che superi i confini nazionali è sicuramente auspicato. A livello interno, anche come ricerca clinica, abbiamo un’organizzazione che sempre più non lavora entro i confini di un Paese, ma in un network diffuso, che favorisce la condivisione, la contaminazione, l’efficienza. Speriamo di assistere a un’evoluzione positiva in questo senso anche dal punto di vista della ricerca, con i nuovi regolamenti che stimolino una circolazione più libera delle informazioni, delle risorse, delle competenze e un allineamento maggiore tra i diversi Paesi.