L’iter che un medico straniero deve percorrere per poter esercitare in Italia, lungi dall’essere inutile burocrazia, costituisce un sistema di controlli e di garanzia per la sicurezza delle cure e per la qualità dell’assistenza. Il riconoscimento dei titoli e, in generale, le modalità ordinarie di esercizio della professione medica sono infatti strumenti che consentono un controllo preventivo sulla preparazione, sulla formazione e sulla qualificazione di medici provenienti dall’estero, tutti controlli ai quali un medico italiano è sottoposto senza eccezioni.
Cosa dice la legge
La procedura ordinaria, tuttora vigente, distingue tra Paesi comunitari ed extra Ue. Il riconoscimento dei titoli avviene, per i Paesi comunitari, ai sensi della Direttiva comunitaria 2005/36, e viene sancito dalla Conferenza dei servizi (composta dal Miur, dal Ministero della salute e dalla Fnomceo), che controlla che i titoli siano conformi. Nella pratica, un sanitario che desidera gli venga riconosciuto il titolo deve inviare il titolo stesso tradotto in italiano – da un perito giurato o dall’ambasciata – al Ministero della salute. Se ha già esercitato nel Paese estero deve allegare anche un certificato di “good standing”. Occorre anche dimostrare di saper parlare l’italiano: la verifica spetta all’Ordine che può effettuarla tramite colloquio o prove attitudinali. Diversa è la situazione se la laurea è stata conseguita in un Paese extracomunitario: il controllo, in questo caso, è molto più incisivo e stringente, prevede la presentazione di una documentazione analitica e può concludersi, oltre che con il diniego, anche con l’obbligo di fare un tirocinio presso una struttura pubblica oppure con il superamento di una prova attitudinale.
Deroghe e disuguaglianze
Ora la normativa prevede, sino al 31 dicembre 2025, la possibilità per le Regioni di impiegare medici extracomunitari in deroga al normale iter di riconoscimento dei titoli. Il professionista dovrà comunicare all’Ordine competente l’ottenimento del riconoscimento in deroga da parte della Regione e il nominativo della struttura presso la quale presta attività. Non si tratta in ogni caso di una vera e propria iscrizione, non c’è dunque il controllo deontologico del professionista da parte dell’Ordine. Una scelta che, motivata inizialmente dallo stato pandemico sanitario e mirata ad affrontare un’emergenza del calibro della covid-19, desta notevoli perplessità se applicata in altre circostanze, visto che attenua le garanzie poste in via ordinaria a presidio della sicurezza delle cure in favore del cittadino. La comparazione tra i due interessi giuridici, e cioè la sicurezza delle cure e il ricorso a mezzi straordinari di reclutamento del personale, non appare giustificare la deroga al sistema di garanzia, specie se questa è determinata da esigenze che, pur impattando sull’assistenza, sono tutt’altro che improvvise e non altrimenti gestibili con strumenti ordinari.
Per facilitare l’iter si può e si deve agire rafforzando gli uffici preposti del Ministero, investendo maggiori risorse umane ed economiche.
Ma perché questa legge? Si tratta di una “toppa” voluta dalle Regioni per porre rimedio a una situazione che loro stesse hanno contribuito a creare. Al nostro Servizio sanitario nazionale mancano, infatti, tra ospedale e territorio, più di 20mila medici. La situazione peggiorerà nei prossimi cinque anni, quando andranno in pensione 50mila medici del Servizio sanitario nazionale, tra specialisti e medici di medicina generale. Inoltre, molti medici lasciano la sanità pubblica per le condizioni difficili di lavoro, i turni infiniti, lo stress, le aggressioni, la scarsa soddisfazione, la burocrazia. E, per un’errata programmazione, le Regioni non hanno formato, in passato, abbastanza specialisti per sostituirli. Di qui il ricorso ai medici stranieri in deroga al riconoscimento dei titoli: saltando cioè il passaggio fondamentale con il quale il Ministero certifica che le competenze di un medico laureato o specializzato all’estero siano uguali a quelle di chi si è formato in Italia. Un passaggio che non è solo formale, ma sostanziale: garantisce, infatti, che tutti i medici e i professionisti che operano nel Servizio sanitario nazionale abbiano competenze uniformi e qualificate per svolgere le loro funzioni. Bypassarlo crea disparità con i medici italiani, che per esercitare devono formarsi per nove/undici anni, acquisendo competenze determinate per legge, e poi iscriversi agli Ordini. Crea disparità rispetto a quei professionisti che sinora hanno seguito e seguono il normale iter. E, cosa più importante, crea disuguaglianze nell’accesso alle cure, perché i cittadini, a seconda della Regione in cui vivono, vengono affidati a professionisti con competenze e vincoli deontologici non uniformi. I medici stranieri chiamati in deroga, infatti, non sono sottoposti nemmeno al controllo deontologico da parte degli Ordini, che non possono verificare, oltretutto, la conoscenza della lingua italiana, importante perché, come dice la legge, la comunicazione è tempo di cura.
In conclusione, i colleghi stranieri sono i benvenuti, ma a condizione che siano verificati i loro titoli. Per facilitare l’iter si può e si deve agire rafforzando gli uffici preposti del Ministero, investendo maggiori risorse umane ed economiche.