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Confini Articoli

Voci di confine, tra passato e presente

La frontiera orientale italiana ha marcato intere generazioni e continua a esistere ancora oggi

Il confine che separava Italia e Jugoslavia
Fotografia di Giacomo Doni

Una linea rossa scolorita divide a metà il cimitero di Merna e le sue lapidi. Situato nella frazione di Merna-Castagnevizza, in Slovenia, tra il 1947 e il 1975 fu attraversato dal confine che separava l’Italia dalla Jugoslavia. Dove oggi c’è quella linea rossa, in passato correva il filo spinato che divideva nettamente non solo due Stati ma anche alcune salme, che riposavano con la testa in Italia e le gambe in Slovenia, tanto che per posare un fiore sulla tomba di un caro c’era bisogno di un permesso speciale.

Questo camposanto, che sorge a circa cinque chilometri da Gorizia, è solo una testimonianza della creazione artificiosa e illogica del confine orientale italiano dopo il 1947, anno in cui la cortina di ferro separò fisicamente l’Italia dalla Jugoslavia e divise il mondo in due blocchi: l’est comunista e l’ovest democratico.

Sulla rete di confine

A tracciare il confine furono i soldati anglo-americani che, tra il 15 e 16 settembre 1947, camminarono lungo la città muniti di cartina per innalzare la rete di frontiera. Molti cittadini cercarono di radunare i propri averi e lasciare le loro case per evitare di ritrovarsi in uno Stato a cui sentivano di non appartenere. Il confine, infatti, non teneva conto dell’identità delle persone e delle necessità di chi ci viveva: separava le abitazioni dai propri giardini, le fattorie dai campi, perfino le case, dove da una porta si entrava in Italia e dall’altra si usciva in Jugoslavia. Nei primi anni rimase invalicabile. I graniciari, le guardie di confine jugoslave, sorvegliavano la frontiera a ogni ora per evitare fughe. Con il tempo però, questa barriera fisica si fece più permeabile, e per attraversarla bastava mostrare un lasciapassare o propusniza.

Il confine cadde definitivamente il 30 aprile 2004, con l’entrata della Slovenia nell’Unione europea. Quel giorno, le autorità italiane e slovene, insieme ai cittadini e ai giornalisti, si radunarono nella Piazza Transalpina, divisa in due tra Gorizia e Nova Gorica, simbolo indiscusso di quel confine, per abbattere la rete e festeggiare la nuova stella dell’Europa. Alcuni si facevano timbrare per l’ultima volta la loro propusniza, come a testimoniare un momento storico. Tuttavia, si dovette aspettare fino al 2007, con l’entrata del Paese nella zona Schengen, perché le persone potessero circolare liberamente come oggi.

A riflettori spenti però, le cose non cambiarono del tutto. Quella separazione forzata durata cinquant’anni creò delle ferite insanabili nelle generazioni che l’hanno vissuta. Nadja Velušček, una regista slovena di Nova Gorica, ha dedicato parte della sua vita a realizzare documentari su questo confine. Ricorda ancora quando per andare al lavoro a Gorizia doveva mostrare la sua propusniza, che poteva utilizzare solo durante l’orario di lavoro.

Il confine non teneva conto dell’identità delle persone e delle necessità di chi ci viveva: separava le abitazioni dai propri giardini, le fattorie dai campi, persino le case.

Per anni ha dovuto rinunciare a cene con i colleghi e amici perché gli agenti di frontiera rifiutavano il suo permesso. “Quando le cose succedono sulla tua pelle cominci a svegliarti”, diceva Velušček seduta a uno dei tavoli del bar della stazione Transalpina di Nova Gorica, nell’inverno del 2018. Dietro di lei, si scorge la rete metallica verde che segnava un confine che, fisicamente, non esiste più, ma che è rimasto nel dna delle due città. “Prima erano divise per delle memorie opposte: a Nova Gorica ci sono i monumenti alla seconda guerra mondiale, a Gorizia alla prima. Adesso sono divise dalla pace, o meglio dall’indifferenza. Non esiste più un conflitto ma questo allontanamento è divisione. Ci sono ragazzi che non hanno mai attraversato questa piazza perché qui è un altro mondo”.

Anja Medved, figlia di Nadja Velušček e come lei regista, ha vissuto solo gli ultimi anni del confine. Ricorda però la sensazione di libertà che ha provato quando l’ha attraversato per la prima volta. Oggi parla di nostalgia, perché quella linea divideva due mondi che parlavano lingue diverse, mangiavano cose diverse. “Peculiarità che sono andate perse. La globalizzazione ha colto alle spalle coloro che, temendo di perdere la propria identità, tenevano le armi puntate verso il confine. Era possibile vivere in due realtà contemporaneamente sapendo che erano entrambe vere, reali. Ora c’è un solo mondo, senza frontiere, che abbiamo tanto desiderato. Ma non è così libero come tutti si sarebbero aspettati”. Nel 2018 raccontava che sono ancora molti gli sloveni, anche tra i suoi familiari, che vivono in Italia e non vogliono parlare la loro lingua. “È pieno di queste assurdità che rappresentano gli aspetti contraddittori della natura del confine”.

Adesso Nova Gorica e Gorizia sono divise dalla pace, o meglio dall’indifferenza. Non esiste più un conflitto ma questo allontanamento è divisione. — Anja Medved

I fantasmi del passato

Quella frontiera che tutti credevano abbattuta si è innalzata nuovamente a marzo del 2020, in piena pandemia, quando le restrizioni per evitare la diffusione del coronavirus hanno reso indispensabile richiudere i confini, compresa la piazza Transalpina, conosciuta anche come Trg Evrope (piazza Europa). Una rete alta metallica tornò a separarla in due, dividendo la placca grigia circolare dove si legge “Italia, R. Slovenja”, testimonianza di un confine fisico che non c’è più.

L’innalzamento di quella rete, sebbene privo di qualsiasi significato politico, ha riportato indietro di molti anni l’orologio della storia. Gabrijel Fišer, chirurgo dell’ospedale transfrontaliero di Šemper-Vrtojba, vive a 50 metri dal valico del Rafut. Nella primavera del 2020 raccontava in una videochiamata la sua reazione dopo aver visto la nuova rete che divideva Gorizia e Nova Gorica. “Negli ultimi anni le due città hanno iniziato a respirare come una sola. Non mi sarei mai immaginato di rivedere questa frontiera chiusa”, spiegava. Per alleviare questa separazione forzata, Fišer chiese ad alcuni bambini di entrambe le città di realizzare dei disegni e di appenderli alla rete. “Queste nuove generazioni non hanno mai vissuto il confine. E in questi disegni, infatti, non ci sono frontiere: solo abbracci, fiori e amicizia”.

A distanza di quasi settant’anni dall’innalzamento del confine, Gorizia e Nova Gorica sono state nominate capitale della cultura nel 2025, insieme alla città tedesca di Chemnitz. Una candidatura transfrontaliera che le vedrà lavorare insieme per realizzare eventi e attività culturali e che le unirà mai come prima. Un risultato che fino a quindici anni fa sembrava impossibile anche solo da immaginare.

Il confine nella testa

La cortina di ferro fu estesa all’intero confine orientale, anche sui piccoli paesi delle valli del Natisone. Topolò, uno di questi, è separato da un fitto bosco che lo divide da Livek, frazione di Caporetto, e prima città slovena oltreconfine. Contava quasi 400 abitanti all’inizio del secolo scorso, ma i due conflitti mondiali e la guerra fredda hanno marcato in modo indelebile questa località che ora conta solo una ventina di residenti fissi.

Non tiri più fuori il passaporto ma il confine c’è e ci sarà sempre. Perché il di là è un mondo che per secoli è stato nemico. — Moreno Miorelli

Moreno Miorelli, trentino di nascita ma cresciuto a Biella, è arrivato a Topolò nel 1989. Questo confine l’ha sempre affascinato. “Quando superi la sbarra vai su un altro pianeta, con altre storie, con altri gusti, con altri cibi, con un altro modo di pensare. È estremamente eccitante. È come fare un viaggio di centinaia o migliaia di chilometri quando invece devi farne solo venti”, spiegava Miorelli indicando le montagne che separano la piccola località italiana dalla Slovenia. Tuttavia, gli anni duri del confine, l’occupazione militare e il rigido divieto di parlare il nadiško, un dialetto sloveno tipico di queste valli, segnarono la popolazione del posto. “Il confine rimane purtroppo in molte teste. Per molti, di là ci sono i cattivi, e viceversa. Non tiri più fuori il passaporto ma il confine c’è e ci sarà sempre. Perché il di là è un mondo che per secoli è stato nemico”.

Un’Europa fatta di barriere

Quando si viaggia lungo il confine orientale ci si accorge di aver oltrepassato la frontiera grazie a un messaggio dell’operatore telefonico. “Benvenuto in Slovenia”, si legge. Con l’avvento dell’Unione europea e della moneta unica, si ha la sensazione di vivere in un mondo senza frontiere, che è stato il sogno di molte persone che il confine l’hanno vissuto davvero.

Si tratta però di un’illusione. Non ci sono mai state così tante frontiere come da quando abbiamo ipotizzato un mondo del tutto libero. I muri e le barriere fisiche sono cresciuti drammaticamente nell’ultimo decennio. L’Unione europea e l’area Schengen sono attualmente attraversate da 19 barriere di confine e di separazione che si estendono lungo più di duemila chilometri. “Tra il 2014 e il 2022 la lunghezza complessiva delle recinzioni alle frontiere esterne dell’Unione europea e all’interno dello spazio Schengen è passata da 315 chilometri a 2048”, secondo un rapporto pubblicato dall’European parliamentary research service lo scorso anno. Le principali ragioni che hanno spinto a innalzare questi muri sono la prevenzione all’immigrazione irregolare e la lotta contro il terrorismo.

La mappa dei muri europei. L’Unione europea conta almeno duemila chilometri di muri alle frontiere interne ed esterne secondo il rapporto dell’European parliamentary research service del 2022. Per la maggior parte sono barriere contro l’immigrazione. Il muro di Calais è stato voluto dal governo Uk per impedire il passaggio dalla Francia alla Gran Bretagna. La Finlandia ne sta costruendo uno al confine con la Russia. Quello storico di Cipro (*), invece, dal 1974 divide de facto l’isola in Cipro nord e Cipro sud.

Oltrepassare i muri invisibili

Ma i confini non son solo fisici. Nell’estate del 2019, il ministro dell’interno Matteo Salvini e il governatore del Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, avevano lanciato l’idea di “sigillare” il confine orientale, intensificando i pattugliamenti al confine, per bloccare i flussi di migranti provenienti dalla rotta balcanica. Questa proposta ha fatto molto discutere, rievocando i ricordi di un passato non troppo lontano.

Infatti, quel confine abbattuto a inizio secolo continua a esistere, ma non per tutti. Nel 2021, circa 4829 migranti provenienti dalla rotta balcanica sono stati accolti a Trieste, secondo l’ultimo studio del Consorzio italiano di solidarietà. Tuttavia, Gianfranco Schiavone, presidente dell’associazione, spiega che queste cifre non rispecchiano la realtà ed eleva le stime a circa 10.000 arrivi nel 2021. Quella balcanica è stata la rotta migratoria più percorsa nel 2022: l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, Frontex, ha registrato 145.600 attraversamenti irregolari lo scorso anno, il 136 per cento in più rispetto al 2021.

I migranti che attraversano questa frontiera si ritrovano di fronte a molteplici muri, abbattuti solo da reti di solidarietà cittadine, come quella di Linea d’Ombra a Trieste, gestita da Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi, che ogni giorno curano le ferite dei migranti che arrivano stremati dopo anni di viaggio e, spesso, di maltrattamenti. Nel corso degli anni, l’associazione ha dovuto affrontare gli ostacoli dell’amministrazione locale e la diffidenza e ostilità di parte della cittadinanza. Un muro invisibile, una frontiera nella mente, che continua a esistere ancora oggi.

Elisa Tasca

 

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Garibaldi fu ferito

Certo, l’eroe dei due mondi non deve aver preso bene la decisione assunta da Cavour di regalare Nizza alla Francia per convincerla a combattere la seconda guerra di indipendenza a fianco dei piemontesi. I Bianchi diventano Le Blanc e i De Ponti sono Du Pont dall’oggi al domani. Quelli che non cambiano mai nome, pur vivendo costantemente in luoghi di frontiera, sono i mercenari: loro e i monaci, spiega Mauro Suttora in “Confini”, sono “gli unici global medievali senza confini”.

Annibale coi suoi elefanti sembra abbia passato le Alpi al colle delle Traversette del Monginevro, come D’Artagnan nel 1664. I confini infatti sono legati ai monti. Ma non sempre: ogni regola esiste per essere disattesa così che la piccola val Cramariola contesa tra Italia e Svizzera fu assegnata alla prima da un imparziale giudice statunitense nel 1864, l’ambasciatore di Abraham Lincoln George Marsh: riconoscendo nella storia i diritti italiani, il territorio passò di mano senza alcun indennizzo né economico né geografico.

Anche i fiumi sono confini naturali, ma non sempre. Tra Italia e Svizzera il Gaggiolo diventa Clivio, poi Lanza e sfocia nell’Olona. E il Tresa è maschile in Italia e femminile in Svizzera. A Gorizia, ma anche tra Turchia e Siria, la frontiera la fa una ferrovia. Tra Italia e Slovenia è stato per decenni il confine più temperato della guerra fredda: oggi sul Collio sloveno verso l’Italia c’è un parco della Pace. Anche per non scordare i cinquantamila soldati italiani e trentacinquemila austriaci morti nell’agosto del 1916 per conquistare la città o per difenderla. Da parte italiana erano i sardi della Brigata Sassari, ragazzi circondati da un mare che non è mai un confine.

Questo e molto altro è nel libro “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” di Mauro Suttora.