Che la questione sia seria, lo confermarono i primi astronauti notando che l’unica opera umana visibile dallo spazio è la Grande Muraglia cinese: un manufatto che marcava un confine.
I Romani avevano parole e idee diverse per esprimere il concetto. I due più importanti erano limes, il confine come barriera, come ostacolo; e limen, la soglia della domus, quel bordo che viene continuamente superato da chi entra in casa. Che esiste per non esserci, per essere sempre travalicato. Vesta contro Mercurio. Esclusivo il limes, inclusivo il limen. Quest’ultimo, permeabile anche all’estraneo, e ai timori che l’altro genera. Tracciando il solco, Romolo aveva circoscritto lo spazio politico, sottraendolo alla baraonda della violenza sopraffattrice. Soltanto all’interno di quello spazio determinato diveniva possibile godere dei privilegi della civitas e delle regole che la comunità sceglieva di darsi. Chi ne è al di fuori è un potenziale nemico – notava Carl Schmitt.
La necessità di frontiere statuali nasce dal dovere di tutelare i cittadini: solo se il confine è certo, lo Stato può farlo rispettare e chi ne è al di qua può dirsi al sicuro.
La storia dello Stato moderno ha confermato questa tendenza. Da Thomas Hobbes in poi, il suo compito è consistito nel proteggere i sudditi all’interno di confini certi, garantendo innanzitutto sicurezza. La necessità di frontiere statuali nasce proprio dal dovere di tutelare i cittadini: solo se il confine è certo, lo Stato può farlo rispettare e chi ne è al di qua può dirsi al sicuro. Lo Stato può esercitare la propria potestas proprio in virtù del fatto che è in grado d’intestarsi il monopolio della forza legittima su di un territorio determinato e sopra una popolazione definita, per quanto esposta a cambiamenti e fluttuazioni.
Questa costituisce il suo demos, il suo popolo. Il quale, proprio in virtù di queste delimitazioni che configurano uno spazio comune, può coralmente autodeterminarsi, qui da noi nelle forme proprie della democrazia contemporanea, liberale e sociale. Non sempre è stato così: per esempio, del demos ateniese non facevano parte le donne, gli schiavi, i minori e gli stranieri e bisognerebbe tener sempre a mente la lunga e travagliata storia che ha condotto al suffragio universale, specie oggi che le democrazie tendono a snobbarlo. Ovviamente, il demos non può essere confuso con l’ethnos: il popolo non può essere identificato in base all’etnia, la democrazia non è nata né può reggersi su fondamenta etniche.
Eppure, in molti Paesi del mondo ancora oggi i confini sono intesi solo come costrizioni, ciò che impedisce quella permeabilità in uscita che connota in primo luogo la liberalità di un regime. Troppi muri avevano e hanno la funzione che aveva il più famoso di loro, quello di Berlino, e vengono ancora eretti per non far scappare i propri cittadini, prima che per impedire l’entrata allo straniero. Il rapporto tra comunità politica e territorialità è dunque questione seria, anche abbracciando un’ottica cosmopolitica, almeno fintanto che la politica globale resterà organizzata nella forma di un sistema di Stati che si riconoscono reciprocamente sovrani, nonostante la forma-Stato sia ormai quasi universalmente considerata obsoleta, magari a vantaggio del ritorno degli Imperi, specie nella loro forma economica o virtuale. Se lo scambio paura per sicurezza funziona poco o male, significa che lo Stato non espleta sufficientemente uno dei suoi compiti essenziali. L’insicurezza percepita dai cittadini può dipendere da minacce interne o esterne, quando lo Stato non riesce a far osservare i propri confini contro chi non solo li pressa, ma li varca e li infrange, sia esso il nemico o un’epidemia.
Se lo scambio paura per sicurezza funziona poco o male, significa che lo Stato non espleta sufficientemente uno dei suoi compiti essenziali.
Ma la frontiera della paura non coincide col confine statuale. Neppure quando lo si attrezzi e difenda con le misure più estreme e spettacolari, tangibili – come mari incontrollati per acuirne il pericolo, forme di embargo, muri e fossati – o immateriali, come le barriere di censo, lingua e cultura. La globalizzazione è in grado di travalicare qualsiasi spazio fobico costruito per difendersi dal fuori, dall’altro, riportando l’insicurezza nel cuore stesso della città. Nel secondo Novecento, gli sforzi della politica internazionale e i bisogni dei mercati hanno fatto sì che in alcune circoscritte zone del pianeta le linee di confine fossero meno marcate, che le frontiere fossero sostanzialmente superate, specie in Europa. Ma anche il più sprovveduto tra i cosmopoliti sa bene che il confine tra gli Stati potrebbe essere definitivamente abbattuto – e ciò accadrebbe in controtendenza rispetto alle propensioni più recenti – solo se il diritto s’incaricasse d’istituire un diverso spazio, stavolta sovranazionale, ma all’interno del quale i cittadini potessero esercitare la loro auto- determinazione politica.
Stabilire i confini del proprio territorio e del proprio demos (di chi lo abita non per diritto etnico, di sangue, ma per scelta) è prerogativa di ciascuno Stato. Ne consegue forse che anche il diritto di regolare gli accessi e i flussi gli appartiene – per così dire – in forza della sua natura, o si tratta invece di un diritto questionabile? In che misura uno Stato è sovrano sui propri confini? Per stabilirlo, tenendo conto delle dinamiche della globalizzazione, delle spinte economiche mondialiste e della vocazione imperiale che pure continua a pungolare gli attori più potenti della scena internazionale, si avverte piuttosto l’urgenza di una sorta di “contratto globale” sovranazionale che possa essere accettato da prospettive diverse. Stati, imperi, internet e mercati infatti non sono i soli a invocare la signorìa sui confini. Oltre che delle macro entità, sempre più gelose dei loro diritti e delle loro sfere d’influenza politica ed economica, occorre tener conto delle esigenze dei popoli (a partire da quelli privi di un proprio Stato, come i curdi o i rohingya) e degli stessi singoli individui, portatori di istanze spesso diverse sia da quelle degli Stati che da quelle dei popoli e anche dei mercati e degli imperi.