Sappada è un piccolo Comune della Provincia di Udine situato tra Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Il confine tra le due Regioni è stato spostato nel 2017 per effetto di un referendum che nove anni prima aveva sancito la volontà dei sappadini di passare dal Veneto all’autonomo Friuli-Venezia Giulia. Poco più a nord del paese le Alpi carniche delimitano la frontiera italo-austriaca, che un centinaio di chilometri a est incrocia quella slovena nei pressi di Tarvisio, uno dei pochi Comuni al mondo ad avere ben quattro lingue ufficiali: l’italiano, l’austriaco, lo sloveno e il friulano. E non è tutto: le tipiche case di legno di Sappada, con le travi disposte in orizzontale e i balconi ornati di gerani e campanule, sono quasi tutte disposte su una via che corre parallela al Piave, fronte e confine tra l’Italia e l’Austria-Ungheria durante la prima guerra mondiale.
È proprio in una di queste storiche abitazioni di legno che si trova il ristorante Laite, venti coperti e una stella Michelin, il cui nome nel dialetto locale (un austriaco che ricorda i dialetti bavaro-tirolesi) significa “un prato al sole”. Proprio l’uso attento e bilanciato delle erbe di prato è uno dei tratti caratteristici della cucina della chef Fabrizia Meroi, cuoca dell’anno 2022 secondo la Guida de L’Espresso, e dei suoi collaboratori. Originaria di Cividale del Friuli – sul confine italo-sloveno – ma sappadina d’adozione, Meroi ha acquisito negli anni una crescente notorietà per la sua capacità di combinare tradizione e innovazione, integrando i sapori tipici dell’Alpe Adria (“l’affumicato, il dolce, il sapido”) con altri provenienti dal resto del mondo.
Quando le chiedo qual è il piatto che più di tutti le ricorda il concetto di confine tra quelli proposti al Laite, mi risponde senza pensarci troppo: “Ci sono diversi piatti che potrebbero essere interpretati in questo senso. Il primo che mi viene in mente è ’merluzzo, finocchio e latte’, in cui il latte è il protagonista senza mai comparire. Ci sono diverse consistenze: dallo yogurt liofilizzato alla pelle di latte essiccata, dalla cialdina di latte in polvere alla crème fraîche. E poi c’è il merluzzo salato, che ci permette di portare il pesce in un’area dove prima non compariva mai, e un brodo vegetale in cui viene messa in infusione la crosta del formaggio Piave stravecchio. Quindi c’è anche l’argomento del fiume, teatro di molti scontri ed elemento fondante della cultura di questo territorio”.
Eleganti e profumati, i piatti sviluppati dalla chef e il suo team sembrano nati per risolvere una tensione tra prossimità e lontananza. Tra ciò che si colloca al di qua e al di là dei confini della percezione. I gnocchetti di rapa sappadina e il cheddar, il raviolo di saurnschotte (una ricotta acida tipica di Sappada) e il mandarino: la ricerca di nuovi ingredienti può cominciare a pochi metri dal ristorante o a migliaia di chilometri di distanza. “A me interessa innanzitutto la qualità del prodotto”, ci tiene a sottolineare la chef. “Se poi si conosce la storia del fornitore, la sua passione, ottenere certi risultati è più facile. Avere un dialogo con i produttori è fondamentale, ad esempio, quando si ha bisogno di un’opinione o si vuole creare un prodotto nuovo”.
La prossimità può essere infatti funzionale alla creatività. Me lo spiega il sous-chef del Laite, Alex Iacoviello: “Ricordo un piatto del menù estivo del 2020: ’mammella, latticello, uova di trota, olivello spinoso e fieno’. Il latticello è il prodotto di scarto della lavorazione del burro, che di solito viene buttato. Noi ne abbiamo parlato con la latteria locale e abbiamo deciso di usarlo, facendone una spuma in cui abbiamo infuso il fieno: il nutrimento principale delle vacche nel periodo invernale. E prendevamo anche la mammella da un allevatore del posto, il quale ci ha parlato delle erbe che le sue vacche brucavano nelle stagioni più calde. Il trifoglio, l’achillea, i fiori di borragine e altre ancora. E così alla fine anche quelle erbe sono entrate nel piatto”.
Eleganti e profumati, i piatti sviluppati dalla chef e il suo team sembrano nati per risolvere una tensione tra prossimità e lontananza.
Innovazione a portata di mano, quindi. Allo stesso tempo però chi si occupa di alta ristorazione sente spesso la necessità di allontanarsi da tutto ciò che è vicino o familiare, per incontrare e conoscere culture e cucine diverse. “Viaggiare è fondamentale per capire chi siamo e favorisce la crescita personale e la curiosità”, spiega Meroi. “Nel nostro campo è la base: andare in un altro posto, conoscerne le materie prime e le tecniche e portarle a casa”. Quando la intervisto, ad esempio, la chef ha appena finito di preparare dei ravioli con pasta di patate e mela secca, farciti con un formaggio salato e conditi con burro di nocciola e semi di cipolla. “C’è questo mix tra il gusto intenso del formaggio e la dolcezza e l’acidità della pasta, mentre i semi di cipolla sono un ingrediente tipico del Medio Oriente e servono a dare un retrogusto un po’ tostato”.
Uno può anche imparare a memoria un libro di ricette, ma a fare la differenza saranno sempre le esperienze personali.
È dello stesso parere anche Iacoviello, che nel corso della sua breve carriera ha già avuto modo di confrontarsi con culture culinarie molto diverse tra loro. Prima di arrivare al Laite, infatti, ha lavorato con altre due chef stellate dei confini friulani – Ana Roš del ristorante Hiša Franko a Kobarid e Antonia Klugmann del ristorante L’Argine a Vencò – con le quali ha partecipato a eventi in Russia, in Australia, negli Stati Uniti. Per allargare ancora i propri orizzonti, poi, il sous-chef ha passato anche quattro mesi in un ristorante indiano di Bangkok. “È la tecnica a fare un buon cuoco – mi spiega – non le ricette. Uno può anche imparare a memoria un libro di ricette, ma a fare la differenza saranno sempre le esperienze personali”.
Tra i piatti conosciuti a Bangkok, ad esempio, Iacoviello era rimasto particolarmente colpito dalla zuppa nazionale thailandese: il Tom Yam. “Si tratta di una zuppa acida a base di cocco, citronella e gamberi. L’ho portata qui, l’abbiamo rielaborata utilizzando ingredienti locali e ora è entrata nel menù del Laite. In questo periodo stiamo invece lavorando molto su delle tecniche giapponesi ed è nato un piatto che affianca un’anguilla dei nostri fiumi, cotta su delle speciali griglie giapponesi, a un teriyaki di larice. Da questo punto di vista i cuochi italiani sono avvantaggiati, perché quando tornano a casa possono applicare le tecniche imparate in giro per il mondo su ingredienti meravigliosi”.
Allargare o restringere il campo d’azione della propria curiosità, quindi, per trovare un equilibrio tra il bisogno di definire la propria identità e quello di innovarsi continuamente. Con un’attenzione particolare ai clienti. Al Laite è infatti possibile scegliere tra tre menù degustazione: l’“Asou”, basato sui piatti che meglio raccontano la vita e la carriera di Meroi, il “Plissn”, più orientato all’innovazione e in continuo rinnovamento e, infine, il “Verpai”, in cui si lascia al cliente la possibilità di costruirsi il proprio percorso. Una scelta per nulla scontata nel mondo dell’alta ristorazione, dove la tendenza è piuttosto quella di limitare la libertà dei clienti, per massimizzare i risultati e ridurre i costi. “Ci tengo molto – mi spiega Meroi – penso che sia molto importante comunicare con la clientela, così come coi collaboratori. Soprattutto in un ristorante come il nostro che funziona quasi come una piccola casa”.