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Confini Articoli

Quando il paziente non condivide il parere del medico

Il punto di vista di un medico di medicina generale, attraverso due casi clinici

Renato Luigi Rossi

Medico di famiglia

By Marzo 2023Nessun commento
considerare la soggettività del paziente nella cura
Fotografia di Giacomo Doni

Gli innegabili progressi della medicina hanno permesso passi in avanti sia nel campo della diagnosi che della terapia ma questo, paradossalmente, ha portato a una relazione tra medico e paziente sempre più fredda e impersonale, di tipo prevalentemente tecnicistico. L’approccio è sostanzialmente orientato alla disease, intesa come malattia oggettiva. L’idea che vi sia un’entità astratta che colpisce il corpo o una parte di esso (e che quindi necessita di essere individuata e sconfitta) finisce con il separare la malattia dal paziente come fossero due soggetti a sé stanti che quasi non si influenzano a vicenda.

Tuttavia si tratta di una visione riduzionistica della realtà perché ignora la soggettività del malato. Non basta fare una diagnosi e impostare una corretta terapia, il paziente è alla ricerca di qualcosa di più. Non esiste la malattia in sé, esistono i malati con emozioni, pensieri, valori diversi e variabili da persona a persona.

È necessario quindi affiancare all’approccio disease oriented quello illness oriented, dove per illness si intende l’esperienza della malattia così come la vive il paziente, il suo vissuto personale fatto di priorità, scelte, speranze, aspettative, timori, voglia o stanchezza di vivere. Se è vero che il medico è l’esperto della malattia, il paziente è l’esperto di sé stesso. Solo una visione più ampia può restituire un senso alle esperienze che il malato sta in quel momento vivendo. Esperienze che sono fatte di ansia, paura (della disabilità, della sofferenza, della morte, diffidenza, sfiducia nella medicina, rifiuto della malattia), di desideri, emozioni e sentimenti molto personali. Il malato cerca competenze tecniche ma anche comprensione ed empatia.

Per il medico le cose essenziali sono cercare di identificare la causa dei sintomi lamentati e trovare una soluzione terapeutica valida, indipendentemente dalla soggettività del paziente-oggetto. Invece l’agenda della persona- paziente contiene aspetti fondamentali come le emozioni, le idee, le interpretazioni, le aspettative, il contesto.

Investigare e capire questi sentimenti aiuta a instaurare una relazione di tipo empatico che faciliterà il prosieguo della visita migliorando anche la comprensione del quadro clinico.

Consideriamo i due seguenti casi clinici.

Primo caso clinico. Un uomo di 79 anni presenta da tempo una strana astenia associata a perdita di peso non intenzionale. Si reca a visita dal medico curante. Costui rileva un pallore sospetto delle mucose visibili e quindi richiede alcuni esami ematochimici che dimostrano la presenza di una discreta anemia normocitica, un aumento delle transaminasi, degli indici di colestasi e della ves. Un’ecografia addominale mostra la presenza di un fegato aumentato di volume con una formazione nodulare di circa 3 centimetri al lobo epatico sinistro. Si sospetta una neoplasia del fegato: dopo l’esecuzione di una risonanza magnetica il paziente esegue una biopsia epatica che purtroppo conferma l’ipotesi diagnostica. Viene quindi ricoverato e il chirurgo propone una resezione del tumore. Il medico curante va in ospedale a trovare il paziente e costui confessa di essere molto in dubbio se effettuare l’intervento, nonostante l’ottimismo del chirurgo che gli ha assicurato buone possibilità di riuscita. Il medico conviene con il chirurgo e afferma che l’intervento è necessario. Il paziente però obietta che ha un’età avanzata, che a parte l’astenia non ha altri disturbi e chiede perché si dovrebbe sottoporre a un intervento che comunque è gravato da un certo rischio. Il medico sa che la moglie del paziente è malata e non è in grado di uscire di casa. Il paziente chiede: “Cosa farebbe se dovessi mancare?”. I figli sono sposati e lontani, ognuno ha la sua famiglia e i suoi problemi sa come vanno queste cose.

Come gestire situazioni del genere? Insistere affinché il paziente si operi? Accettare la sua decisione? Anche se a prima vista la scelta di non operarsi può apparire irrazionale, tale non è se la si guarda dal punto di vista del paziente. Il medico potrà spiegare che le probabilità di successo dell’intervento sono buone, ma dovrà ammettere che un certo rischio operatorio è sempre presente e che non è possibile prevedere come evolverà la situazione. In un caso del genere è necessario spiegare chiaramente i pro e i contro delle varie scelte ma poi accettare quella del paziente che vede la situazione da un’altra angolazione.

 

Secondo caso clinico. Una donna di 45 anni lamenta da qualche giorno una sindrome lombalgica che la disturba e spesso le impedisce di recarsi al lavoro. Il medico curante la visita ed esclude una patologia organica. Indaga lo stato d’animo della donna: sta attraversando un periodo di stress in famiglia a causa di dissapori con il marito e di difficoltà con la figlia di 17 anni che frequenta compagnie poco raccomandabili. Il medico spiega che si tratta di una lombalgia non specifica che probabilmente è aggravata da uno stato depressivo e prescrive una terapia con un inibitore selettivo della serotonina. La paziente però è molto preoccupata circa la sua salute, recentemente una sua amica è stata ricoverata per leucemia. Lei teme che il mal di schiena possa dipendere da una neoplasia ossea e chiede la prescrizione di una risonanza magnetica. Il medico non è d’accordo, ritiene che l’esame sia del tutto inutile, cita le indicazioni delle linee guida e quindi nega la prescrizione.

Che cosa è importante per questa paziente? Un medico rigido che obbedisce ai freddi dettami della sua scienza oppure di un curante che, oltre a possedere competenze tecniche, sia anche in grado di farsi carico delle preoccupazioni e del vissuto dei suoi assistiti? È più utile tenere un comportamento formalmente corretto ma poco empatico oppure privilegiare il mantenimento della relazione e considerare anche i timori della paziente e accettare la sua richiesta? Anche se è vero che in un caso simile le linee guida prevedono la prescrizione di un accertamento radiologico solo in presenza di determinate condizioni cliniche che qui non ricorrono va considerato che il rapporto tra un medico di famiglia e un assistito dura a lungo, qualche volta per tutta la vita. Sono state scritte linee guida che valgano per tutta la vita? Non è forse preferibile prescrivere per una volta un esame inutile ma salvare la relazione che altrimenti verrebbe irreversibilmente compromessa?

 

La cura senza giudizio

Questo non significa cedere a tutte le richieste, anche le più immotivate e assurde. In alcuni casi bisognerà essere fermi e difendere le proprie convinzioni. Per esempio se un paziente chiedesse una certificazione falsa non si dovrà mai accondiscendere, anche a costo di rompere la relazione. Di fronte ad alcuni comportamenti manipolatori si dovranno fissare dei paletti oltre i quali non si può andare. Però anche in questi casi ci si dovrà comportare con professionalità, evitando risposte francamente sgarbate che porterebbero ad aggravare ulteriormente il conflitto.

L’incontro tra un medico e il suo paziente in medicina di famiglia è un evento negoziale, per molti versi sconosciuto nella medicina ospedaliera e specialistica.

Tuttavia bisogna considerare che l’incontro tra un medico e il suo paziente in medicina di famiglia è un evento negoziale, per molti versi sconosciuto nella medicina ospedaliera e specialistica. Anche la migliore linea guida rimane lettera morta se non compresa e condivisa.

Ci troviamo, insomma, in una sorta di zona di confine o se si vuole di terra di nessuno dove medico e paziente possono essere in contrasto tra loro, e la pura clinica è costretta a entrare in contatto e contaminarsi con la vita e le sue contraddizioni. Può essere necessario accettare dei compromessi se questo significa essere di aiuto al malato. È necessario esercitare l’empatia, una soft skill essenziale che ci permette di capire meglio e di identificarci con l’altro. Il malato si sentirà compreso e ci permetterà di entrare nel suo mondo interiore.

Ci troviamo in una sorta di zona di confine dove medico e paziente possono essere in contrasto tra loro, e la pura clinica è costretta a entrare in contatto e contaminarsi con la vita e le sue contraddizioni.

L’empatia consente di non esprimere giudizi e di capire punti di vista diversi senza rinunciare ai nostri. Essa, oltre che giovare alla relazione, permette di instaurare un rapporto basato sulla fiducia reciproca, migliora la compliance ai trattamenti e riduce il rischio di ritorsioni medico-legali in caso di errori. Bisogna recuperare questa abilità che era una delle poche armi a disposizione dei medici dei secoli scorsi e che, con il progredire delle conoscenze, si è sempre più persa a favore di un approccio ipertecnologico che tende ad allontanare le persone.