Nel dibattito che si è aperto sullo schema di disegno di legge (ddl) Calderoli per l’attuazione dell’articolo 116 della Costituzione sembra di poter cogliere qualche elemento di sorpresa nella sarabanda di voci esplicitamente contrarie. Tanto da far pensare che, più che essere contrari al ddl in sé, questa occasione venga colta per argomentare a favore di un completo accentramento di funzioni nelle mani dello Stato, tutela della salute inclusa.
L’autonomia differenziata non può però essere una sorpresa: la possibilità di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” è stata espressamente prevista addirittura dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001, poi mai attuata. Anzi, dopo di essa, per certi versi paradossalmente, le riforme finalizzate a rafforzare l’impianto decentrato si sono rapidamente spente nel Paese, anche a dispetto della legge delega 42/2009 a firma dello stesso Calderoli, poi sfociata nei costi e fabbisogni standard previsti dal decreto legislativo 68/2011 per le Regioni, in base al quale ogni anno si individuano le Regioni benchmark per fingere un riparto basato su questi parametri di efficienza.
Ad imprimere una consistente accelerazione al processo sono state tre Regioni – Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna – che, nel 2018, sono arrivate a stipulare con il governo Gentiloni degli schemi di intesa preliminari. In questi schemi, le richieste delle Regioni in tema di tutela della salute si concentravano soprattutto sulla programmazione e gestione del personale, sul sistema tariffario e di rimborso per le prestazioni e sui rapporti con l’Agenzia italiana del farmaco per le decisioni sull’equivalenza terapeutica dei farmaci. La successiva crisi di governo ha portato però le tre Regioni a ulteriori richieste, presentate al nuovo governo Conte I, che tuttavia non sono mai state controfirmate come le precedenti. La manifestazione di interesse da parte di altre Regioni, unitamente all’allargamento delle materie da parte dei front-runner, ha così indotto i governi successivi a scegliere la via dell’accordo quadro per cercare di strutturare la procedura che porta all’intesa. Prima di Calderoli, sull’accordo quadro si sono esercitati sia il ministro Boccia sia la ministra Gelmini.
L’autonomia differenziata non può essere una sorpresa
Cinque punti almeno su cui riflettere
Se si lascia al margine il tifo di parte, sul fronte dell’attuale schema del ddl Calderoli sono possibili diversi commenti generali.
Primo, i tempi delle procedure per arrivare a una intesa sono molto serrati, anche per arrivare alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (abbreviati in Lep), dei costi e dei fabbisogni standard.
Secondo, stupisce la mancanza di prerequisiti per richiedere ulteriore autonomia, così che anche Regioni in piano di rientro possano chiedere di espandere le competenze sul fronte della tutela della salute, materia per la quale quelle stesse Regioni sono oggi in difficoltà con le attuali competenze.
Terzo, sebbene nella relazione illustrativa del ddl venga espressa l’esigenza di coinvolgere il Parlamento in tutte le decisioni più importanti per definire l’autonomia differenziata, l’intesa è di fatto un accordo tra esecutivi.
Quarto, alcune materie che la Costituzione classifica tra quelle a legislazione concorrente (soprattutto quelle di tipo regolamentare) oggi andrebbero discusse a livello di Unione europea, perché da quando è stato riformato il Titolo V proprio all’Unione europea sono state attribuite maggiori competenze (per esempio, in tema di ambiente).
Quinto, e non ultimo, non c’è alcuna chiarezza sul fronte delle modalità di finanziamento, in un momento come questo dove l’autonomia tributaria regionale sta scomparendo, con l’Irap che è in fase di sostanziale smantellamento e l’Irpef (su cui le Regioni impongono un’addizionale) che è diventata solo una tassa sui lavoratori dipendenti e pensionati. Il rischio è che il decentramento si finanzi tutto con trasferimenti e compartecipazioni, cioè separando ulteriormente le responsabilità di spesa da quelle di entrata. Tutti questi temi (e altri) richiederebbero una riflessione adeguata.
Aprire a una ulteriore differenziazione, anche sul fronte delle competenze, porterebbe solo ad aumentare il grado di confusione
In tema di sanità pubblica, anticipare dove possa portare il ddl è esercizio relativamente semplice, anche perché i Lea in sanità (qui chiamati Lep) ci sono da tempo (e, almeno sulla carta, pure i fabbisogni e i costi standard ex decreto legislativo 68/2011). Basta osservare cosa è successo in questi anni: a fronte di un Mef capace di controllare la spesa tramite l’applicazione dei piani di rientro, si è contrapposto un Ministero della salute debole nell’affiancamento alle Regioni in difficoltà per le conseguenze in tema di tutela della salute. Con il risultato che, nonostante la fissazione degli standard a tutti i livelli (finanziamento, spesa, output), le Regioni continuano a esprimere performance differenti. È su queste performance differenti, pur in presenza dei Lep e di tutto il macchinario di standardizzazione, che occorrerebbe concentrare l’attenzione. Aprire a una ulteriore differenziazione, anche sul fronte delle competenze, porterebbe solo ad aumentare il grado di confusione.
Articolo ricevuto l’8 febbraio 2023.