In Mozambico la frequenza con cui si stanno verificando fenomeni atmosferici estremi è in aumento e la causa, secondo i meteorologi, è da imputare all’emergenza climatica. I danni interessano le abitazioni, gli ospedali, ma anche vaste aree di terreno coltivato, distruggendo le sementi e impedendo il raccolto. Questo mette in crisi il Paese compromettendo una già precaria situazione di insicurezza alimentare, come emerge dal racconto di una giovane specializzanda, Elena Mazzalai, tornata da poco dal Mozambico, dove ha lavorato per sei mesi in un progetto di cooperazione di Medici con l’Africa Cuamm, una ong italiana che si occupa di promozione e tutela della salute nei Paesi dell’Africa sub-sahariana.
Ero in un contesto rurale, nella città di Tete, capoluogo dell’omonima provincia, una zona interna del Mozambico, al confine con il Malawi, lo Zambia e lo Zimbabwe, lontano dall’area costiera del Paese, quella maggiormente colpita dai forti cicloni del 2019. Fenomeni che negli ultimi anni si stanno verificando con sempre maggiore frequenza, e questo ha un doppio impatto sulle organizzazioni umanitarie che lavorano in quelle zone: da un lato si aggiunge un’emergenza sanitaria a una situazione già abbastanza disastrosa, dall’altro le attività umanitarie vengono ostacolate – per esempio, in seguito al ciclone Idai, parte dell’ospedale di Beira gestito da Medici con l’Africa Cuamm è stato distrutto.
Nella zona in cui mi trovavo, invece, il problema dei cicloni tropicali e delle inondazioni si è mostrato con una faccia diversa. Poco prima che arrivassi infatti, a fine gennaio, si era abbattuta nelle zone dello Zimbabwe e in Malawi una tempesta tropicale che ha portato nel giro di pochissimo tempo a un aumento vertiginoso del livello dei fiumi e, oltre ad allagare tutta la zona circostante, distruggendo i campi coltivati e le case, ha distrutto anche uno dei pochi ponti che permetteva di collegare la città in cui ero con i distretti limitrofi. La distruzione di questo ponte – sostituito in via emergenziale con una passerella pedonale a distanza di qualche mese – ha compromesso la vita quotidiana di moltissime persone che attraversavano quel fiume per andare a lavorare, per andare a scuola, e anche le nostre attività. Quello che prima richiedeva pochi minuti di tragitto è diventato un percorso di diversi chilometri da fare a piedi per aggirare il fiume (o nel nostro caso, in macchina). Alcuni tentavano di attraversarlo con barche di fortuna, senza saper nuotare o senza avere idea di come si governasse una barca in un fiume. Ricordo che una volta, nell’attesa che si decidesse se e come costruire questa passerella pedonale, una barca con un gruppo di bambini diretti a scuola si è capovolta e nessuno di loro è riuscito a raggiungere la riva opposta. L’arrivo del ciclone e dell’inondazione ha tolto a queste persone tutto ciò che avevano, sono state costrette a spostarsi in massa verso le zone più interne, dove mancava tutto: l’acqua corrente, i servizi igienici, la rete fognaria, una scuola, i trasporti per collegare questo centro sorto dal nulla al resto della città. Vivevano degli aiuti portati dalle ong, da alcuni privati, dalle iniziative delle autorità.
L’arrivo del ciclone e dell’inondazione ha tolto a queste persone tutto ciò che avevano, sono state costrette a spostarsi in massa verso le zone più interne, dove mancava tutto.
Questo è stato il primo impatto che ho potuto osservare della tempesta tropicale, un evento non direttamente riconducibile ai cambiamenti climatici. Ma è innegabile, ed emerge anche in letteratura, come i cicloni, le tempeste tropicali, gli eventi atmosferici estremi sulla costa, e adesso anche nell’entroterra del Mozambico, siano sempre più frequenti di anno in anno. Per inquadrare meglio la portata dell’impatto di questo evento bisogna dire che le città di cui parliamo hanno zone centrali in cui ci sono poche strade asfaltate e altrettanti edifici in cemento, ma tutto il resto è composto da abitazioni di fortuna fatte di mattoni, quando va bene, altrimenti con legno e paglia. La popolazione vive di agricoltura di sussistenza, di economia informale, in abitazioni estremamente precarie, oppure lavora nella miniera di carbone (una delle più grandi al mondo, ndr). Iniziata circa venti anni fa, l’estrazione del carbone ha compromesso non solo l’ambiente circostante – deturpando la vegetazione – ma anche la salute delle persone, per via della polvere che si diffonde durante l’estrazione, che offusca qualsiasi cosa, è tantissima ed è ovunque. Non immagino cosa potremmo aspettarci tra qualche anno, in termini di patologie respiratorie e conseguenze per la salute, dopo che la popolazione ha inalato così tanta polvere e per tutto questo tempo.
A volte ci sentivamo un po’ scoraggiati nel vedere che i bisogni erano talmente grandi che qualsiasi cosa facessimo non sarebbe mai stata risolutiva. Allo stesso tempo però, è meglio fare qualcosa che non fare nulla.
È interessante considerare anche un fatto, che è più un paradosso. Il Mozambico è uno dei Paesi che ha inquinato di meno nella sua storia, essendo agli ultimi posti tra i 190 Paesi al mondo per indice di sviluppo umano. Nonostante questo, è un Paese per cui è riconosciuto, a causa della posizione geografica, un maggior rischio di eventi estremi dovuti al cambiamento climatico. Sulla costa, per esempio, c’è il problema dei cicloni e delle inondazioni ma si presume che con il passare del tempo diventerà la siccità quello principale. La pioggia che deve cadere in un anno cade in due mesi e nel resto del tempo non piove. Di questo ce ne siamo un po’ resi conto anche in Italia negli ultimi mesi, con l’estate appena trascorsa abbiamo capito cosa significa stare senza acqua e non averne per le coltivazioni. Immaginiamo ora cosa significa trovarsi in un posto dove non esiste un’industria agricola, dove le persone vivono interamente coltivando la loro terra, dove non esistono sistemi di welfare, di supporto o d’indennizzo verso chi perde tutto per via di un’inondazione, dove per raggiungere un presidio sanitario occorrono ore. Ecco che la costruzione di una strada o di una rete di trasporti diventerebbe una misura di sanità pubblica. La ong con cui sono partita aveva all’attivo due progetti sul territorio, uno per la vaccinazione contro covid-19 e l’altro per la promozione della salute sessuale e riproduttiva. I bisogni sanitari erano, e sono, molteplici. A volte ci sentivamo un po’ scoraggiati nel vedere che i bisogni erano talmente grandi che qualsiasi cosa facessimo non sarebbe mai stata risolutiva. Allo stesso tempo però, è meglio fare qualcosa che non fare nulla. L’alternativa non è un intervento migliore, l’alternativa è nessun intervento. Quindi anche quel poco che si riesce a portare fa in realtà una piccola ma importante differenza.
A cura di Giada Savini