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Clima Articoli

Crisi climatica, comunicazione, finanza

Fermarsi per mettere a fuoco il problema per poi agire e investire nel futuro

Paolo Vineis

Epidemiologo ambientale, School of public health, Imperial college London

By Dicembre 2022Febbraio 13th, 2023Nessun commento
crisi climatica finanza
Fotografia di Lorenzo De Simone

Il musicista Brian Eno ha dedicato alla crisi planetaria il suo ultimo lavoro, e tra qualche giorno lo presenterà all’Imperial college di Londra, sede del Grantham institute for climate change. La canzone “Who gives a thought” recita: “Chi dedica un pensiero alle lucciole, brevi vite di luce mobile, che eseguono il loro volo quieto, le stelle delle notti senza stelle… o ai vermi microscopici che mai nessuno ha studiato, di nessun valore commerciale?”. L’opera esprime l’impegno ambientale del musicista inglese, ed è volutamente basata su ritmi lenti e riflessivi, quasi un ritorno alle radici della vita. Perché gran parte del problema della crisi planetaria sta proprio nella nostra incapacità di soffermarci: il moderno mondo della comunicazione, così rapido, distratto e superficiale, ci rende estranei alle sorti delle piccole e grandi creature, ci ricorda Eno.

Gran parte del problema della crisi planetaria sta proprio nella nostra incapacità di soffermarci.

A una comunicazione confusa e polarizzata – largamente a causa del ruolo svolto dai nuovi media [1] – si accompagna un difficilissimo rapporto tra scienza, società civile e politica; alla frammentarietà e velocità del convulso mondo della comunicazione si accompagna la stazionarietà e lentezza del mondo della politica. A chi dobbiamo affidarci? Anche se c’è una lunga e salutare tradizione di presa di distanza della scienza dall’impegno politico diretto (salutare nel senso che dallo scienziato ci si attende che indaghi la natura senza essere influenzato dalle sue preferenze ideologiche), il cambiamento climatico mette in discussione una netta separazione tra scienza e advocacy. È innegabile che senza i movimenti giovanili, per esempio, quella degli scienziati sarebbe “vox clamantis in deserto”. Ma vorrei anche sostenere che – se non possiamo riporre grandi speranze nei politici – è legittimo e utile che guardiamo al mondo delle imprese e della finanza. Addirittura, ignorare il mondo delle imprese e in particolare la finanza rischia di essere un gravissimo scotoma in chi si occupa di clima. Le imprese producono gran parte del reddito, ma sono anche responsabili di gran parte dell’inquinamento e dei gas serra. Sono responsabili delle maggiori attività di lobbying nei confronti dei politici. Sul versante della finanza sono coinvolte in quella “grande accelerazione” che caratterizza il capitalismo contemporaneo, cioè un’accentuata rapidità della circolazione di denaro, merci e persone (con tutte le implicazioni distruttive per l’ambiente), e una sostanziale volatilità e instabilità del sistema economico, che tocca tutte le persone.

Ignorare il mondo delle imprese e in particolare la finanza rischia di essere un gravissimo scotoma in chi si occupa di clima.

Sono stati fatti tentativi di porre un limite a queste tendenze intrinseche, per esempio attraverso il rating Esg dei fondi di investimento. Esg sta per “Environment, social and governance”, è una sigla cioè che induce le imprese a essere responsabili verso l’ambiente e la società e a occuparsi di governance, cioè delle conseguenze a valle (le diseconomie) delle proprie attività. Ma i rating Esg sono del tutto inattendibili, anche secondo le fonti più conservatrici: l’Economist ha dedicato a essi un numero speciale [2] (significativamente intitolato “C’è bisogno di pulizia”), in cui tutti i fallimenti degli Esg vengono impietosamente elencati e sono sostanzialmente riassumibili nel termine “greenwashing”. I rating Esg hanno avuto un enorme successo sul mercato finanziario: tra il 2015 e il 2019 è aumentato del 500 per cento il patrimonio delle imprese che hanno ricevuto una certificazione Esg. Ma gli Esg hanno enormi limiti: non è chiaro su quali informazioni si basano; i rating vengono assegnati da una molteplicità di ditte che usano criteri diversi e metodi non paragonabili; sono riferiti al presente e non al futuro (cioè non agli investimenti che le imprese fanno per migliorare le loro performance ambientali e sociali).

Se vogliamo incidere sul cambiamento climatico non possiamo ignorare questi fenomeni. L’efficacia degli Esg deriva da un ethos modesto (a dir poco) del mondo della finanza, ma anche dalla grande velocità e volatilità degli investimenti di capitale. Per questo sono in studio nuove modalità di valutazione dei fondi di investimento, come il long-term stock exchange, la messa a punto di meccanismi che misurano il successo non in termini di giorni, ore o minuti, ma di anni, e che si basano su una supervisione sul lungo periodo.

Non è chiaro se il capitalismo sopravviverà a sé stesso, ma in assenza di un’alternativa credibile è doveroso prestare attenzione a quelle forze che cercano di riformarlo dal suo interno.

Non è chiaro se il capitalismo sopravviverà a sé stesso, ma in assenza di un’alternativa credibile è doveroso prestare attenzione a quelle forze che cercano di riformarlo dal suo interno, come le B-Corp, le imprese che nel loro statuto hanno clausole che prevedono di non mettere il profitto al di sopra dell’attenzione all’ambiente e alle persone (è già qualcosa). E più in generale a quel vasto mondo di imprese grandi e piccole che hanno iniziato a capire che virare verso la transizione ecologica può essere il migliore investimento per il futuro.

Bibliografia
[1] Fisher M. The chaos machine. London: Quercus, 2022.
[2] In need of a clean-up. The Economist, 23-29 luglio 2022.