Il piccolo ma denso libro di Tomaso Montanari descrive i molti modi attraverso i quali il patrimonio storico e culturale – di cui le chiese sono simbolo – viene negato ai cittadini: abbandono, incuria, chiusura, trasformazione in spazi commerciali. Le antiche chiese italiane – scrive Montanari – “chiedono il cambiamento radicale dei nostri pensieri, delle nostre scale di valori, delle nostre sicurezze. Con il loro silenzio secolare, offrono una pausa al nostro caos. Con la loro gratuità, contestano la nostra fede nel mercato. Con la loro apertura a tutti, contraddicono la nostra paura delle diversità. Con la loro dimensione collettiva, mettono in crisi il nostro egoismo. Con il loro essere, quintessenzialmente, luoghi pubblici sventano la privatizzazione di ogni momento della nostra vita individuale e sociale. Con la loro presenza ostinata, interrogano la nostra inquieta assenza. Con la loro viva compresenza dei tempi, smascherano la dittatura del presente. Con la loro povertà, con il loro abbandono, testimoniano contro la religione del successo”.
La negazione e la privatizzazione delle chiese ci ha fatto pensare al processo simile che rende inaccessibile buona parte dei dati della ricerca. Come scrive Montanari, “un bene culturale che non si può conoscere vede danneggiata, fino all’annichilimento, la sua funzione di produzione di conoscenze e di sviluppo della cultura”.
Un bene pubblico o è accessibile da parte di tutti, materialmente e cognitivamente, o non è pubblico.
Quando è stato imboccato a suo avviso quel “bivio avvelenato tra rovina materiale e rovina morale” che sta minando il patrimonio culturale italiano?
È successo alla metà degli anni Ottanta. Nel 1985, il Partito comunista organizza a Firenze un convegno sulla valorizzazione del patrimonio culturale. In quell’occasione, l’allora ministro del lavoro del governo Craxi, Gianni de Michelis, disse che si sarebbe potuto trovare del denaro per la tutela del patrimonio solo in quanto funzionale al ricavo di altro denaro. Era la valorizzazione. Giovanni Previtali, storico dell’arte e comunista che era presente, scrisse che quel giorno partiva il treno della mercificazione del patrimonio culturale. Aveva ragione.
“La conoscenza è il valore chiave”, lei ha scritto in un commento all’art. 9 della Costituzione italiana: perché un bene pubblico deve mantenersi visibile, accessibile, aperto?
Un bene pubblico o è accessibile da parte di tutti, materialmente e cognitivamente, o non è pubblico. La chiusura di un bene culturale non è compatibile con il suo statuto di bene culturale. Solo attraverso la conoscenza il patrimonio culturale esercita la sua funzione, che è quella di creare cittadinanza elementare e la democrazia. Così almeno dice la nostra Costituzione.
Ora il lavoro da fare è culturale, bisogna cambiare la mentalità e il senso comune. È un compito di lungo periodo, ma non vedo alternative.
Come avviene troppo spesso per i dati della ricerca, la cultura viene “messa a reddito”: è possibile sfuggire a questa logica di mercato? Oppure dobbiamo essere pessimisti?
Sarei pessimista almeno nel breve periodo. Solo la voce del Papa si leva contro l’economia neoliberale e i suoi dogmi. Per quanto riguarda la politica culturale, da un punto di vista economico i programmi elettorali del Partito democratico e di Fratelli d’Italia sono sostanzialmente coincidenti. Le poche forze che hanno l’idea alternativa, come Unione popolare, sono ben lontane da poterlo realizzare. Ora il lavoro da fare è culturale, bisogna cambiare la mentalità e il senso comune. È un compito di lungo periodo, ma non vedo alternative.
A cura di Luca De Fiore