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Invisibili Interviste

Pandemia e vaccini. Regole e coesione

Guardare finalmente in faccia alla realtà globale

Intervista a Bruce Aylward

Medico epidemiologo - Senior advisor del Direttore generale dell’Oms - Responsabile del programma Act Accelerator

By Ottobre 2022Febbraio 13th, 2023Nessun commento
Fotografia di Claudio Colotti

Covid-19 ha mostrato che una pandemia a livello mondiale non può essere affrontata solo con azioni locali. È d’accordo?

Per contrastare una pandemia c’è bisogno di entrambe le risposte, altrimenti nessuna delle due avrà successo. La ragione è che una pandemia è un weakest-link problem (un anello debole), il che significa che non si può risolvere se non si risolve ovunque. Da un lato c’è bisogno di una risposta globale – per il coordinamento internazionale, la sorveglianza, la condivisione di informazioni, la gestione delle contromisure – ma allo stesso tempo ogni risposta è locale, perché è necessario pensare alle caratteristiche dei singoli Paesi. Una delle sfide più grandi è far sì che le risposte globali e locali operino insieme. Spesso c’è una disconnessione tra quello che sta accadendo a livello globale e quello invece a livello locale: l’interfaccia tra i due elementi è uno degli aspetti più difficili da gestire in una pandemia. Parte della sfida è che esistono moltissimi livelli intermedi che devono dialogare tra quello globale e quello locale: regionale, nazionale, provinciale, municipale.

Durante questi anni di pandemia ogni Paese è andato per la sua strada. Come fare invece per implementare una politica sanitaria globale?

Se solo lo sapessimo! Bisogna però premettere che non è del tutto vero che ogni Paese è andato per la sua strada. Quello che è accaduto è che alcuni blocchi di Paesi sono andati per la propria strada: l’Europa ha operato in modo da tutelare l’Europa e così l’Africa e alcune parti dell’Asia o del Sudamerica. Penso che questo aspetto sia molto importante da considerare se guardiamo al futuro e a quella che dovrebbe essere la soluzione giusta. Perché tutti parlano di una soluzione globale ma, nella realtà, le soluzioni globali sono molto difficili da implementare. Dunque, di cosa avremo bisogno in futuro?
Per prima cosa servono delle regole, delle indicazioni su come il mondo opera nel corso di una pandemia. Oggi la gente dimentica che non esiste una regola. È vero, ci sono le International health regulations (Ihr) il cui scopo è quello di minimizzare il rischio per viaggi e commerci e quindi è di fatto uno strumento di difesa, ma non è ciò di cui abbiamo bisogno per combattere una pandemia. Piuttosto può essere utile per gestire il rischio di una pandemia. Quello di cui abbiamo bisogno è uno strumento complementare all’Ihr. Ecco perché Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), parla spesso della necessità di trattati internazionali il cui scopo sarebbe quello di mettere in atto, davvero, regole per la condivisione delle informazioni su sorveglianza, dati, conoscenze, contromisure. Tutto sta nella condivisione e nell’equa distribuzione dei beni mentre si va avanti.
La seconda cosa che serve per far rispettare le regole – perché è utile avere delle regole ma poi serve farle rispettare – è un’Oms più forte o un’entità che sia in grado di amministrare un trattato o uno strumento come quello. Altrimenti non funzionerà. E quell’entità o quel trattato dovrà essere rafforzato affinché diventi in grado di esercitare una funzione cruciale nell’ambito della sorveglianza, della condivisione di informazioni e contromisure.
La terza cosa di cui c’è bisogno sono i finanziamenti. Durante la mia carriera ho messo in piedi la risposta a ebola, poi a zika, poi alla febbre gialla, e ora mi sono occupato della risposta a covid-19. Nella definizione di ciascuno di questi interventi il problema maggiore è stato il finanziamento iniziale utile ad assicurarsi molto rapidamente una capacità di risposta globale: sia per quanto riguarda la sorveglianza sia per favorire la ricerca, l’espansione della produzione e la condivisione degli strumenti. Dunque, per ricapitolare: servono delle regole, un meccanismo per implementarle e livelli molto diversi di finanziamento.

Tutti parlano di una soluzione globale ma, nella realtà, le soluzioni globali sono molto difficili da implementare.

Una strategia globale per combattere la pandemia deve includere un piano per proteggere anche i Paesi a basso reddito. Non solo per le vaccinazioni, ma anche per quanto riguarda il distanziamento sociale, l’igiene, i dispositivi di protezione individuale. Per molti Paesi, però, a causa del sovraffollamento, dei problemi abitativi, del lavoro, ciò non è possibile. Come fare?

Innanzitutto, credo che uno degli errori sia stato aver reso la vaccinazione la preoccupazione principale, parlandone come se fosse l’unica cosa che ci avrebbe potuto far uscire dalla pandemia. Quello che intenzionalmente abbiamo messo in piedi per i vaccini, andava fatto anche per gli strumenti diagnostici, le terapie, i dispositivi di protezione individuale e molto altro. Pensando alle pandemie del futuro una delle prime cose che dobbiamo tenere a mente è che in guerra si va con tutte le armi necessarie, non solo con una. Per non perdere la fiducia della popolazione la prima cosa su cui si deve insistere sono le misure sociali di salute pubblica, come l’igiene delle mani e il distanziamento sociale, ma anche, collegati a questo, le misure di isolamento, la quarantena e il contact tracing. Dobbiamo, però, sfatare un mito: molti Paesi in via di sviluppo hanno fatto molto meglio dell’Occidente, in termini di individuazione dei casi, isolamento e quarantena, perché avevano una storia che li ha aiutati e una coesione sociale migliore, che rende molto più facile implementare queste misure. Piuttosto si ritorna di nuovo al problema dei finanziamenti: spesso semplicemente non hanno i soldi per mettere in piedi le più basilari misure di salute pubblica. Ma, penso ad esempio alla risposta a ebola nell’Africa occidentale in Guinea, Sierra Leone e Liberia; questi tre Paesi sono tra i peggiori cinque in termini di sviluppo, tre tra i Paesi più poveri al mondo: la pratica del lavaggio nelle mani, in quei due anni e mezzo in cui ho lavorato lì, era migliore rispetto a tutti i Paesi occidentali durante covid-19.

Se poi pensiamo a quali Paesi hanno avuto i maggiori problemi a implementare l’isolamento o il tracciamento, bisognerebbe dare a loro la priorità nella vaccinazione. Invece abbiamo fatto esattamente l’opposto. Ricordiamoci che una distribuzione equa, come l’equità dei vaccini, è diversa da una distribuzione uguale: uguale significa che ognuno ottiene la stessa quantità, equo significa che la quantità va dove ci sono persone che ne hanno bisogno. E questo calcolo si può basare su rischi, vulnerabilità, epidemiologia. Se avessimo guardato a questi fattori avremmo avuto una distribuzione completamente diversa delle contromisure rispetto a quello che abbiamo visto. Quindi di nuovo: questo non succederà mai senza un diverso set di regole, una combinazione di istituzioni multilaterali a livello regionale e globale e finanziamenti. È una sfida veramente grande ma una parte è riconducibile a un’equa distribuzione.

Dobbiamo sfatare un mito: molti Paesi in via di sviluppo hanno fatto molto meglio dell’Occidente perché avevano una storia che li ha aiutati e una coesione sociale migliore.

Fonte: Openpolis su elaborazioni dati Oms aggiornati al 21 febbraio 2022.

Serve uguaglianza anche per quanto riguarda le vaccinazioni. Come nasce il programma Covax?

Ho guidato il team che è andato in Cina nelle primissime fasi dell’epidemia per capire cosa stava succedendo e la gravità della malattia. Era molto chiaro, nelle tre settimane che abbiamo passato in Cina, che avremmo avuto bisogno di più test, trattamenti, strumenti per la diagnosi, vaccini. Gli obiettivi generali erano due: accelerare lo sviluppo di contromisure e mettere in piedi meccanismi utili a garantire un’equa distribuzione delle contromisure. Sono stati individuati quattro filoni: diagnostica, trattamenti, vaccini e il quarto che chiamiamo health systems and response connector per assicurarci che questi strumenti siano connessi alla risposta. Siamo partiti dal presupposto che nel mondo non c’erano organizzazioni centrate su covid-19 o sui vaccini, ma c’era Cepi per la ricerca e sviluppo, Gavi per l’approvvigionamento, Unicef e Oms che si occupano della distribuzione, Unitaid per i trattamenti. Quindi quello che abbiamo fatto è stato formare una coalizione, chiamata Act Accelerator, con dieci agenzie molto diverse tra loro. Parallelamente abbiamo creato anche un altro elemento, chiamato Access and allocation stream, gestito dall’Oms. L’obiettivo era quello di mettere in piedi una cornice per condividere in modo equo tutti questi strumenti.

Al suo interno c’è il programma Covax, specifico sui vaccini, composto da tre parti: la prima riguarda la ricerca, la seconda è dedicata all’approvvigionamento e all’acquisto dei vaccini e la terza è la consegna finalizzata a far arrivare i vaccini a destinazione. Il problema è che Covax non produceva vaccini e sapevamo che i Paesi più ricchi avrebbero potuto tenerli per loro perché da anni c’è lo stesso problema con l’hiv e c’è stato con h1n1. Per questo l’idea per Covax è stata quella di non progettare il programma per i Paesi poveri ma per tutti i Paesi del mondo e ben 192 Paesi hanno aderito. Il motivo probabilmente è che, quando abbiamo sviluppato Covax, i vaccini non esistevano, quindi l’idea era: se aderisco a Covax avrò un bagaglio di vaccini maggiore di quello che posso ottenere individualmente. Proprio all’inizio, però, è emerso un problema: gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione di Donald Trump, hanno deciso che non avrebbero aderito e che avrebbero prodotto un loro vaccino e di conseguenza l’Unione europea ha deciso di competere con loro a causa delle pressioni politiche. L’Unione europea, insieme al Regno Unito, è diventato il vero problema di Covax perché ha deciso di aderire a Covax, ma con la possibilità di stipulare allo stesso tempo accordi bilaterali. In questo modo si è creata una differenza, tra Paesi che avevano accordi al di fuori e all’interno del programma e Paesi che avevano accordi solo all’interno. Ovviamente appena hanno saputo quali vaccini funzionavano hanno acquistato milioni di dosi di quei vaccini spingendo i produttori a rifornire il mercato dei Paesi ricchi.
L’idea iniziale di Covax era fantastica e molte operazioni portate avanti sono state anch’esse fantastiche. Alla fine, però, il vero problema è con i produttori dei vaccini che hanno deciso dove sarebbero andati i vaccini, quando era importante vaccinare tutto il mondo. Viviamo in un mondo interconnesso da un punto di vista sociale, economico e di rischi/benefici legati alla salute. Quindi vaccinare ovunque non vuol dire solo fare la cosa giusta, ma è l’unico modo per riemergere economicamente dalla pandemia ed è anche l’unico modo per gestire i rischi di un virus in costante evoluzione. Ci saranno sempre nuove varianti che emergeranno se non si vaccina ovunque. Spesso la gente dimentica che anche se tutta la popolazione dei Paesi ad alto reddito viene vaccinata bisognerà continuare a vaccinarla perché stanno emergendo nuove varianti. Ricordiamoci da dove vengono: la variante beta è arrivata dal Sudafrica, la gamma dall’America Latina, la delta dall’India. E poi omicron. Questo virus ci ha detto, non una volta ma cinque, che dobbiamo vaccinare ovunque. E non lo stiamo ancora facendo. È incredibile!

Una distribuzione equa è diversa da una distribuzione uguale. Uguale significa che ognuno ottiene la stessa quantità, equo significa che la quantità va dove ci sono persone che ne hanno bisogno.

Come bilanciare tra la necessità di garantire il vaccino a tutti e quella di proteggere le persone più fragili?

Alla fine si tratta di valori condivisi a livello globale. Anche in questo caso, c’è bisogno di trattati internazionali, di un meccanismo di allocazione con il controllo della produzione e di finanziamenti sufficienti per poter distribuire equamente i prodotti. Ma quello di cui si ha veramente bisogno è una leadership politica estremamente forte. Durante questa pandemia è mancata una figura come Winston Churchill, un leader politico con una combinazione di valori e convinzioni personali tali da prendere le decisioni difficili. E Churchill era anche un comunicatore fantastico, riusciva a comunicare con la popolazione. In questo momento storico avremmo bisogno di un paio di leader così, in grado di dire che per far ripartire l’economia globale e le nostre società dobbiamo vaccinare le persone più anziane e gli operatori sanitari in tutto il mondo. Due dosi, tre dosi, in tutti i Paesi. È vero che si tratta di decisioni politiche molto difficili e che i leader politici vengono eletti per prendersi cura dei cittadini che li eleggono e non di tutto il mondo, ma dovrebbero essere in grado di spiegare che si vaccina tutto il mondo anche per proteggere noi stessi. Churchill ha dovuto spiegare ai cittadini inglesi che per proteggere l’Inghilterra dovevano andare a combattere in Francia, in Europa. E la gente lo ha appoggiato.

A cura di Rebecca De Fiore