C’è una Sicilia luminosa, solare, piena di colori. Barocca nello stile architettonico e nella ricchezza delle ricette di gastronomia. Esagerata nella luce e nelle parole che la storia ha costruito a strati: l’Etna è il Mongibello che tiene insieme il mons latino e il gebel arabo e il capo della barca di tonnara è il capurráisi, una parola in cui convivono il comandante italiano e, di nuovo, il rais arabo. Esiste anche una Sicilia più asciutta, secca e avara di parole: terra e persone fotografate in bianco e nero da Letizia Battaglia o Ferdinando Scianna. Tra queste due Sicilie si muovono i personaggi dei libri di Cristina Cassar Scalia, siciliana di Noto che vive e lavora come medico oftalmologo ad Aci Castello, a un passo da Catania. I suoi libri raccontano la città come se fosse perennemente bloccata da un traffico infernale, ma capace di concedere a ogni angolo prelibatezze d’ogni genere. E umanità quanta ne vuoi, che in parte si offre e in parte chiede di essere svelata.
Il parallelo tra il lavoro del medico e quello del detective è cosa nota. Entrambi devono tenere in considerazione la raccolta delle prove e l’esperienza: quanto contano le une e quanto l’altra nella soluzione di un caso?
Credo anch’io che ci sia una somiglianza tra il lavoro del medico e quello dell’investigatore. Infatti il lavoro di entrambi ha bisogno di indizi che nel lavoro del medico derivano dall’anamnesi – che costituisce sempre la base della diagnosi – mentre nel caso della polizia moderna le prove sono sempre più portate dalla tecnologia. Ma qualcosa di simile sta avvenendo oggi anche in medicina: sempre più spesso si ricorre a evidenze tratte da esami strumentali e dalla tecnologia. Si inserisce a questo punto l’importanza del ragionamento, per il quale la protagonista dei miei libri – il vicequestore Vanina Guarrasi – si avvale anche dell’aiuto del commissario Patané, un commissario in pensione di 83 anni che torna a indagare accanto a una collega giovane cresciuta nella Polizia moderna. Comunque anche Vanina tende sempre a ragionare sulle cose, non fidandosi ciecamente di quel che le viene dato dalle indagini della Scientifica. Alla fine però questo è anche quello che – per essere medici a tutto tondo – si dovrebbe saper fare: ragionare su quello che arriva dalle indagini strumentali.
C’è una somiglianza tra il lavoro del medico e quello dell’investigatore. Il lavoro di entrambi ha bisogno di indizi.
In uno dei suoi libri, lei parla esplicitamente dell’importanza “di un invisibile lavoro di squadra”: la figura carismatica e solitaria del detective non può prescindere dal supporto di tante altre persone che lavorano in modo silenzioso. Anche questo è un elemento in comune tra il clinico e l’investigatore?
La letteratura è piena di detective che sembrano lavorare da soli, ma una situazione di questo genere non è realistica. L’ho capito immediatamente quando ho cominciato a frequentare le squadre di Polizia di Catania e Palermo. Essendomi documentata anche solo su quelli che sono gli aspetti essenziali del metodo investigativo, ho voluto fare di Vanina una vera funzionaria di Polizia che non può sicuramente fare a meno di un lavoro di squadra. Poi, è evidente che Vanina possa avere delle intuizioni o dare un indirizzo alle indagini, ma nessuno dei casi raccontati nei miei libri potrebbe mai essere risolto senza il lavoro di tutta la squadra. Con, ovviamente, il contributo del commissario Patané.
C’è senz’altro un parallelismo anche nell’essere parte di una squadra al lavoro.
Ma anche il commissario Maigret, a ben vedere, di certo non faceva tutto da solo: penso agli ispettori Lucas, Torrence, Janvier, Lapointe o al dottor Moers, responsabile della parte scientifica. Senza quei poliziotti non avrebbe potuto risolvere mai nulla. La stessa cosa si può dire di un chirurgo che, da solo, non potrebbe operare nessuno. Quindi, c’è senz’altro un parallelismo anche nell’essere parte di una squadra al lavoro. Viene sempre posto l’accento sul capo ma ci tenevo che nei miei libri emergesse proprio il lavoro di una squadra.
Nelle sue storie ricorre la distinzione tra chi si occupa di reati di stampo mafioso e criminalità comune. Possiamo riconoscere però anche nel lavoro della squadra di Vanina Guarrasi una componente etica nella volontà di proteggere il bene comune e la convivenza civile?
È una cosa che faccio dire spesso a Vanina, soprattutto quando il suo capo le dice “sei sprecata là dove sei…”. È vero che lei avrebbe molte competenze per essere utile nella lotta alla criminalità organizzata – cosa che lei volontariamente non vuole fare – ma questo non vuol dire che i reati di cui si deve occupare il vicequestore Guarrasi non siano altrettanto importanti. Spesso può essere anche più complicato svolgere indagini che riguardano la criminalità comune. Infatti, anche nei casi più complicati che riguardano la criminalità organizzata – come quello del latitante la cui ricerca Vanina continua in qualche modo a seguire da lontano – ci sono dei meccanismi in certa misura conosciuti.
A ben guardare, un criminale ha sempre mille motivi per essere ucciso. Invece, quando Vanina si trova davanti – come lei dice – “un morto ammazzato”, una persona comune che davvero non si capisce come mai sia stata uccisa, è davvero molto più complesso ricostruire quale sia “la crepa” dove si è andato a insinuare il lato oscuro di quella persona. Risolvere il caso richiede un ragionamento molto più raffinato e, per tornare alla domanda, quello della criminalità comune è un ambito che ha ugualmente una grande importanza.
Risolvere un caso di criminalità comune richiede un ragionamento molto più raffinato.
La capacità di osservare – soprattutto quel che si nasconde nelle “crepe e nelle opacità della vita quotidiana” – è una dote essenziale del medico e del detective. La sua specializzazione in Oftalmologia c’entra qualcosa nella passione per la scrittura poliziesca?
Ma no! Credo che l’importanza dell’osservazione riguardi tutta la medicina. Tutti i medici sono molto attenti ai particolari perché sono questi che ti danno una mano per capire cosa può avere il paziente che hai davanti.
Parlando di medicina narrativa si fa riferimento quasi esclusivamente alle storie dei malati. I suoi romanzi, invece, ci offrono l’opportunità di vedere da vicino la vita di medici: dall’anatomo-patologo Adriano Calì al pediatra Manfredi Monterreale, dall’anziano chirurgo Federico Calderaro ad altri personaggi che attraversano più rapidamente le pagine dei libri da lei scritti. Raccontati nelle loro passioni, inquietudini, incertezze e debolezze: sembra un buon modo per rinforzare la fiducia nei medici e nel sistema sanitario, non crede?
Sì, spero che raccontare storie che coinvolgono anche dei medici possa contribuire a umanizzare la figura di questi professionisti. Penso per esempio al pediatra Monterreale costantemente inseguito dalle telefonate dei genitori dei bambini, o a Calderaro che sente il peso di situazioni comuni a tanti colleghi che sono oggetto di denunce strumentali, quasi finendo per desiderare di non lavorare più. È vero, insomma: raccontare l’umanità del medico può essere utile e mi riesce abbastanza facile perché è un mondo che conosco bene.
Ricostruire i trascorsi delle vittime, mi serve per raccontare la storia del nostro passato recente.
Ricostruire i trascorsi delle vittime, invece, mi serve per raccontare la storia del nostro passato recente. Penso ad alcune cose di cui ho parlato in alcuni dei miei libri: la chiusura delle case di tolleranza o lo smembramento del quartiere cosiddetto “a luci rosse” di San Berillo a Catania a partire dalla fine degli anni Cinquanta, un quartiere popolare molto grande. Nel libro “L’uomo del porto” ho raccontato l’avvento disastroso dell’eroina e del mercato della droga nel mondo giovanile. Uso questo escamotage nei miei libri per ricostruire la storia recente e, in modo particolare, per ricordare la storia della mafia siciliana, che ha provocato la morte di tantissimi poliziotti e magistrati. Ho voluto che facesse parte del passato della protagonista dei miei libri proprio per aprire una finestra su quel periodo storico. Credo che l’umanità del personaggio inserita in un determinato contesto storico possa garantire un valore aggiunto all’insieme della narrazione.
A cura di Luca De Fiore