È solo negli ultimi cinquant’anni – con la rivoluzione psichiatrica di Franco Basaglia – che i bisogni e i diritti delle persone con gravi disturbi mentali sono diventati più visibili. Anche per effetto di questa crescente consapevolezza, le persone con sofferenza mentale e le loro famiglie hanno cominciato a formare delle organizzazioni per far sentire la propria voce, per difendere i propri interessi e promuovere diritti, per ridurre lo stigma e la discriminazione nei loro confronti. Ma non finisce qui. I motivi per cui è importante dare voce a chi vive l’esperienza della sofferenza mentale sono diversi. Le loro testimonianze, infatti, possono essere utili per ripensare servizi più accoglienti, per formulare percorsi di cura centrati sulla persona, per capire come stare accanto a chi sta vivendo un momento difficile di sofferenza mentale.
“Per riuscire a uscirne ci vuole un’équipe di operatori. Ci vuole un programma da costruire giorno per giorno con il paziente tramite un rapporto di fiducia. Ci vuole un programma per la singola persona, perché non siamo tutti uguali. Il servizio dove sono stato seguito è molto concentrato sulla persona e sui suoi obiettivi. Quando c’è un problema lo si può discutere insieme, parlando. Ogni mercoledì si fa una riunione in cui si ottengono risultati. I pazienti si aprono, ma ci vuole una persona in gamba che fa le domande, che capisce le emozioni che i pazienti esternano, che capisce il malessere che ognuno ha dentro. Credo sia molto utile far uscire le proprie emozioni, ma è anche molto difficile perché le emozioni fanno parte della nostra vita e della nostra anima. Ci vuole un servizio che non ti isoli, perché si tende a isolarsi quando non si capisce cosa ti sta capitando. Ci vuole un servizio che ti fa sentire protetto. Se io oggi ho dei problemi cerco di risolverli da solo, ma se ho dei problemi per cui mi torna in mente il suicidio o il taglio sul braccio ho sempre una porta aperta qui. So che qui è un rifugio per me, un posto dove posso avere protezione. Ecco, protezione è una parola importante. Il servizio deve proteggere il paziente, proteggerlo dagli urti di questa società ormai in decadenza. Per me il centro diurno è come un’oasi, un posto sicuro protetto dove posso stare, dove posso meditare sui miei cambiamenti. Perché poi il percorso si fa piano piano, mattone dopo mattone, giorno dopo giorno. […] Perché tutto questo possa accadere, però, un servizio va tutelato. Quando vengono fatti dei tagli i pazienti ne risentono veramente. E questa è una cosa grave perché noi non siamo solo numeri. Tagliare significa rompere l’equilibrio di un sistema rischiando che il paziente non si trovi più in quella situazione di protezione, ma in balia di una società dove c’è un pregiudizio severo. Una persona che ha una spiccata sensibilità è considerata disuguale dalla società di oggi. È una battaglia continua, finché ti rendi conto che la cosa più bella che ti possa accadere è riuscire a non vedere più il pregiudizio della gente e vedere solo te stesso. Ti vedi in uno specchio e pensi che bella persona che sei diventato” – Raffaele
“Il mio obiettivo è far capire che ce la si può fare non solo guardando gli aspetti positivi della vita, che è importante rivendicare quei diritti che ti fanno sentire un essere umano: il lavoro, che dà una dignità sociale di fronte al mondo; la famiglia, che riempie il cuore; gli amici, che sono il supporto. Questo è il messaggio che vorrei portare nel lavoro che faccio. Ho iniziato a lavorare come facilitatrice con i giovani, provando a valorizzare proprio l’aspetto sociale. Penso che i facilitatori possano essere utili anche in altri aspetti all’interno dei servizi. Ad esempio, io sono una persona che sa affrontare le emergenze, è come se in quei momenti i miei sensi fossero acuiti al massimo. Quando si è in uno stato di alterazione massima è come se non si riuscisse a considerare il contesto in cui ci si trova. Vedendo tale stato di confusione è chiaro che l’unica via sembra quella della contenzione. Si pensa: prima fermo la trottola e poi mi rendo conto di come funziona. È proprio in quel momento, invece, che secondo me l’esperto per esperienza può fare la differenza perché ha lo stesso codice comunicativo. Io quando una persona sente una voce vedo proprio il colore della pelle cambiare, vedo gli occhi con uno sguardo diverso. Queste cose qui non sempre i medici riescono a vederle, mentre noi abbiamo una base di sofferenza che ci mette in comunicazione con l’altro. Poi ogni momento ha la sua specificità, non sono cose che programmi prima. Una volta, durante la crisi di una ragazza, mi è venuto in mente di non toccarla ma di darle una coperta per coprirsi. Ha funzionato, credo perché la coperta voleva dire accudimento, era un modo per contenerla con qualcosa di morbido, e forse ha messo in moto anche altri sensi, tipo sentire l’odore profumato che aveva. Essendo un momento di emergenza agisci di istinto ed è proprio qui il nostro valore aggiunto. Credo sia importante dare a noi utenti la possibilità di fornire una prospettiva diversa” – Federica
“Quando una persona che non sta bene arriva in un centro deve trovare delle persone che la ascoltino. È importante fare in modo che la persona non se ne vada, l’accoglienza è fondamentale. Per me, però, non è stato così. La cura non era ancora chiara, si andava a tentativi. Quando entravo nelle cliniche mi imbottivano di farmaci. In quel periodo ho potuto vedere la sofferenza delle persone ricoverate, ma anche la cattiveria dei dottori. La maggior parte erano primari. Camminavano tra noi con totale indifferenza, si capiva dallo sguardo. Sono stato legato a un letto, picchiato. Cosa ho fatto per meritarmi questo? Dove sono capitato? Credo che questi posti vadano chiusi. La salute mentale non deve esistere negli ospedali. Bisogna puntare sui centri diurni e sulle comunità di massimo 8-10 persone. Se vogliamo che i giovani risolvano i loro problemi di salute mentale rapidamente non dobbiamo mandarli in quelle strutture, è solo un modo per allungare la loro sofferenza. È una cosa che stravolge una famiglia. Anche i ricoveri forzati non funzionano. In quel caso la persona non si appartiene. Nella testa c’è la voglia di fare qualcosa, ma c’è allo stesso tempo un impedimento fisico e mentale. Per fortuna, però, ho conosciuto anche un dottore molto bravo in ospedale. Un giorno mi ha detto: “Puoi prendere in giro tutti, ma non me. Tu devi uscire di qui e farti la tua vita perché non sei pazzo”. Da quel momento sono stato ricoverato circa due mesi, ma poi sono uscito e non sono più entrato. In questo senso i dottori mi hanno aiutato, ma ne servono di particolari” – Rocco
“Un aspetto che mi ha colpito è stato essere seguita sia da uno psichiatra sia da uno psicologo. Credo che questo sia un punto centrale: le loro competenze si completano e riescono ad aiutarti nel modo migliore. Lo psichiatra ti dà i farmaci, trova i punti strategici su cui intervenire, ma poi è lo psicologo che ti aiuta a capirli e a risolverli. È importante che le due figure si parlino tra loro, si scambino le informazioni giuste, ne parlino con te. Credo che l’obiettivo di un servizio sia proprio questo: capire i bisogni della persona e aiutarla. Il mio centro funziona tantissimo perché c’è affiatamento tra operatrici, infermieri e dottori. Questa collaborazione aiuta molto, soprattutto i giovani, perché la persona si ricorda di essere stata aiutata con un certo affetto a uscire dalla crisi. Stando insieme a coloro con cui condividi il malessere che ti porta la malattia, anche se per ognuno in modo diverso, ho notato che le persone vanno via ma poi ritornano quando iniziano ad avere i primi segni di inquietudine. Il fatto di sentirsi a casa favorisce la relazione. Ti è permesso di vivere momenti brutti insieme ad altri che usano la propria sensibilità per comprendere la vita di ognuno, anche le altre persone che stanno male partecipano alla cura. Io mi sono sentita diversa, negli ospedali sei sempre una delle tante che curano, qui si ha la propria libertà ed essere liberi fa sì che se ne esca bene, con uno spirito diverso di fronte alla vita. Io sono entrata qui che ero malata, loro mi hanno fatta tornare in vita” – Elisa
“Stare in ospedale di solito non aiuta molto perché si passa tutto il giorno a non fare niente. Nei centri di salute mentale, invece, cercano di riabilitarti, quindi per un ricovero prolungato sono la scelta migliore. […] Bisognerebbe avere più centri diurni o pomeridiani dove fare teatro, camminare, parlare. È importante tenere le persone impegnate. Quando si parla e si discute con le persone si è già in un contesto sociale: possono nascere delle amicizie, si può trovare qualcuno con cui andare a prendersi un gelato o a vedere un film la domenica. Bisogna fidarsi e affidarsi. Mettersi nelle mani degli specialisti e collaborare per riuscire a integrarsi di nuovo nella società. Si spera che parlandone e discutendone le persone possano capire. Io quando frequento il centro diurno parlo con le persone e sono contento, perché quando stai 8-9 mesi in compagnia di una persona ti ci affezioni. Con alcune persone è nata una bella amicizia, soprattutto perché mi hanno dato fiducia” – Tommaso
Le testimonianze sono state raccolte nell’ambito del progetto “Salute mentale e advocacy nelle comunità” realizzato dal Coripe Piemonte, Consorzio per la ricerca e l’istruzione permanente in economia, con la collaborazione di CoPerSaMM, Conferenza permanente per la salute mentale nel mondo, e Il Bandolo, e con il contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo.