Ora tutti ne parlano, i giornali, i medici e persino i politici. A ottobre 2022, a distanza di più di due anni dall’inizio della pandemia, ci si è resi conto che esiste un problema rilevante di salute mentale che riguarda un po’ tutti – e in particolare gli adolescenti. Per i bambini sarà possibile capire ancora di più quello che è “successo” in termini di danni sui processi neuroevolutivi tra qualche anno, come è stato documentato per altre pandemie che hanno avuto una durata molto più breve. Ne possiamo essere quasi consapevolmente felici di questa presa d’atto.
Eppure c’è un rammarico, e anche un po’ di rabbia, nell’esserci arrivati così tardi, con un pensiero che forse è inutilmente retroattivo – ne sono consapevole – e che come tale non è utile, ma che può essere anche propositivo per non perseverare negli errori (in diversi, già all’inizio della pandemia, avevamo parlato dei possibili effetti nefasti di quella che era stata denominata “pandemia secondaria”) e nel mettere in campo, se siamo ancora in tempo, utili pensieri e azioni per aiutare chi ne ha bisogno, qualcuno sicuramente più di altri. E questo qualcuno (a proposito di errori commessi) non ha un problema strettamente “organico” che, inutilmente, nel bambino e adolescente ci ostiniamo a chiamare long covid senza avere acquisito sufficiente consapevolezza del fatto che gli studi con gruppi di controllo hanno rilevato gli stessi “disagi” (somatoformi, da conversione, genericamente chiamati funzionali) tra chi ha avuto il covid e chi non lo ha avuto.
Di che cosa stiamo parlando
E di questo disagio vorremmo parlarne con un vecchio ma attualissimo assunto, oggetto di continue (consapevoli o inconsapevoli) scotomizzazioni, che riguarda la definizione del concetto di salute fisica e mentale che devono essere visti necessariamente come un unicum. La salute mentale non è un disturbo e nemmeno l’assenza di disturbi. È uno stato di salute. È descritta come “uno stato dinamico di equilibrio interiore” che comporta la capacità di utilizzare le abilità sociali, emotive e cognitive fondamentali per destreggiarsi nella vita e nel mondo in modo efficace. Secondo altre definizioni la salute mentale è correlata alla capacità di “godersi la vita e affrontare le sfide che ci pone”. In generale, la maggior parte delle definizioni fa riferimento alle capacità emotive, cognitive, funzionali, sociali, fisiche e spirituali. Spesso la salute mentale è legata al benessere, un concetto più ampio che coinvolge la salute, il reddito, la nutrizione e il benessere psicologico. I disturbi mentali possono esistere su un continuum, che comprende disturbi di diversa entità, dal disagio lieve e temporaneo a disturbi gestibili, che possono diventare cronici o meno, a disturbi psichici progressivi e gravi.
La salute mentale non è un disturbo e nemmeno l’assenza di disturbi. È uno stato di salute.
Sempre di più negli ultimi anni le neuroscienze ci hanno insegnato che esistono fasi della vita in cui il nostro cervello si struttura in termini di connessioni neuronali, quelle che valgono per sempre. In uno stretto legame tra genetica ed epigenetica. Le fasi più sensibili sono quelle dei primi anni di vita, dove insulti negativi sono determinanti e a volte irreversibili in termini di esiti sfavorevoli. Ma anche l’età adolescenziale è ancora molto vulnerabile nella costituzione di una struttura di pensiero. Si è sempre più consapevoli che situazioni di stress cronico (alcuni lo chiamano stress tossico) determinano sin dalle prime epoche della vita variazioni cerebrali in termini di volumi neuronali, modifiche dei neurotrasmettitori, addirittura alterazioni telomeriche. Il cervello cerca di riadattarsi e riprogrammarsi rispetto a insulti che diventano delle vere e proprie condizioni di alterazione del sistema immunologico e neuroendocrino, ma per poterlo fare bene deve trovare un aiuto di contesto e, quando ulteriormente necessario, individuale.
Di cosa abbiamo bisogno
Quando parliamo di questi aspetti (che hanno profonde basi scientifiche) non riusciamo a capire che quello che appartiene a un processo di tutela della salute mentale (collettivo o individuale) non può essere visto ancora con l’estemporaneità e infruttuosità di provvedimenti (come quelli del bonus psicologo) o di inutili proclami. Chi è più bisognoso, appartenendo di più a categorie economicamente svantaggiate, non sa neanche come richiederlo il bonus psicologo e non ha idea di cosa possa essere utile per il suo complessivo benessere. Ma la domanda allora è quella di cosa avremmo bisogno per aiutare ad esempio quel 20 per cento stimato di adolescenti con stati di ansia o depressione (più o meno gravi), raddoppiati rispetto al periodo prepandemico, per non parlare delle situazioni in incremento esponenziale dei disturbi della condotta alimentare. E questa visione dei problemi che si stanno vivendo è sicuramente riduttiva.
È forse facile dire che occorreva (da subito) sostenere l’implementazione di pratiche supportate da prove e facilitare l’accesso alle cure eliminando le disparità. Rendere visibile il disagio riguardante la salute “psicologica” (termine riduttivo) e la necessità d’integrazione sociale dei nostri bambini e adolescenti. Quello che sappiamo è che sono state stanziate risorse importanti, il cui utilizzo dovrebbe essere guidato da alcuni principi generali (forse troppo generali) così riassumibili:
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- potenziare la prevenzione e diagnosi precoce, a partire dall’ambulatorio del pediatra di famiglia e del medico di medicina generale, con un lavoro proattivo, singolo e/o di gruppo, di prossimità e/o a distanza, orientato all’ascolto e a un supporto, anche della famiglia, e, quando necessario, con l’adozione di strumenti validati per riconoscere situazioni potenzialmente critiche che possono richiedere, in modo motivato, valutazioni di secondo livello;
- sviluppare l’integrazione e le connessioni nei singoli ambiti distrettuali tra i servizi sanitari e sociali, le scuole e i servizi di sostegno, attraverso il lavoro di psicologi, educatori e infermieri di comunità;
- rafforzare i servizi di neuropsichiatria dell’infanzia e adolescenza (ma anche i reparti e i servizi pediatrici che si occupano di queste problematiche) su tutto il territorio nazionale, rendendoli adeguati per numero e qualità delle diverse figure professionali necessarie, ma anche ai programmi operativi che si vogliono mettere in campo (programmazione integrata e partecipe degli interventi).
L’impiego delle risorse per la salute mentale dovrebbe essere guidato da alcuni princìpi definiti di concerto tra varie figure professionali e organismi istituzionali.
L’impiego delle risorse destinate alla salute mentale anche dell’infanzia e dell’adolescenza dovrebbe essere guidato da alcuni princìpi definiti di concerto tra varie figure professionali e organismi istituzionali favorendo, in ogni realtà locale, un collante di ruoli e responsabilità che deve rispondere a una visione fatta di concretezza e progettazione. Il rischio è di reclutare personale (psicologi, educatori, infermieri) per contratti a breve termine, con l’unico obiettivo di evadere le liste di attesa, senza una prospettiva di rete che non insegue i disagi ma che li prevede e previene, con un’assistenza partecipata e modulata per livelli di intensità delle cure, come noto da anni dalla famosa piramide di intervento che è rivolta a un supporto psicosociale complessivo.
Che cosa dobbiamo fare
Fondamentale, in tutto questo, è il ruolo della scuola che dovrebbe fornire a bambini e ragazzi una prospettiva di presenza e di qualificata funzione educazionale e di dialogo, con progetti innovativi, con una visione che vede il rischio non nei contagi, ma nella mancanza di una prospettiva di connessioni e innovazione fatta anche di consapevole sperimentazione. Conosco alcune psicologhe con cui ho la fortuna di lavorare che, di fronte a situazioni difficili di ragazzi (che vengono intercettati perché arrivano, come punta estrema del disagio, ad essere ricoverati), si adoperano con una progettualità individuale, familiare e di recupero del tessuto sociale.
La cura, anche di un invisibile disagio, appartiene al modo di renderlo consapevolmente partecipe di un progetto di cura.
Reti e connessioni appunto, di quelle però non estemporanee ma strutturate, che non devono vivere più questa inutile divisione tra la dimensione territoriale e quella ospedaliera. Il bisogno è della persona, non dei servizi. Il progetto di cura appartiene a un progetto. E i servizi sono funzionali a una domanda (esplicita o meno), non a una struttura rigida che negli anni non si è adattata per rispondere in modo consapevole e partecipe a vecchi e nuovi bisogni.
Sarebbe bella una medicina narrativa che fa parlare operatori e ragazzi rispetto a quello che di favorevole o meno hanno incontrato.
Come ultima cosa: sarebbe bella una medicina narrativa che fa parlare operatori e ragazzi rispetto a quello che di favorevole o meno hanno incontrato. Ogni storia come un esempio di positività e di suggerimenti per fare meglio. La cura, anche di un invisibile disagio, appartiene al modo di renderlo consapevolmente partecipe di un progetto di cura.