Nel 1940 veniva pubblicato il primo articolo scientifico che documentava il cosiddetto widowhood effect, ovvero l’effetto per cui dopo il decesso di un individuo si osserva un aumento delle probabilità di decesso del suo coniuge [1]. Da allora tante cose sono cambiate, di cui molte, come l’aumento dell’aspettativa di vita, non fanno che aumentare l’interesse per il tema della salute dei coniugi.
Per decenni, gli studi in letteratura hanno esaminato principalmente il legame esistente tra il decesso dei due coniugi [2]. È stato documentato come l’evento traumatico e di non-ritorno della morte provochi nell’immediato solitudine e stress, e in un secondo momento forzi a cambiamenti nelle abitudini di ogni tipo, nei rapporti sociali nonché nell’organizzazione della routine quotidiana, e come tutto ciò metta alla prova il benessere psico-fisico del coniuge che rimane vedovo [3].
Tuttavia, nell’ultimo decennio sono aumentati gli studi che allargano il focus concentrandosi sull’intero periodo che anticipa il decesso, e dunque su un’idea più ampia di peggioramento di salute. La letteratura così arricchita ci dice che i coniugi si influenzano reciprocamente nelle loro storie di salute. Esemplificativo di un possibile esito negativo di tale processo è quanto accade nelle coppie anziane in cui uno dei due vive un’esperienza di malattia debilitante e il coniuge “sano” si ritrova rivestito del ruolo di caregiver [4,5].
Gli studi menzionati analizzano principalmente coppie unite dal vincolo matrimoniale, riferendosi a un periodo storico in cui questo riconoscimento istituzionale del rapporto di coppia era comune. Oggi potremmo estendere queste considerazioni, rivolgendoci a tutti quei soggetti che scelgono di accompagnarsi con stabilità con una configurazione visibile nella società, basata su diritti e impegni reciproci. Sposarsi, accompagnarsi, significa scegliere di crescere insieme: ma che succede quando questo impegno si traduce in un accudimento di lunga durata?
La fedeltà promessa “nella salute e nella malattia” rischia di tradursi in role captivity, ovvero la prigionia all’interno di un ruolo assegnato.
La narrazione delle vite dei coniugi sani ci parla di alcuni meccanismi specifici, la cui ricorrenza è legata anche al tipo di patologia vissuto in famiglia. Il primo è quello della stigmatizzazione, sperimentato soprattutto nella convivenza con alcune malattie come la demenza, in cui può accadere che l’individuo malato per vergogna o disagio rifiuti l’attivazione di aiuti esterni e limiti la partecipazione alla vita comunitaria, e di conseguenza anche il coniuge sano si ritrovi a subire le conseguenze di questo ridotto contatto con la propria rete di rapporti sociali. In patologie che richiedono maggiore accudimento fisico, invece, il coniuge sano dedica le proprie giornate alla cura dell’altro, provocando sia un concreto affaticamento fisico sia la difficoltà di trovare spazio per la cura di sé, a partire da attività semplici (come una passeggiata) fino al non riuscire a recarsi dal medico di famiglia per un dolore o un dubbio. Inoltre, ragioni economiche, culturali e poca informazione sui servizi disponibili sono alla base della frequente assenza di ricorso a aiuti esterni alla famiglia, contribuendo ulteriormente al sovraccarico e alla sensazione di isolamento. La fedeltà promessa “nella salute e nella malattia” rischia così di tradursi in role captivity, ovvero la prigionia all’interno di un ruolo assegnato. Per di più, una prigionia che agli osservatori esterni appare invisibile, perché incasellata nelle mansioni che culturalmente sono giudicate ovvie tra membri dello stesso nucleo familiare.
Occorre rendere visibili i coniugi invisibili, sostenendoli nella stessa promessa matrimoniale in virtù della quale hanno arricchito la società come tassello cardine delle reti sociali.
L’attenzione epidemiologica ai trend di invecchiamento della popolazione e di aumento della prevalenza delle patologie croniche porta a fotografare come inevitabile per i coniugi di oggi il prolungarsi nel tempo dell’accompagnamento in situazioni di fatica assistenziale. Tuttavia, poiché questa condizione ha delle conseguenze nel breve e/o lungo periodo in termini di salute, spetta anche al Servizio sanitario nazionale occuparsene. D’altronde la considerazione dell’impatto della famiglia sulla salute entra in risonanza con lo sguardo globale alla salute promosso dalle ultime policy in ambito sanitario, che invitano a un concetto più esteso di salute che non includa solo gli aspetti prettamente clinici. Occorre pertanto rendere visibili i coniugi invisibili, sostenendoli nella stessa promessa matrimoniale in virtù della quale hanno arricchito la società come tassello cardine delle reti sociali e educatori della nuova generazione.
Il primo modo di raggiungere questo obiettivo è inserire l’ottica familiare nei processi di valutazione clinica dei pazienti. Se infatti gli operatori sanitari sono spronati a svolgere un’anamnesi quanto più completa dei pazienti, alla luce del legame osservato non dovrebbero risparmiarsi dal porre delle domande sul contesto familiare in cui gli individui si trovano. Dal punto di vista del coniuge malato, questo implica per gli operatori sanitari adoperarsi per non gravare in termini emotivi e clinici sul coniuge sano, ma ricercare insieme degli strumenti che lo liberino dalla sensazione di indispensabilità. Dal punto di vista del coniuge sano, le parole scambiate con il proprio medico di medicina generale possono far emergere l’eccessivo affaticamento e guidare all’attivazione di aiuti che alleggeriscano il cosiddetto caregiver burden.
Un secondo modo può essere preparare degli spazi e servizi volti all’ascolto e al supporto dei coniugi sani, ad esempio favorendo la nascita di gruppi di mutuo aiuto in cui questi possano condividere le proprie difficoltà. I gruppi di supporto tra pari si rivelano una risorsa sociale, che rappresenta sia un momento di stacco e sollievo per il caregiver, sia un’opportunità per creare amicizie con persone che comprendono le difficoltà raccontate, sia una fonte di informazioni circa gli aiuti disponibili e le modalità di richiesta.
“Scegliersi a più riprese” diventa più possibile se supportati da una rete di attori sanitari e socio sanitari che sostengono la coppia nei periodi più impegnativi.
Infine, esperienze virtuose ci mostrano come alle volte il carico della vita da caregiver possa essere alleggerito dal ricorso a strutture residenziali, che permettano una conciliazione con la vita matrimoniale al fine di immaginare il ricorso a questa soluzione non in casi estremi ma all’interno del naturale processo di invecchiamento in coppia. “Scegliersi a più riprese” [6], nella ricerca di gioia e consapevolezza, diventa più possibile se supportati da una rete di attori sanitari e sociosanitari che sostengono la coppia nei periodi più impegnativi.
Bibliografia
[1] Ciocco A. On the mortality in husbands and wives. Proc Natl Acad Sci USA 1940;26:610-5.
[2] Stroebe M, Schut H, Stroebe W. Health outcomes of bereavement. Lancet 2007;370:1960-73.
[3] Buckley T, McKinley S, Tofler G, et al. Cardiovascular risk in early bereavement: a literature review and proposed mechanisms. Int J Nurs Stud 2010;47:229-38.
[4] Miller LM, Utz RL, Supiano K, et al. Health profiles of spouse caregivers: the role of active coping and the risk for developing prolonged grief symptoms. Soc Sci Med 2020;266:113455.
[5] Girgis A, Lambert S, Johnson C, et al. Physical, psychosocial, relationship, and economic burden of caring for people with cancer: a review. J Oncol Pract 2013;9:197-202.
[6] Papa Francesco. La trasformazione dell’amore (cap. IV, par. 163). In: Esortazione apostolica postsinodale “Amoris laetitia”, 19 marzo 2016.