Il tema dell’invisibilità, quando riferito al sistema sanitario pubblico – o, più in generale, all’impegno istituzionale a garantire (la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività sancito dall’art. 32 della Costituzione – rappresenta chiaramente un elemento di contraddizione. L’obiettivo dell’equità che permea il disegno di un sistema sanitario universalistico non dovrebbe infatti contemplare che qualcuna/o risulti invisibile al sistema stesso. Eppure, come sappiamo, ciò accade usualmente.
Fatti salvi i casi in cui questa invisibilità sia il prodotto di una libera scelta, espressa da persone capaci di intendere e volere (e, a ben vedere, non lo è ad esempio nel caso di molte persone che hanno scelto di vivere per strada a seguito di traumi psichici), nei restanti e prevalenti casi l’invisibilità non è un dato di fatto, ma deriva da una incapacità di vedere (per limiti o per mancanza di volontà) da parte del sistema di welfare.
Proviamo a interrogarci, seppur brevemente, sulle ragioni di questa inadeguatezza.
Dall’attesa all’iniziativa
La prima ragione che viene in mente è legata al fatto di aver concepito fin dall’inizio l’organizzazione dell’offerta in modo strutturale, rigido, che prevede unicamente l’attivazione di una funzione statica di ricezione di una domanda assistenziale. In altre parole, che si tratti di un pronto soccorso, o di un ambulatorio, o di una rsa, le professioniste e i professionisti che animano il sistema sanitario “attendono” che, sulla base di una precedente programmazione (di norma per appuntamenti), qualcuno bussi alla porta del loro studio/spazio professionale e formuli delle richieste assistenziali. In poche parole, la domanda induce l’offerta. Tale “paradigma dell’attesa” funziona abbastanza bene per tutte le persone che, con diversa competenza e capacità di gestione ed elaborazione (health literacy), una volta superate le resistenze (meccanismi di difesa) dovute all’inevitabile ansia indotta dal comparire di disturbi e sofferenza, sono in grado di orientarsi tra le regole e le procedure che il sistema prevede e di riuscire a “incontrare” il professionista o l’organizzazione professionale in grado di rispondere a quella domanda.
A questo limite, per così dire originario, del sistema (che pure ha concepito alcune eccezioni come l’assistenza domiciliare e alcuni interventi di prevenzione), si cerca oggi di ovviare invitando ad attivare quell’approccio ispirato al cosiddetto “paradigma dell’iniziativa”. Tale innovazione può essere fatta risalire al chronic care model proposto, a partire dagli anni Novanta, da E. Wagner del MacColl Institute statunitense, modello che, adottato con successo a livello internazionale, è stato inserito in Italia nel Piano nazionale della cronicità approvato nel 2016 e ancora molto poco conosciuto (e quindi applicato, con l’eccezione di poche regioni come la Toscana e l’Emilia-Romagna).
Il concetto che condensa il tentativo di superare il rischio di invisibilità è quello della “prossimità”.
Il concetto che, nella programmazione e implementazione degli interventi sul territorio, condensa il tentativo di superare il rischio di invisibilità è quello della “prossimità”; non casualmente, il ministro della salute Speranza, di fronte alla Commissione affari sociali della Camera e successivamente in diverse occasioni pubbliche l’ha definita “parola-madre” del piano di investimenti in arrivo con il recovery fund: “Ricominciare a pensare un Servizio sanitario nazionale prossimo, vicino, nell’immediatezza delle esigenze del cittadino”.
Applicato al contesto di nostro interesse, tale concetto viene usualmente richiamato come “medicina, o meglio sanità, di prossimità”. Senza entrare nel merito tecnico, insieme con Baglio, Eugeni e Geraci possiamo dire che tale approccio risulta dalla combinazione di tre elementi: l’outreach, la mediazione di sistema e il coinvolgimento della comunità.
Fare accadere le cose
Una seconda ragione che ritengo condizionare la capacità del sistema di “vedere”, e quindi di minimizzare il rischio di “invisibilità”, ha a che fare con la dimensione etico-socio-antropologica delle operatrici e degli operatori della salute, con la loro interpretazione del proprio mandato professionale e concezione del proprio orizzonte di impegno. Si fa qui riferimento all’evidenza dell’impatto dei determinanti sociali (o strutturali) della salute, e alla loro capacità di generare disuguaglianze nella salute e nell’assistenza (di cui sistematicamente sono vittime i gruppi di popolazione socialmente più svantaggiati, spesso “invisibili”). Ne consegue che, quanto più le professioniste e i professionisti saranno in grado di riconoscere l’importanza delle condizioni sociali nel produrre/mantenere/recuperare la salute e di focalizzare la propria attenzione sulle dinamiche di vulnerabilità sociale, tanto più la capacità di intercettare i bisogni di salute anche delle persone più svantaggiate e la qualità degli interventi correlati potranno essere adeguati, tempestivi, integrati e quindi efficaci.
Vi è una progressiva consapevolezza dell’importanza di sensibilizzare i futuri o attuali professionisti della salute ai temi dei diritti umani, dell’equità e della giustizia sociale.
Per limitarsi all’ambito medico, probabilmente il più restio storicamente a concepire per sé stesso non solo un intervento strettamente tecnico ma anche una capacità di posizionamento etico, di impegno nel sociale e con il sociale, è utile segnalare che nella revisione del Codice deontologico medico del 2014 è stato introdotto un nuovo articolo, il numero 5, che invita esattamente ad ampliare il proprio sguardo alle condizioni di istruzione e socioeconomiche non solo dei propri pazienti, ma anche dei loro familiari. Su questa stessa linea, vi è una progressiva consapevolezza a livello internazionale sul fatto che, a partire dalla formazione pre-laurea e a seguire nella educazione permanente, è particolarmente importante sensibilizzare i futuri o attuali professionisti della salute ai temi dei diritti umani, dell’equità e della giustizia sociale, con particolare riferimento alla promozione dell’azione di advocacy nei confronti dei più svantaggiati, potenziando l’agentività individuale e collettiva.
È fondamentale coinvolgere in modo attivo le comunità in una prospettiva di partecipazione e coesione sociale.
In tale tentativo è chiaramente fondamentale sia coinvolgere in modo attivo le comunità in una prospettiva di partecipazione e coesione sociale, sia creare le condizioni di sistema – con particolare riferimento alle modalità di gestione delle organizzazioni sanitarie – per favorire questo rinnovato impegno per l’equità.