Nessuno di noi quando ha scelto di essere infermiere o medico ha mai pensato, credo, di trovarsi nel mezzo di una pandemia. Qualche anno prima che arrivasse la pandemia avevo accettato la sfida di costruire un progetto organizzativo per seguire le famiglie con figli ad alta complessità assistenziale sul mio territorio. Stavo iniziando a raccoglierne i frutti cercando di aggiustare i percorsi di rete facendo anche piccole ma continue modifiche, alla ricerca, chissà, di qualcosa di impeccabile. E, così concentrata sul mio, che la Cina avesse comunicato la diffusione di un cluster di polmoniti “atipiche” e che fosse in lockdown lo percepivo come una cosa molto lontana da noi. Inutile raccontarvi che tutto è andato velocemente, forse troppo.
Siamo stati contagiati prima dalle emozioni che dal covid. Emozioni che hanno dei nomi precisi: la paura (per la propria incolumità e quella dei propri cari), il senso di responsabilità, i sentimenti di solitudine, l’impotenza, la rabbia.
Siamo prima stati contagiati dalle emozioni che dal covid.
Comincio a fare qualche telefonata alle mie famiglie per ribadire le indicazioni ministeriali e percepisco sì preoccupazione, del resto nessuno aveva ben chiara la portata di ciò che ci stavamo preparando ad affrontare, ma anche tranquillità.
Come mai? Man mano che facevo chiamate mi rendevo conto del mio grande sforzo di nascondere dietro un tono rassicurante e deciso tutto il fermento di quelle giornate, della mia fatica a rendere invisibile agli altri il mio conflitto tra personale e professionale, alla mia stessa ricerca di risposte che andava in contrasto con la grande capacità di accettare ciò che al telefono ribadivo alle famiglie. Non fanno domande (alle quali forse non sarei neppure stata preparata a rispondere), hanno chiaro tutto ciò che dico loro.
La mamma di Sofia mi dice al telefono: “Benvenuti nel nostro mondo!”. Sente il mio silenzio e prova a spiegarmi meglio. Tutte le emozioni da cui noi oggi siamo stati travolti sono le loro da quando hanno imparato a vivere insieme con la disabilità dei loro figli. La paura di poterli far ammalare perché un “banale” raffreddore poteva non essere banale a punto di dover portare in ospedale i loro bambini invisibili; il senso di responsabilità a dover gestire un qualcosa che non si è scelto e che improvvisamente issa la bandiera sulla poppa della nave e tu non sei più l’unico condottiero. La paura della solitudine, dell’impotenza, la rabbia.
Siamo persone “contagiate” improvvisamente da sentimenti che uniscono e rafforzano la relazione nel senso profondo del riconoscersi nell’altro.
Siamo persone “contagiate” improvvisamente da sentimenti che uniscono e rafforzano la relazione nel senso profondo del riconoscersi nell’altro (modalità forse a cui dovremmo essere educati, una “materia” da insegnare). E accorgersi, per alcuni versi, che essere diversamente abili non era più un’esperienza così diversa da ciò che stavamo iniziando a vivere mi ha fatto capire e imparare il vero significato dell’empatia, che pur credevo di conoscere così bene.
La lingua con cui parlavo con i pazienti per la prima volta mi è parsa davvero comune.
Quell’organizzazione a cui continuavo a portare modifiche improvvisamente era vuota, ma le conquiste piccole o grandi che erano state fatte aveva dentro il suono dei passi, lo stesso del tempo che la malattia, o la pandemia, non doveva riuscire a rubare.
La lingua con cui parlavo con i pazienti per la prima volta mi è parsa davvero comune.
Mi sono trovata a fare chiamate, poi videochiamate con persone che fino a poche settimane prima mi raggiungevano in ospedale. Mai avrei immaginato che una videochiamata potesse avere una sua dimensione; al contrario ero certa che le videochiamate fossero solo prive di qualcosa, che aumentassero la distanza e che fossero in un certo qual modo una tecnica “asettica”. Non sospettavo minimamente che potessero, al contrario, offrire qualcosa in più.
Non facevo il passo per cui qualcosa in meno non doveva escludere il qualcosa in più, di diverso da tutto quello che conoscevo. Esserci, in una relazione, va oltre la presenza corporea. Sono stata accolta nell’intimo delle loro case e ho scoperto che spesso lì si è molto più disposti ad aprirsi; in ambulatorio mi sono sempre persa un loro “pezzo di vita” che era la quotidianità oltre la malattia e ai controlli ad essa legati. Ho capito che la cassa integrazione ha portato il padre a stare a casa e ciò ha permesso di ritrovare una relazione col proprio figlio disabile. I padri hanno capito e conosciuto meglio l’enorme fatica delle loro mogli: madri, spesso principali e uniche caregiver. Io ho cercato di imparare come essere per loro un supporto. Hanno vissuto. Abbiamo vissuto, insieme.
Non era tutto da buttare insomma, come professionisti abbiamo imparato nuove forme di continuità assistenziale. È vero che in videochiamata non possiamo abbracciare, ma è anche vero che le emozioni viaggiano con la stessa velocità. Non possiamo allungare un fazzoletto e neppure offrire un caffè, ma loro erano in un luogo sicuro e protetto dove poter parlare e condividere: casa loro.
È stata un’esperienza intima, una connessione pazzesca.
Siamo tutti persone, non pazienti, semmai impazienti di tornare a fruire del proprio tempo e di riprendere il nostro viaggio, di continuare a crederci, di risentire l’odore fuori dall’acre dei reparti ospedalieri e di rincuorare il proprio esserci in una vita che sa di “normalità” di fronte ad una condizione di disabilità.
Nell’intimità di questo vissuto, così profondamente professionale e umano, c’è qualcosa di invisibile che mi porto dentro: la difficoltà di condividerle queste emozioni per farne un motore in un processo di cambiamento, a proposito di quando si parla di ruoli e funzioni di nuove figure professionali, come quelle degli infermieri. Ma qualcosa può diventare utile e trascinarci in una dimensione comune che ancora oggi e troppo spesso vive in quelli che siamo abituati a chiamare “percorsi”, che sono spesso troppo settoriali nei processi di cura delle persone diversamente abili e delle loro famiglie. Con un obiettivo che è la base di qualsiasi progettualità: il sapere riconoscere, sino in fondo, l’invisibilità di alcuni bisogni che sono spesso fatti di esperienze ripetute, di nuove emozioni e condivisioni. Certo, non dimenticando mai il ruolo qualificato nelle risposte professionali che devi saper dare, ma che devono rispondere a una domanda precisa che si deve essere in grado di sapere cogliere e condividere.
È forse questa la base di un nuovo sapere e di un nuovo ruolo, meno “invisibile” del nostro mestiere?