Quali competenze i giovani professionisti sanitari sentono solitamente di dover acquisire al termine del proprio percorso formativo? È prassi, per le aziende sanitarie, rilevare questi bisogni per calibrare meglio i piani formativi?
Credo che l’analisi dei fabbisogni formativi della comunità professionale di un’azienda sanitaria non debba fare riferimento esclusivo alle aspettative di sviluppo delle competenze dei giovani professionisti. L’aspetto critico è che la formazione universitaria è ancora disconnessa dai bisogni di competenze necessari per sostenere un progetto di salute pubblica. Alcuni esempi: la formazione universitaria del medico è prevalentemente orientata alla cura dell’acuzie mentre la prevalenza dei pazienti è portatrice di malattie croniche. Gestire un paziente cronico richiede di operare utilizzando paradigmi molto differenti che avrebbero bisogno di trovare uno spazio formativo consistente nella programmazione dei corsi di laurea. In buona sostanza c’è uno sbilanciamento forte a favore di una formazione centrata sull’ospedale (inteso in modo esclusivo come luogo di cura dell’acuzie) a scapito dei bisogni di competenze necessari per operare nell’ambito della cura delle malattie croniche, degli anziani, della medicina territoriale. Non solo: nei programmi formativi universitari sono pressoché assenti contenuti che riguardano la relazione con il paziente e la sua famiglia, la sicurezza delle cure, il lavoro interprofessionale. Questa assenza non determina solo un gap di competenze nei giovani professionisti, pertanto ciò che non hanno imparato prima lo possono poi compensare con la partecipazione a programmi di formazione continua sul lavoro, ma l’assenza di suddetti contenuti formativi nella formazione di base di una professione determina un modello mentale che orienterà poi le scelte formative verso quei contenuti ritenuti basilari per la propria professione trascurando quelle competenze che non hanno avuto spazio nel curriculum formativo di base (per esempio, perché devo dare importanza alla relazione con il paziente quando per 10-11 anni di formazione non ho avuto un’ora di lezione su questo tema?). Tutto queste considerazioni per affermare che una buona pianificazione formativa in una azienda sanitaria non può centrarsi solo sui bisogni percepiti dai professionisti (di solito si tende a investire nel proprio apprendimento sulle cose che già si sanno fare meglio), ma deve sostenere lo sviluppo di quelle competenze la cui necessità a volte non è consapevole e che deriva dalla lettura attenta delle informazioni organizzative (reclami, incidenti, eventi sentinella, dati sulla qualità percepita, programmi di sviluppo organizzativo, valutazione delle competenze, ecc.). Ricordo un lavoro di qualche anno fa finalizzato a raccogliere le narrazioni dei vissuti del paziente rispetto al percorso oncologico ciò che si evidenziò come importante criticità fu il come veniva comunicata la diagnosi, di questa percezione critica i medici non avevano nessuna consapevolezza. Da qui partì un percorso di formazione dedicato allo sviluppo della capacità di comunicazione delle cattive notizie che continua tutt’oggi e che ormai ha visto la partecipazione di centinaia di professionisti. Ecco credo che uno dei compiti della formazione sia anche questo: aumentare la consapevolezza sul ciò che dovremmo saper fare, ma che non sappiamo sia necessario saper fare.
L’analisi dei fabbisogni formativi è ormai prassi comune a tutte le aziende sanitarie, ciò che costituisce differenza fra le diverse aziende è il come viene fatta: generalmente vengono inviati questionari alle unità operative con i quali vengono raccolte le proposte formative che poi verranno inserite (dopo verifica di fattibilità rispetto ai requisiti previsti nei regolamenti aziendali della formazione) nel Piano annuale di formazione. Se ci si limita a questo il rischio della formazione di sostenere il “fare sempre meglio ciò che non serve” è abbastanza alto. I servizi formativi devono collaborare con i professionisti per co-costruire un’offerta formativa sia rispettosa dei desideri, sia orientata a modificare i comportamenti professionali in funzione dei bisogni dell’utenza e della organizzazione di appartenenza.
Immaginiamo che la risposta a queste esigenze educazionali sia abbastanza diversa a seconda dei contesti: è così? A livello istituzionale centrale, come si potrebbe riuscire a ridurre le disuguaglianze?
Sì, continuano a persistere differenze regionali significative, anche se la normativa Ecm ha dato una forte sollecitazione alle aziende sanitarie per strutturare una dimensione organizzata della formazione (accreditamento provider) che ha contribuito a diminuire l’eterogeneità dei modi di gestione dei processi formativi. Oggi in quasi tutte le aziende è presente una funzione/struttura dedicata alla gestione dei processi formativi, prima del 2002, anno d’inizio del sistema Ecm, erano veramente poche le realtà aziendali dove era presente una struttura dedicata allo sviluppo professionale. Il problema attuale è che ancora non c’è nessuna normativa che dia indicazioni su quali competenze, quali ruoli, quale posizionamento organizzativo (staff alla direzione generale? Dipartimento risorse umane? Staff alla direzione sanitaria?) deve avere la struttura aziendale che si occupa di formazione. Questo determina una forte eterogeneità tra le varie aziende sanitarie: si va da realtà in cui la formazione svolge solo le funzioni amministrative collegate all’accreditamento Ecm e alla gestione dei costi, a realtà dove invece la funzione formazione è integrata con le funzioni del governo clinico e con le politiche di sviluppo del personale. Ciò che potrebbe aiutare potrebbe essere appunto la possibilità di avere una normativa, così come è stato fatto per gli uffici comunicazione, che definisca quale profilo di competenze deve avere un responsabile della formazione e che suggerisca in quale posizionamento organizzativo inserire la funzione formativa e quante risorse investire sulla formazione (ormai l’indicazione del Ministero della funzione pubblica dell’1 per cento del monte salari è obsoleta e ampiamente disattesa). Questo permetterebbe una maggiore uniformità sul territorio nazionale delle opportunità di sviluppo professionale offerte dalle aziende sanitarie.
La formazione nelle aziende sanitarie deve contestualizzare gli obiettivi formativi alle caratteristiche e ai bisogni del contesto in cui opera il professionista.
Nella sua esperienza, quale contributo danno solitamente le società scientifiche alla soddisfazione di queste esigenze?
Le società scientifiche stanno facendo tanto per costruire un’offerta formativa adeguata ai bisogni dei professionisti. Bisogna però considerare che questa offerta formativa deve essere intesa come complementare a quella proposta dall’azienda sanitaria e non sostitutiva: la formazione in azienda deve declinarsi sulla relazione professionista-organizzazione, contestualizzando gli obiettivi formativi alle caratteristiche e ai bisogni del contesto in cui opera il professionista. La formazione proposta dalle società scientifiche è inevitabilmente de-contestuale, i suoi obiettivi fanno riferimento a un’ideale di professione a prescindere dalle caratteristiche ecosistemiche in cui si svolge il lavoro quotidiano. Se le aziende sanitarie delegassero in toto alle società scientifiche la formazione dei propri professionisti si rischierebbe di sostenere uno sviluppo di competenze che poi, molto probabilmente, non troverebbero un territorio adeguato alla loro applicazione sul campo generando, di conseguenza, frustrazione e insoddisfazione.
L’indirizzo in tema di deontologia, bioetica, vita professionale è prerogativa degli ordini professionali: in quale misura ritiene che questo compito sia effettivamente assolto?
Credo sia stato fatto un buon lavoro: dal 1 febbraio 2022 è attiva la piattaforma FadInMed, nata dalla volontà di Fnopi e Fnomceo di offrire ai propri iscritti la possibilità di accedere a un catalogo formativo dedicato ai temi della sicurezza delle cure, etica e deontologia. Inoltre anche a livello ordinistico provinciale è indubbio che è stato fatto un considerevole sforzo finalizzato alla costruzione di un’offerta formativa sulle tematiche trasversali che attengono alla professione. Il raggiungimento del target dei crediti formativi, condizione necessaria per il mantenimento dell’iscrizione all’ordine, ha contribuito sicuramente ad aumentare l’impegno degli ordini professionali a produrre per i propri iscritti percorsi formativi sulle suddette aree tematiche.
L’intensa collaborazione delle società scientifiche con imprese private farmaceutiche e di dispositivi medici è un’opportunità da valorizzare o potrebbe essere un limite alla loro indipendenza?
Rispondere a questa domanda mi sollecita in modo forte il ricordo del lavoro di Alessandro Liberati, in particolare al tema del research waste a cui ha dedicato attenzione negli ultimi anni della sua vita: il finanziamento delle imprese private non è solo un rischio per l’indipendenza della formazione/ricerca, ma può costituire un importante spreco di risorse indirizzando i finanziamenti verso risultati non utili ai cittadini. Credo poi importante sottolineare che le imprese private non sono tutte uguali: ci sono imprese che offrono collaborazioni/finanziamenti per spingere i propri prodotti e ci sono imprese che investono nelle collaborazioni con le società scientifiche al fine di migliorare il proprio brand. Ovvio che con quest’ultime è maggiormente possibile costruire sinergie utili alla qualità della formazione e della ricerca.
A cura della redazione di Forward