Nella discussione pubblica, meritocrazia e competenze sono spesso sovrapposti come se fosse impossibile difendere le competenze senza difendere anche la meritocrazia. Certo, le parole sono convenzioni. A prescindere dalle affinità, meritocrazia, merito e competenze ci dicono, tuttavia, qualcosa di diverso e, alla luce di questa diversità, penso che dovremmo abbandonare la meritocrazia e forse anche il merito per difendere, con forza, le competenze. Vediamo brevemente il perché.
Due sono i tratti che caratterizzano la meritocrazia: 1) la selezione deve basarsi su una gara competitiva dove il criterio dirimente è il merito e 2) chi vince si merita quanto gli altri sono disposti a dare o, in termini più generali, l’ordinamento nella selezione giustifica i premi e le penalizzazioni conseguenti. Seguendo Young, il coniatore del termine, il merito si identifica poi con abilità e sforzo (A, S) e le abilità si identificano con le abilità cognitive. Le abilità potrebbero però includere altri attributi naturali e sociali, come le social skill oggi sempre più apprezzate nei mercati del lavoro.
Il secondo tratto appare critico. Premiare le abilità significa premiare il caso delle lotterie naturale e sociale. Le stesse abilità naturali dei nascituri, oltre che dal caso dei geni, dipendono dalle condizioni sociali in cui la madre si è trovata durante la gravidanza. Similmente, lo sforzo potrebbe avere un’origine sia naturale sia sociale. Da un lato, è influenzato dall’educazione familiare e, dall’altro, dalle abilità che si hanno. È più facile sforzarsi quando le abilità ci aiutano.
Ancora, il merito, lungi dal dipendere da noi come siamo spesso portati ad assumere, dipende dagli altri. Potremmo essere abilissimi a intrecciare i cestini e sforzarci più di qualunque altro per farlo, ma se nessuno valuta i cestini, non avremmo alcun merito. Warren Buffet ben riconobbe questo punto quando ammise di essere, sì, molto bravo, ma di essere arrivato alla sua posizione grazie alla fortuna insostituibile di essere nato negli Stati Uniti in un particolare momento storico in cui i suoi meriti erano fortemente apprezzati.
Oppure si pensi ad un attore ai tempi di Shakespeare: le dimensioni del teatro in cui si esibiva determinavano i confini del suo pubblico. Oggi, una tecnologia dal consumo non rivale come la rete permette di rispondere a una domanda globale con il risultato che chi è considerato il più bravo prende (quasi) tutto, nonostante il differenziale di merito rispetto a chi arriva secondo sia molto limitato.
Quello che esibiamo come frutto dei nostri meriti è in molti casi frutto di un lavoro di squadra.
L’offerta pure è determinante. A parità di meriti, più aumenta il numero di coloro che li posseggono più diminuisce la remunerazione.
E non è tutto. Quello che esibiamo come frutto dei nostri meriti è in molti casi frutto di un lavoro di squadra. Come scrisse Virgina Woolf, addirittura nella letteratura, “i capolavori non nascono soli e isolati. Sono il risultato di molti anni di pensiero comune, il pensiero del popolo, in modo che l’intera esperienza di massa si raccolga dietro quella voce isolata”. Più prosaicamente, i meriti di una docente dipendono anche da come la scuola è organizzata e dagli allievi che si ritrova ad avere in classe.
Certo, molti difensori della meritocrazia hanno richiesto e richiedono mercati competitivi. Se così, le rendite derivanti dalle tecnologie del consumo non rivale non sarebbero meritate. Il punto è che anche i mercati competitivi sono dominati dal caso e dai rapporti di potere sanciti dai diritti di proprietà i quali determinano la ripartizione del lavoro di squadra nonché l’estensione stessa dei mercati.
Seppure rapide, queste considerazioni portano, dunque, a mettere in discussione la meritocrazia. Potremmo almeno salvare il criterio del merito? Che la selezione debba basarsi su una gara competitiva a seguito della quale vince chi è considerato il più competente, mi sembra ovvio. Vogliamo il migliore chirurgo o il migliore pilota di aereo. Ciò nonostante, mi sembra preferibile fare leva direttamente sul valore delle competenze anziché sul merito.
Da un lato, sottolineare il valore delle competenze permette di evitare la confusione che potrebbe ingenerarsi qualora si intenda difendere il merito, ma non la meritocrazia (che, come sopra detto, ha un secondo tratto critico). Dall’altro lato, la nozione stessa di merito presenta alcune ambiguità.
Torniamo alla definizione come insieme di abilità e di sforzo. Quando selezioniamo per una data posizione ci interessa davvero quanto la persona si sia sforzata e quali siano le sue abilità naturali? Mi sembra di no. Certo, lo sforzo potrebbe segnalare la disponibilità a cooperare e la cooperazione è una social skill che potrebbe essere apprezzata da un’organizzazione. Quello che è dirimente non è, tuttavia, lo sforzo in sé e neppure un’abilità che poi non si usa. È la prestazione complessiva che si è in grado di offrire. Sforzo e abilità, in altri termini, contano solo in quanto sfociano in una prestazione che è apprezzata.
Fare leva sulle abilità e sullo sforzo, inoltre, rischia di farci sottovalutare il peso delle lotterie naturale e sociale nonché la dimensione sociale del merito, ossia, il fatto che sono gli altri a definire quest’ultimo. Riconoscere la dimensione sociale ci spinge, invece, ad affrontare la questione di chi ha il potere di definire i meriti e a ricercare un disegno istituzionale che permetta di dare voce alle diverse accezioni di prestazioni desiderabili e, con esse, al pluralismo delle valutazioni. In questa prospettiva, l’illusione di potere ottenere ordinamenti completi andrebbe abbandonata, visto che sarebbero incapaci di tenere conto della multidimensionalità di ciò che ricerchiamo.
I mercati vanno regolati in modo da assicurare un’equa ripartizione dei frutti derivanti dalla cooperazione sociale.
Un mondo siffatto non implica in alcun mondo la perfetta uguaglianza nelle remunerazioni. Differenziazioni in ragione degli incentivi, della diversità di responsabilità associate alle diverse mansioni nonché delle libertà di scelta che caratterizzano il gioco di mercato sarebbero perfettamente legittimate. Al contempo però chi vince riconoscerebbe con umiltà non solo la pluralità delle competenze, ma anche che molto di ciò che è non dipende da sé. Il che implica fra l’altro che i mercati vanno comunque regolati in modo da assicurare un’equa ripartizione dei frutti derivanti dalla cooperazione sociale.