Davanti al rapido avanzamento delle conoscenze in biomedicina e allo sviluppo di tecniche innovative che necessitano di competenze specifiche, che si accompagnano a una grande disponibilità di bandi di ricerca, serve interrogarsi su quale modello di ricerca vogliamo investire oggi e come formare il capitale umano indispensabile per competere su tematiche di grande rilevanza scientifica e con tecnologie innovative.
L’avanzamento della medicina negli ultimi decenni è il risultato di scoperte sui meccanismi di malattia, lo sviluppo di nuove tecnologie diagnostiche e la messa a punto di nuove terapie, con un trasferimento alla clinica dei risultati. È proprio dalla ricerca clinica che iniziamo a definire come aumentare la disponibilità di nuove professionalità in grado di raccogliere ed elaborare nella maniera più adeguata dati clinici interfacciandosi direttamente con i pazienti, i laboratori, le contract research organization, oltre che con i comitati etici. È questa la figura del data manager della ricerca clinica, una figura specifica ben codificata negli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico.
Si tratta di professionalità non comuni, ma il cui ruolo è essenziale. Lo stesso dicasi per i bioinformatici sempre più richiesti, ma il numero di laureati è troppo basso rispetto alle necessità, soprattutto di bioinformatici esperti, per effetto della crescita degli approcci genomici alle malattie e alle diagnosi di esse, oltre che alla diffusione di sistemi di sorveglianza molecolare.
La ricerca non può essere più gestita in maniera conservativa.
Inoltre, le applicazioni della genomica e delle biotecnologie alla ricerca di base, alla diagnostica e alla terapia hanno bisogno di esperti con formazione specifica e ad alta qualificazione che non è facile da trovare nei percorsi formativi standard. Alcuni campi sono l’uso di stampanti 3d, l’impiego di materiali polimerici, la possibilità di applicazione in vitro di tecniche di rigenerazione tissutale. In questi settori servono, per esempio, competenze biologiche, ingegneristiche, di fisica dei materiali, di programmazione di computer, fino alla costruzione di macchine per uno specifico impiego o una singola situazione. Questo per non parlare della robotica in laboratorio o come supporto alla mobilità, fino alle prospettive di impiego di robot umanoidi per funzioni cliniche o riabilitative.
Serve investire in formazione ridefinendo però le priorità della formazione.
Un aspetto importante da considerare per i professionisti del futuro è la necessità di uno scambio continuo di informazioni tra i diversi settori e l’integrazione delle competenze. Solo così sarà possibile definire con precisione da un lato le reali necessità dei pazienti e dall’altro le aree di priorità di ricerca e intervento. Ciò anche al fine di evitare il rischio di sprecare le grandi potenzialità della genomica che possono essere trasferiti direttamente ai pazienti. Un esempio per tutti è la possibilità di avere a disposizione test diagnostici che possono guidare l’accesso a nuovi farmaci. Usare un farmaco di nuova generazione per una indicazione inappropriata significherebbe, oltre che sprecarlo, non renderlo disponibile a quelle persone per cui proprio quel farmaco potrebbe essere la loro unica speranza. Uno strumento che si sta diffondendo è il modello diagnostico del companion quale prerequisito per poter accedere a un trattamento. Il companion individua le condizioni per le quali il farmaco è efficace e monitora la risposta al trattamento fornendo un apprendimento delle caratteristiche per la scelta dell’intervento migliore. Soltanto con un sistema di questo genere sarà possibile utilizzare al meglio le nuove tecnologie e l’innovazione.
Semeiotica classica versus diagnostica strumentale
L’adozione di strumenti diagnostici innovativi sta migliorando le capacità di arrivare a un corretto inquadramento di una condizione/malattia. Oltre a tecnologie di diagnostica in vitro si stanno sviluppando sistemi in vivo che permettono di individuare la cellula malata. La nuova frontiera in oncologia, per esempio, è la teranostica che attraverso nanoparticelle mira ad effettuare contemporaneamente diagnosi e terapia: individuate le singole cellule tumorali il sistema interviene rilasciano in situ la terapia per bloccare il tumore. In modo simile altri sistemi di nuova generazione sono pensati per verificare se un determinato farmaco si accumula in un’area più vascolarizzata di altre, anche se per vederlo in realtà basterebbe un semplice ecografo e la risonanza magnetica nucleare.
Approcci come questi che sembravano un’ipotesi futuribile stanno per fare il loro ingresso nella medicina nucleare e in radiologia. Questo però non significa delegare la diagnosi alle sole macchine e abbandonare la semeiotica classica. Pensiamo per esempio alla necessità di ricostruire i percorsi di valutazione di visita dei pazienti e di recuperare l’uso di uno o più dei nostri sensi – vista, olfatto, gusto, tatto ed auscultazione – per la diagnosi fisica. Sempre più queste azioni vengono percepite come aver un minor valore rispetto alla prescrizione di un esame diagnostico, ma non è così. Continuano ad essere basilari anche nella medicina di oggi.
Le priorità della formazione
Necessariamente il meccanismo di formazione delle competenze per la ricerca biomedica è sempre più ibrido. Se da un lato serve formare le persone affinché sappiano leggere in modo corretto le pubblicazioni per poi sapere scrivere un progetto o i risultati delle proprie ricerche, dall’altro è necessario che le persone che fanno ricerca sappiano anche come produrre ricerca e come produrre scienza, e conoscano la clinica.
Serve dunque investire in formazione ridefinendone però le priorità. Allo stesso modo è necessario anche il monitoraggio delle procedure di gestione dei finanziamenti e di quello che stiamo facendo ma non attraverso una burocrazia ottusa. Serve scomporre i bisogni e le competenze da formare in relazione a quella che, da un lato, è la formazione accademica e, dall’altro, quella dell’innovazione le quali devono procedere di pari passo. Gli stessi bandi di ricerca di diversi ministeri prevedono un investimento specifico per la formazione da cui dipende la crescita professionale del ricercatore.
La speranza è che un tale percorso venga codificato e normato in tempi brevi. Rispetto ad altri Paesi l’Italia ha pochi ricercatori, in particolare ricercatori clinici; e, nonostante ciò, ha una produttività scientifica per densità di popolazione lavorativa superiore. Dobbiamo dunque far tesoro di questo stato delle cose e cercare di codificarlo al meglio per trarne un reale vantaggio.