Il Dm 71 è stato definito come “l’anima” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnnr). Quali sono le opportunità per le Regioni e quali i punti di forza di questo documento?
È un importante cambio di passo, perché fino a oggi ci siamo occupati molto più di quella che era l’attività ospedaliera a livello nazionale – e anche regionale – ma molto meno della politica extra ospedaliera. Questo provvedimento, che vedremo nella modalità in cui verrà approvato, può portare un radicale cambiamento organizzativo perché abbiamo dei finanziamenti temporanei che, oltre a fornire un importante occasione per investire, consentono di apportare un cambiamento sugli assetti consolidati. Se non andiamo a ristrutturare ciò che si trova a monte del territorio – gli ospedali per esempio – fra quattro o cinque anni, quando il denaro del finanziamento europeo e italiano sarà esaurito, non avremo la possibilità di mantenere un investimento sul territorio così importante e di ristrutturare la rete di offerta ospedaliera, ancora oggi ridondante in alcune Regioni. Esistono ancora troppe strutture a basso volume di attività e bassa capacità di determinare esiti soddisfacenti, quindi a mio parere sarà necessario anche un ripensamento dell’attività ospedaliera. Siamo di fronte a una grande opportunità per investire sul territorio attraverso tutte quelle attività descritte nel documento, a cominciare dalle strutture di prossimità, ma attenzione a non tenere in piedi le inefficienze di sistema nel comparto ospedaliero.
Siamo di fronte a una grande opportunità per investire sul territorio. Ma attenzione a non tenere in piedi le inefficienze di sistema nel comparto ospedaliero.
Crede sia auspicabile una maggiore “sensibilità” delle aziende sanitarie ai temi della riconsiderazione della medicina territoriale e della digitalizzazione?
Non mi limiterei a una maggiore sensibilità delle sole aziende sanitarie. Penserei anche a tutto l’apparato regionale, alle burocrazie ministeriali e regionali, e altresì a quelle aziendali. Tendenzialmente, mi preoccupa di più il formalismo ossessivo con cui, molte volte, si definiscono le norme. Penso che ci sia bisogno di un salto qualitativo a livello sia aziendale che regionale e nazionale. Quando si parla di struttura di prossimità si parla di case della comunità, che prima si chiamavano case della salute; ma non possiamo limitarci a cambiamenti soltanto nominalistici. A me interesserebbe molto sapere se in queste strutture di prossimità arrivano “l’acqua, la luce e il gas”, cioè se hanno un contenuto effettivo di prestazioni, di coordinamento di attività, di condivisione di obiettivi e di cooperazione, perché sono questi i temi principali e anche le maggiori criticità che oggi abbiamo e che non ci permettono di parlare di una vera medicina di territorio. Basti ricordare cosa è successo durante la prima ondata della pandemia: in pratica per poter andare a fare i tamponi a domicilio – e poi, successivamente, anche le vaccinazioni – abbiamo dovuto assoldare quelli che provocatoriamente ho chiamato “i braccianti” delle Usca (giovani medici che meritoriamente hanno retto l’urto) perché nessun altro andava a casa a svolgere queste prestazioni. Per le vaccinazioni sono stati coinvolti anche i farmacisti. Mi è sembrato che la medicina territoriale, seppur in alcuni casi abbia agito in maniera encomiabile, in molte occasioni abbia dato una prova non brillantissima di sé. Qui ci sono dei problemi di contenuto più che di forma: non c’è tanto da discutere sul contenitore edilizio o formale, quanto piuttosto sul contenuto sostanziale di queste strutture e di queste riforme. Quindi, sicuramente, l’intera filiera deve essere molto più coordinata di quanto lo sia mai stata fino a oggi.
Quale deve essere il ruolo dell’ospedale nella medicina di prossimità?
Qualcuno ha detto: “Bisogna rivedere il Dm 70”. Sì, è vero; ci sono alcune cose da rivedere. Io faccio parte come esperto ministeriale della commissione che si sta occupando della revisione del Dm 70. Mi permetterei di dire che prima di revisionarlo bisognerebbe averlo applicato e io non lo vedo applicato in moltissime Regioni. L’organizzazione ospedaliera ancora oggi prevede molte strutture – oltre 250 – sotto qualunque parametro di volumi ed esiti adeguati, quindi servirebbe mettere mano all’assetto organizzativo che fino a oggi è stato solo in parte rivisto. Ma quello che ancora appare più preoccupante dal mio punto di vista è l’approccio culturale e la divisione che esiste fra il mondo ospedaliero e il mondo territoriale, molte volte anche in modo contrapposto, in maniera conflittuale. Questa distanza e difformità culturale, formativa se vogliamo, tra i vari professionisti degli ospedali e del territorio – siano essi medici o operatori sanitari – andrebbe eliminata anche attraverso azioni di discontinuità. Di certo non si può riformare soltanto per aspetti normativi e giuridici: deve essere un processo più complesso, approcciato anche dal punto di vista del cambiamento di percezione, di cultura e di volontà di adeguarsi al bisogno vero della popolazione.
Non si può riformare soltanto per aspetti normativi e giuridici. Serve un cambiamento di cultura e di volontà di adeguarsi al bisogno vero della popolazione.
La formazione universitaria e lo sviluppo delle risorse umane all’interno del Servizio sanitario nazionale (Ssn) sono adeguati a pianificare e apportare i cambiamenti previsti dal Pnrr?
Da un lato l’università dovrebbe essere la parte propulsiva della nazione e non sempre lo è. Però d’altro lato nessun’altra istituzione può essere deputata in maniera formalizzata a un tale compito che per natura è proprio dell’università. Un compito che potrebbe essere svolto un po’ meglio, in particolare sugli aspetti che ho appena accennato – quelli del coordinamento e dell’integrazione tra professionisti – e sugli aspetti legati alla selezione delle attitudini delle persone e alla valorizzazione delle soft skill e, soprattutto, a una maggiore attenzione alla selezione dei più meritevoli. Ancora più grave è la situazione regionale e aziendale laddove le strutture del personale sono ancora oggi molto orientate alla gestione degli aspetti amministrazioni del personale (paghe, contributi, stipendi, rilevazione delle presenze, ecc.). Già trent’anni fa con la legge di riordino del Ssn, la 502/92, sono state introdotte nuove funzioni, sotto la voce “sviluppo risorse umane”, che però, a mio parere, sono sempre state incentrate troppo sugli aspetti burocratici e formali. Infatti, anche sulle parti variabili dello stipendio, cioè quelle relative alle posizioni dirigenziali e “organizzative” per il comparto, oppure agli stipendi di risultato e alla produttività, le strutture che si occupano di personale sono sempre più attente a rispettare il mandato letterale delle norme giuridiche o contrattuali. Dunque prevale una cultura amministrativa. Bisognerebbe investire pesantemente nello sviluppo di culture di cooperazione, coordinamento e integrazione fra ospedale e territorio – e anche all’interno delle varie strutture ospedaliere, perché anche lì molte volte ci sono più muri che ponti. Basti pensare che per la manutenzione delle apparecchiature spendiamo circa il 6-8 per cento del costo dell’apparecchiatura all’anno; per la “manutenzione” del personale i contratti prevedono l’1 per cento del monte salari e in nessuna azienda si raggiunge lo 0,5 per cento. La conseguenza è che le industrie, in maniera più o meno nobile, hanno surrogato l’ente pubblico nel finanziamento della formazione dei professionisti sanitari. Credo che in questo campo dovrebbero essere fatti dei passi in avanti, non solo per la formazione professionale specialistica ma anche, soprattutto, per quella relativa ai bisogni di integrazione tra le varie componenti organizzative della sanità pubblica, anche quell’integrazione che ha una ricaduta benefica sui cittadini. Ma spesso l’integrazione sono i pazienti o i parenti dei pazienti a doverla fare e molte poche volte la struttura pubblica che, invece, è piuttosto concentrata su sé stessa.
A cura di Giada Savini