Nei prossimi cinque anni si giocherà una partita importante: investire i 20 miliardi di euro nel Servizio sanitario nazionale previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un gruppo di studiosi di economia, management e politiche sanitarie, appartenenti a sei università, si sono confrontati sul tema e hanno prodotto un documento “Proposte per l’attuazione del Pnrr in sanità: governance, riparto, fattori abilitanti e linee realizzative delle missioni”: servirà una grande coesione di intenti, da perseguirsi con un forte impegno finalizzato a creare convergenze e collaborazione istituzionale, affinché queste risorse vengano impiegate in modo efficace e garantiscano un effettivo sviluppo di lungo periodo. Ne parliamo con uno degli autori: l’economista Francesco Longo.
I finanziamenti europei saranno sufficienti per rilanciare il nostro Servizio sanitario nazionale (Ssn)? Il successo sarà scontato?
Innanzitutto serve precisare che queste risorse sono in conto capitale e non in conto corrente. Su questo distinguo c’è un po’ di confusione cognitiva e linguistica. Da anni il nostro Ssn ha risorse contenute in conto corrente. Questo è imputabile al fatto che siamo uno dei paesi con la più lunga aspettativa di vita e con la più bassa natalità, ne deriva uno sbilanciamento tra le persone che escono da ed entrano in età lavorativa e possono contribuire al welfare. Tale condizione demografica ha concorso nell’ultimo ventennio alla scarsa crescita economica del Paese e alle poche risorse disponibili per tutti i settori pubblici dalla scuola e al trasporto pubblico fino alla sanità. Il sottofinanziamento del Ssn in spesa corrente c’è stato, c’è e continuerà ad essere tale nei prossimi cinque anni. Dal Pnrr avremo solo risorse in conto capitale, quindi finanziamenti per investire in infrastrutture, in tecnologie, nel ridisegno dei processi, e non soldi aggiuntivi di parte corrente da investire per assumere personale sanitario e per mantenere i servizi. Ergo, la logica del Pnrr è la seguente: fare investimenti infrastrutturali digitali e di ridisegno dei servizi e dei processi per aumentare la produttività di risorse di parte corrente che sono relativamente contenute. Dunque, nei prossimi cinque anni, la sfida sarà quella di investire i finanziamenti previsti per rendere le poche risorse a disposizione più produttive.
La sfida sarà quella di investire i finanziamenti per rendere le poche risorse a disposizione più produttive.
Quali condizioni devono essere soddisfatte affinché gli investimenti producano una ripresa effettiva del Servizio sanitario nazionale?
Ci vogliono tre ingredienti fondamentali. Il più importante (e anche il più negletto) è definire obiettivi e metriche. La mission non dovrà essere quante case della comunità costruire né quanti soldi spendere per l’e-health. Ma dovrà essere l’opposto, cioè dare priorità agli investimenti sulla base di metriche esplicite che tengano conto delle due grandi epidemie con cui ci dobbiamo confrontare: la cronicità da un lato e la non autosufficienza dall’altro. Il 34 per cento della popolazione è formata da cittadini con malattia cronica, in numero assoluto circa 20 milioni di italiani. Il 6 per cento non è autosufficiente, quindi 3,8 milioni di italiani circa, di cui solo 300mila in strutture. Serve quindi verificare in quale misura i servizi che abbiamo costruito hanno raggiunto gli outcome attesi: quanti cronici abbiamo preso in carico? gli esiti di salute di questi cronici sono coerenti alle aspettative? quanti fragili non autosufficienti stiamo sostenendo? e quanto le famiglie sono soddisfatte del contributo che diamo al caring che è largamente gestito dalle stesse. Quindi come prima cosa abbiamo bisogno di metriche nuove con cui misurare i nostri risultati e i nostri investimenti.
Il secondo fattore abilitante si collega alle competenze. La riforma sanitaria prevista dal Pnrr prevede nuovi servizi assistenziali e nuove funzioni per la presa in carico dei pazienti, come per esempio il controllo della compliance e programmi di literacy sanitaria. Per garantire tutto questo dobbiamo sviluppare competenze che ‒ contrariamente alla retorica del mainstream ‒ non escono già formate dall’università, neanche dalla migliore università del mondo, ma sono nuove competenze che si sviluppano in parallelo ai nuovi servizi.
Abbiamo bisogno di metriche nuove con cui misurare i nostri risultati e i nostri investimenti.
La terza grande operazione è il cambiamento progressivo delle caratteristiche dei servizi che sta avvenendo anche nell’economia generale. Lo abbiamo osservato nel retail in cui si è passati dal supermercato tradizionale ad Amazon, dalla bicicletta di proprietà al bike sharing, dall’albergo tradizionale all’air-bnb. Ora, il nostro Ssn ha bisogno di una rivoluzione nelle caratteristiche dei servizi di pari intensità. Pensiamo per esempio ai venti milioni di pazienti cronici che ogni mese devono andare a ritirare la ricetta autorizzativa routinaria; perdono tempo loro e lo fanno perdere ai medici per un atto amministrativo che non produce valore e che deve essere gestito, tra l’altro, da una figura professionale che già scarseggia nella sanità pubblica. Dobbiamo abolire questi processi a scarso o nullo valore aggiunto, e sostituirli con nuovi modelli, disegnati e pensati ad hoc come per esempio quelli per il controllo della compliance: quanto i pazienti sono aderenti allo stile di vita salutare e alle terapie. Qual è il servizio che controlla e sostiene la compliance del paziente?

Cronicità e assistenza domiciliare.
In Italia la percentuale di anziani è in continuo aumento: nei prossimi cinquant’anni più della metà della popolazione sarà over 75 e un’ampia fascia di popolazione affetta da cronicità e multimorbilità richiederà assistenza continua e un frequente ricorso alle cure. In Italia, oggi, la percentuale di persone che presentano almeno una condizione di cronicità varia dal 30 al 47 per cento, e solo il 2,7 per cento degli over 65 accede all’assistenza domiciliare con delle marcate differenze regionali.
Quali le sfide principali per attuare questa riforma in un sistema Stato, Regioni, aziende sanitarie?
Credo che le domanda ricorrente “più Stato o più Regioni? più accentramento o più regionalismo?” sia una domanda mal posta. Da anni ormai la letteratura scientifica ha dimostrato che non c’è un trade-off tra Stato e Regioni, così come non c’è un trade-off tra pubblico e privato, tra pubblico o volontariato. Per esempio il volontariato è maggiore nelle regioni italiane dove il pubblico è più forte, quali il Veneto o l’Emilia-Romagna, mentre nelle regioni in cui lo Stato è notoriamente debole, come in Calabria, il volontariato praticamente non esiste. Ugualmente, laddove il pubblico è forte e capace, il privato è altrettanto forte e capace, come ne ha dato prova sia il privato lombardo che quello emiliano romagnolo. E lo stesso vale per il rapporto Stato-Regioni. Pertanto entrambe le parti vanno rafforzate, distinguendo le competenze e le funzioni: lo Stato deve programmare, finanziare e monitorare i risultati, le Regioni devono sviluppare maggiore capacità attuative e di governo del gruppo pubblico, così come le competenze organizzative gestionali devono essere sviluppate nelle aziende sanitarie. La prima considerazione da fare è che non c’è un trade-off di nessun tipo e che l’intera filiera istituzionale deve essere sviluppata e rafforzata. La seconda considerazione è che abbiamo bisogno di soluzioni diversificate nel Paese perché diversificati sono i contesti geografici: Milano non ha nulla in comune con l’entroterra sardo, e quindi ci servono soluzioni diverse. Ma sono anche diverse le culture delle persone: in alcuni territori la digitalizzazione è attesa e data per scontata dai cittadini, in altri territori invece i cittadini preferiscono i servizi tradizionali. Inoltre, serve considerare anche che le Regioni partano da livelli diversi e i fondi andranno ripartiti a seconda delle capacità di ciascuna di esse di rispondere alle sfide poste dal Piano. In sintesi, ciò di cui abbiamo bisogno è rafforzare l’intera filiera istituzionale, distinguendo i ruoli, senza partire dal presupposto errato che ci sia un trade-off tra Stato e Regioni, e implementare soluzioni differenziate in funzione dei contesti geografici, delle culture degli utenti e anche dei punti di partenza delle situazioni date, e fare in modo che le risorse siano spese e che tutte le Regioni riescano a raggiungere i rispettivi outcome prefissati.
Dobbiamo recuperare il dibattito sul prority setting che chiama in causa il valore e l’etica di una scelta.
Per concludere, riformulando la prima domanda, un finanziamento di venti miliardi sarà sufficiente per rispondere ai bisogni di salute dell’intera collettività?
Sono dell’idea che nella retorica collettiva ci sia un punto falsamente consolatorio, una trappola dentro cui siamo caduti, e cioè che il Pnrr offra così tanti soldi che ce ne saranno per tutti, espellendo un’altra volta dal dibattito il trade-off che invece dovrebbe essere l’essenza delle politiche pubbliche. È indubbio che non riusciremo a prendere in carico nel breve periodo tutti i pazienti cronici, né tutte le persone non autosufficienti; nessun sistema al mondo ce l’ha fatta e l’Italia non sarà la prima a riuscirci. E quindi bisogna definire le priorità: chi dobbiamo prendere in carico? A chi diamo la precedenza? Da un lato abbiamo i pazienti cronici 75enni complessi con polimorbilità seguiti separatamente da più medici specialisti senza arrivare a una sintesi clinica, a cui vengono prescritti in media undici farmaci ma, come ampiamente documentato in letteratura, di questi ne assumono solo cinque o sei e, rigorosamente, a caso. Dall’altra parte abbiamo i 55enni, la metà dei quali è un paziente cronico ma ai primi stadi. Cosa è più importante nella fase di start up dell’innovazione: la grande massa di chi è agli esordi o il 75enne? Una scelta va fatta perché non abbiamo i numeri per prendere in carico 20 milioni di cronici. Lo stesso discorso vale per le persone non autosufficienti: dobbiamo occuparci dei più poveri e dei più soli oppure dei più fragili fisicamente o cognitivamente? La priorità dovrebbe essere quella di prendere atto che i trade-off ci sono e anche in abbondanza, e di recuperare il dibattito sul priority setting che chiama in causa il valore e l’etica di una scelta. Quando invece la retorica è falsamente consolatoria e dalla discussione si escludono i trade-off, non ci si interroga su quali sono gli elementi fondanti la nostra collettività ‒ un atteggiamento cognitivo che è l’humus del populismo.
A cura di Laura Tonon