Skip to main content
Ripresa/Resilienza Articoli

La Missione 6: “salute” o “servizi sanitari”?

Occorre disegnare nuovi percorsi ad hoc e nuove figure che sappiano fare network

Gilberto Turati

Professore di scienza delle finanze Università Cattolica del Sacro Cuore, Roma

By Marzo 2022Febbraio 13th, 2023Nessun commento
Fotografia di Lorenzo De Simone

Nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) sono comprese numerose azioni che, pur non rientrando strettamente nella missione 6, possono avere effetti positivi sulla salute. Perché si possa giungere a risultati efficaci sarà quindi necessario porsi l’obiettivo di fare dialogare le missioni e le diverse azioni tra di loro. Occorre però fare una premessa: bisogna distinguere “salute” da “servizi sanitari”. Salute, a rigore, è uno stato di benessere psicofisico che dovrebbe essere l’obiettivo di una serie di politiche; servizi sanitari sono il coacervo di servizi che servono per ripristinare la salute quando una persona la perde, perché si ammala, oppure che servono per prevenire l’insorgenza di determinate malattie. Da questo punto di vista la missione 6 del Pnrr dovrebbe essere una missione che riguarda i servizi sanitari, e non la salute. Servizi sanitari che, in particolare, si sono dimostrati deboli durante la pandemia. È su questi servizi che si sviluppano le due linee di azione del Pnrr per cercare di migliorare le cose. La prima linea di azione mira a sviluppare la rete di servizi territoriali, la seconda a digitalizzare il sistema. Come fare perché queste specifiche misure della missione 6 dialoghino con quelle altre misure per la salute che sono nel Pnrr? Le aree interne, il disagio sociale, le periferie che devono essere “rammendate” (come qualcuno ha provato a dire): su questo servono un po’ di idee innovative e certamente la collaborazione tra i vari attori che sono in campo (non solo per il Pnrr ma per tutte le policy nelle quali è impegnato il Paese). Se parliamo di diseguaglianze, per esempio, si potrebbe intendere una disuguaglianza di reddito, ma esiste anche una diseguaglianza di istruzione che impatta poi sulle diseguaglianze nella salute. Lo vediamo anche per covid-19: c’è un gradiente di reddito e istruzione che appare abbastanza chiaro guardando alle persone per le quali covid-19 è stata fatale rispetto alle altre, soprattutto nella prima ondata. Da questo punto di vista, prevenire l’abbandono scolastico diventa un modo per migliorare il Paese anche dal punto di vista dell’uguaglianza in termini di salute. Ma questo richiede la collaborazione delle politiche sociali, dell’istruzione e anche del Ministero della salute. Lo stesso vale per le periferie, che coinvolgono vari livelli di governo – il Comune, il Ministero dell’interno che deve presidiare l’ordine pubblico in alcune periferie – e c’è un problema di microcriminalità che va affrontato. Da questo punto di vista una delle cose che potremmo immaginare è un presidio delle forze dell’ordine, attorno al quale costruire tutta una rete di servizi sociali. Sarebbe diverso che non prima costruire, grazie al Pnrr, e poi abbandonare una piccola casa della salute in una qualche periferia urbana senza un minimo di struttura attorno.

La difficoltà del territorio è proprio quella di mettere in rete tutta quella serie di servizi che ci sono ma che non si parlano.

Mettere in network

Ma non basta, per rendere efficaci le azioni del Pnrr è importante la formazione dei nuovi professionisti sanitari. In particolare, ritengo che sia necessario formare una nuova figura che vada oltre quella del medico di medicina generale; dovremmo immaginare una specializzazione in “medicina del territorio” o qualcosa che somigli a questa dizione. Lo specializzato in medicina del territorio deve essere una figura che mette insieme le competenze nella salute e sanità, e le competenze sociali, perché la difficoltà del territorio è proprio quella di mettere in rete tutta quella serie di servizi che ci sono ma che non si parlano tra di loro. La casa di riposo fa fatica a parlare con il medico di medicina generale, che fa fatica a parlare con chi fa le diagnosi, che fa fatica a parlare con l’ospedale. Serve dunque una figura di raccordo che faccia quel lavoro che in letteratura si chiama “presa in carico del paziente”. Questa presa in carico del paziente è una cosa terribilmente complicata, perché richiede non solo competenze nuove, ma anche conoscenze di dove sono e quali sono i servizi che si hanno a disposizione in un certo territorio.

Serve una figura di raccordo che faccia quel lavoro che in letteratura si chiama “presa in carico del paziente”.

Sarebbe anche utile riflettere su una maggiore consapevolezza negli operatori della sanità sui concetti chiave dell’economia sanitaria. L’economia sanitaria si interroga su quale sia la migliore soluzione istituzionale per l’organizzazione dei servizi sanitari, a vari livelli: possiamo pensare a un livello macro, e quindi parliamo per esempio dei rapporti tra Stato e Regioni; oppure possiamo pensare a un livello micro e quindi parliamo dei rapporti tra il singolo ospedale, il singolo paziente e uno schema assicurativo, pubblico o privato che sia. Quello che mi pare di vedere, pensando agli operatori con i quali ho avuto modo di confrontarmi, è che non sempre si capiscano le “ragioni” che stanno dietro a un determinato modello organizzativo. Quindi, muovendo da questo punto di vista, penso che sia importante che anche questi operatori conoscano le ragioni di alcune scelte, facendo propri i concetti chiave dell’economia sanitaria.

Integrazione nel territorio

Il Pnrr propone inoltre di sviluppare una rete di servizi territoriali che comprendono le case della comunità e gli ospedali di comunità. Potrebbe essere legittimo domandarsi se vi sia il rischio che trasferire sul territorio e a domicilio le cure della cronicità possa aggravare le disuguaglianze. Tuttavia, ritengo che, se sapremo disegnare nuovi percorsi e nuove figure che sappiano prendersi in carico i pazienti, potremmo allontanare questa eventualità. Nel caso di una malattia degenerativa che può colpire un anziano, nelle prime fasi quello di cui il paziente avrebbe bisogno è un minimo di servizi diurni che gli consentano di restare attivo nonostante la malattia; questo potrebbe aiutarlo a trasferire nel tempo le difficoltà della stessa. In questo primo periodo, servirebbero dei servizi sociali, dei servizi diurni, che accolgano l’anziano e gli consentano di passare un po’ di ore assieme ad altre persone. Molto spesso invece questo non accade e la malattia prende a correre. È chiaro che quando si arriva ad avere l’anziano allettato, con difficoltà cognitive, questi ha bisogno per definizione di restare a casa, con qualcuno che lo aiuti. Chi lo aiuta? In alcune famiglie si riesce ad avere una badante che segue quotidianamente l’anziano; in altri casi sono necessarie cure istituzionalizzate presso una struttura residenziale che riesca a prendere la persona in carico per tutto il giorno e tutta la notte. È questa l’integrazione che va costruita e che, mancando, porta a una difficile mappatura del territorio. In alcuni casi è chiaro che non basta la badante e non basta la casa di riposo – o perlomeno non tutte le famiglie si possono permettere questi servizi – e allora è inevitabile che qualcuno all’interno della famiglia si debba far carico della persona che ha bisogno di continuità assistenziale. Da questo punto di vista, servizi di assistenza domiciliare integrata che possano aiutare e coadiuvare la famiglia negli aspetti sanitari più delicati sono oltremodo necessari, ma di nuovo fanno parte di quel set di servizi che oggi il territorio riesce a offrire solo in alcune aree del Paese, almeno in forma ancora embrionale, mentre in altre risultano assenti. 

Le aree interne

Per affrontare il tema dell’iniquità nell’accesso ai servizi in zone dove a volte non riescono neanche ad arrivare le ambulanze o dove non c’è connessione Internet è necessario anteporre una premessa. Dobbiamo distinguere tra accesso potenziale e accesso reale. Accesso potenziale vuol dire tener conto di dove sono dislocati i servizi e misurare la distanza che separa ciascun cittadino dal potenziale servizio. Accesso reale non dipende solo dalle difficoltà nell’accesso potenziale, ma dipende anche da tutta una serie di altre condizioni, per esempio il fatto che un cittadino creda o meno che sia importante per lui recarsi a fare una diagnosi. Da questo punto di vista è ovvio che se partiamo dal concetto di accesso potenziale le aree interne sono penalizzate, in questo caso si tratta di stabilire quali sono i servizi che possono essere portati nelle aree interne e quali sono i servizi che invece necessariamente richiedono uno spostamento del paziente. Se pensiamo alle grandi chirurgie, per esempio, è impensabile che si riescano ad avere ospedali così diffusi sul territorio.

Non ci sono soluzioni preconfezionate per decidere quali servizi e quali no, perché ciascun territorio ha le sue peculiarità.

Il Decreto ministeriale 70 del 2015 prevede pochi centri realmente specializzati, e questo per migliorare il benessere dei cittadini, non per peggiorarlo, perché centri iperspecializzati consentono di curare meglio i pazienti. Quali servizi invece possono essere trasportati sul territorio? Ce ne sono tanti – il check up del sangue, alcune visite diagnostiche specializzate, alcune ecografie – che possono essere spostati con équipe mobili. Non ci sono soluzioni preconfezionate per decidere quali servizi e quali no, perché ciascun territorio ha le sue peculiarità, ciascuna valle di montagna, ciascuna isola ha le sue peculiarità. Si tratta di mettere in moto la fantasia e cercare di trovare una soluzione per poter avere la possibilità intanto di affrontare le emergenze, e poi di portare i servizi che si possono spostare – che non sono di emergenza – sul territorio. L’alternativa di nuovo è spostare il paziente laddove i servizi vengono effettivamente prodotti.