- I ricercatori devono impegnarsi in studi che contino per i malati e non in ricerche utili alla propria carriera o all’industria.
- Non abbiamo bisogno delle “migliori evidenze” (best evidence), ma di quelle più rilevanti.
- La definizione delle priorità della ricerca dovrebbe seguire un corso trasparente che tenga conto delle esigenze di tutti i portatori di interesse.
- Prima di aprire nuovi fronti di ricerca è opportuno esaurire tutte le potenzialità delle ricerche già avviate.
- Occorre definire un metodo preciso per la definizione del pay back della ricerca nei confronti del Servizio sanitario nazionale.
- Se vogliamo rendere disponibili i risultati di una ricerca migliore è necessaria una nuova governance strategica della ricerca.
- I risultati della ricerca devono essere facilmente accessibili alle persone che devono prendere decisioni sulla propria salute.

Non sembra vero che siano passati dieci anni dalla scomparsa di Alessandro Liberati. Non lo è anche quando si mettono in fila le parole chiave che hanno caratterizzato la sua vita come ricercatore, decisore sanitario, docente e metodologo, paziente. Priorità, coinvolgimento dei pazienti, accesso alle informazioni di efficacia e sicurezza, valutazioni comparative utili, disallineamento tra la ricerca necessaria e quella realizzata, gestione del conflitto di interessi, solo per citarne alcune. A elencarle, queste parole chiave, oggi appaiono molto attuali nell’ottica, per esempio, di costruire un sistema di ricerca pubblico capace di accompagnare le scelte per il Piano nazionale di ripresa e resilienza in salute. È da queste considerazioni che alcuni si sono chiesti se non fosse possibile trarre da questi ragionamenti, per niente invecchiati, delle indicazioni utili al tipo di ricerca di cui oggi avremmo estremamente bisogno in sanità. L’idea che torna utile è quella di non lasciare solo il ricercatore a governare il sempre più complesso ambito della ricerca sanitaria. Tanto più difficile ed essenziale sarà produrre utili conoscenze per le nuove tecnologie e le organizzazioni sanitarie che le devono governare, tanto meno può trattarsi di un lavoro solitario e legato ai soli riconoscimenti academici e di carriera.
La lista delle parole chiave potrebbe sicuramente essere arricchita anche se un elemento appare ricorrente per il possibile successo del Pnrr: la sola disponibilità di maggiori risorse non cambierà lo stato delle cose nella ricerca sanitaria del nostro Paese a meno di non approfittare di questa situazione per introdurre delle radicali riforme strutturali e organizzative nel settore.
Antonio Addis
Dipartimento di epidemiologia
Servizio sanitario regionale del Lazio
Asl Roma 1
Gli strumenti per il buon governo della sanità
Come ci ha insegnato Alessandro Liberati, per una gestione delle risorse – umane, tecnologiche ed economiche – secondo i principi di efficacia, sicurezza, equità e sostenibilità serve conoscenza. Serve conoscere gli effetti delle scelte effettuate per comprendere quali risposte permangano inadeguate rispetto ai bisogni. Occorre saper esprimere una domanda qualificata e saper riconoscere il valore aggiunto di terapie o interventi innovativi proposti per soddisfare i bisogni del servizio sanitario.
La valutazione dei trial, le revisioni sistematiche e le linee guida sono tutti strumenti per la produzione di conoscenza basata sulla ricerca e sulla metodologia della evidence-based medicine, indispensabili per la valutazione del valore assistenziale aggiuntivo. Mentre lo strumento per la buona conoscenza della propria sanità è la ricerca sui servizi, che Alessandro Liberati ha promosso in modo pioneristico nel nostro Paese. Questo filone della ricerca è particolarmente rilevante ora che il Piano nazionale di ripresa e resilienza ha messo al centro della riforma il domicilio come luogo di cura, l’assistenza territoriale e tutti i servizi che vi ruotano intorno. Attraverso la valutazione dell’appropriatezza la ricerca sui servizi consente inoltre di individuare azioni correttive per il riequilibrio tra domanda e offerta, che abbiano un impatto maggiore delle azioni volte alla semplice riduzione delle liste di attesa. Purtroppo, però, in Italia continua ad essere la Cenerentola della ricerca come si evince anche dall’ultimo bando della ricerca finalizzata che pone grossi ostacoli ai giovani ricercatori che vorrebbero cogliere questa opportunità per condurla nelle aziende sanitarie territoriali.
L’incertezza è il motore della conoscenza e quindi della ricerca. Alessandro Liberati è stato un vero champion nella battaglia contro l’incertezza evitabile.
Un altro strumento di conoscenza è l’health technology assessment (hta) che dovrebbe essere finalizzato a fornire ai responsabili di politiche sanitarie e scelte assistenziali informazioni affidabili e scientificamente difendibili sugli effetti delle tecnologie sanitarie. Nel 2014 l’Organizzazione mondiale della sanità lo ha inserito tra gli strumenti fondamentali per garantire sostenibilità, qualità e accessibilità dei servizi sanitari universalistici. Alessandro ha lavorato in prima persona alla definizione dell’hta; inoltre ha contribuito alla fondazione di un network europeo di agenzie di hta che ha permesso di arrivare finalmente a un regolamento comune all’interno dell’Unione europea per disciplinare la materia.
L’altra faccia della medaglia
Alessandro faceva però notare che gli strumenti pensati e sviluppati per il buon governo della sanità potevano anche servire ad altri scopi. Un esempio è il concetto di unmet need, sviluppato originariamente come criterio di priority setting della ricerca e della sua governance sulla base dei bisogni cosiddetti inevasi. L’unmet need è stato presto adottato come un criterio per l’accesso accelerato al mercato, per elevare l’asticella di quella incertezza evitabile che proviene da uno studio disegnato in modo imperfetto, magari ricorrendo a un comparatore non convincente, a esiti surrogati, con follow up troppo breve ma che – proprio in virtù della logica dei bisogni inevasi – dovrebbe comunque essere giudicato sufficiente. Quindi, potremmo dire che, nonostante fosse stato considerato una premessa, il principio dell’unmet need è diventato in qualche caso un punto d’arrivo, per giustificare l’approvazione di terapie riguardo le quali restano margini di incertezza. Così che i pazienti che ne potrebbero trarre beneficio sono poco tutelati e potenzialmente a rischio maggiore. In quest’ottica, la conditional approval dev’essere sempre subordinata alla raccolta di ulteriori prove, derivanti sia da studi ancora in corso al momento dell’autorizzazione sia da studi disegnati e condotti successivamente per colmare quel gap di incertezza.
Anche i real world data erano stati pensati per valutare l’impatto a lungo tempo di una terapia sulla base dei dati che potevano essere raccolti su decine di migliaia di pazienti con lunghi follow-up, ovviando ai limiti dei trial clinici. Successivamente, però, si sono trasformati in una fonte a volte primaria di dati utili per l’accesso al mercato, anche quando la numerosità della popolazione studiata e la durata del follow-up non avrebbero giustificato la loro rilevanza.
La pandemia covid-19 ha provocato un clima generalizzato di incertezza: tutti siamo diventati reali o potenziali “pazienti di malattie rare”, con una grande angoscia e con una grande fretta di avere risposte. Fretta che a volte tende a far dimenticare la cautela con cui i sistemi sanitari devono affrontare l’incertezza. L’incertezza è il motore della conoscenza e quindi della ricerca. Alessandro Liberati è stato un vero champion nella battaglia contro l’incertezza evitabile.
Luciana Ballini
Azienda Usl di Modena
Regione Emilia-Romagna
La ricerca clinica tra ragione e passione
Unire una straordinaria lucidità e un approccio scientifico rigoroso a una grandissima passione era la caratteristica prima di Alessandro Liberati, come hanno detto già molti di quelli che hanno avuto il privilegio di collaborare con lui, lavorare con lui era un divertimento. Liberati, che ha dedicato i suoi ultimi anni alla ricerca, è famoso, tra le altre cose, per aver portato l’evidence-based medicine in Italia, per aver diffuso l’approccio critico alla valutazione degli studi clinici e per aver fondato nel 1994 il Centro Cochrane italiano. Nel 1997 gli viene diagnosticata una gammopatia monoclonale di natura incerta e decide di raccontare quello che ha chiamato “un viaggio attraverso l’incertezza” in un view point pubblicato nel 2014 sul BMJ. La diagnosi di questa malattia preclinica gli impone un fitto calendario di controlli e attese, in assenza di alcuna informazione sulla effettiva efficacia di trattamenti offerti precocemente. Finalmente, nel 2002, arriva la diagnosi definitiva e inizia anche il primo trattamento per cui erano disponibili evidenze. Successivamente si è trovato a dover decidere se proseguire, ma gli unici studi disponibili erano solo quattro e di questi nessuno aveva pubblicato i risultati in maniera completa, sebbene i ricercatori li avessero presentati in diversi convegni. Non era disponibile quindi un’analisi combinata degli studi, nessuna revisione sistematica. Perché, si domandava? Perché i risultati non erano così soddisfacenti come ci si aspettava? In questo caso, un paziente aveva tutti i diritti di conoscere l’incertezza dei risultati. Oppure perché i ricercatori avevano già abbandonato lo studio di quelle ipotesi terapeutiche per intraprenderne di nuovi su nuove ipotesi, magari anche su spinta del mercato? Ed è qui che lancia la metafora del ricercatore che, come una farfalla, vola di fiore in fiore, senza mai aver finito di sfruttare quello su cui si è posato precedentemente.
Il ricercatore è come una farfalla che vola di fiore in fiore, senza mai aver finito di sfruttare quello su cui si è posato precedentemente.
Successivamente, viene pubblicata su The Lancet la lettera più nota di Alessandro in cui lancia un appello in favore di una governance della ricerca. Sempre partendo dalla sua esperienza personale sottolinea che gli studi clinici sulla sua malattia, il mieloma multiplo, nel 2011, erano circa 1400, ma di questi poco più di cinquanta avevano la sopravvivenza come endpoint e solo in dieci questo era l’endpoint primario. Inoltre, di quei 1400 studi nessuno confrontava il nuovo farmaco con quello già disponibile. Quindi, scrive, è evidente che “non possiamo lasciare la ricerca in mano ai ricercatori, al mercato e all’accademia, ma abbiamo bisogno di una governance della ricerca”. E la sua prospettiva in questa lettera non è più solo quella del paziente e del ricercatore ma anche quella di chi ha avuto un ruolo, come vicepresidente della commissione tecnico scientifica della ricerca sanitaria del Ministero della salute, nella destinazione dei fondi per la ricerca. Si è impegnato in modo totalizzante per cercare di riorientarla in modo tale che almeno quella sanitaria rispondesse alle necessità dei cittadini, per riallineare la ricerca ai bisogni del paziente. Diversi sono i contributi che ha scritto, e che ci ha lasciato, sul tema della governance della ricerca, tuttora attuali. Ci ricorda in quegli articoli il tema degli sprechi della ricerca, l’irrilevanza dei quesiti quando si risponde a qualcosa che non serve al paziente, il ritardo nella pubblicazione o, addirittura, la non pubblicazione di risultati non graditi a chi ha finanziato la ricerca, infine la bassa qualità della scrittura degli studi che impedisce di trasferire l’eventuale innovazione nella pratica. Sottolinea le criticità del finanziamento pubblico della ricerca in Italia sostenendo che questo da solo non è sufficiente, se non governato. Anche la valutazione della qualità delle proposte di ricerca era un tema all’ordine del giorno, il ruolo della peer review e dei conflitti di interesse. “Per quanto sia importante una valutazione rigorosa delle competenze di chi propone la ricerca, della qualità scientifica e dell’originalità della proposta nella valutazione di un progetto finanziato con i fondi del Servizio sanitario nazionale, è altrettanto importante la ricaduta che quel progetto avrà sulla pratica e sulla organizzazione dei servizi” e questo lo diceva dodici anni fa. Non possiamo che condividere e rilanciare uno dei passaggi chiave di quell’articolo: “La cura più importante dei mali della ricerca del nostro Servizio sanitario nazionale può passare solo attraverso una riorganizzazione e un nuovo orientamento del modo con cui si definiscono le priorità e il rapporto tra ricerca e innovazione”.
Marina Davoli
Direttrice
Dipartimento di epidemiologia
Servizio sanitario regionale del Lazio
Asl Roma 1