Uno dei punti deboli della nostra assistenza sanitaria territoriale è la poca uniformità con cui i medici di medicina generale svolgono la loro attività e l’insufficiente integrazione della medicina generale negli altri servizi sanitari distrettuali. Un altro punto debole è lo scarso numero di medici che lavorano in gruppo, modalità che andrebbe invece incentivata e supportata. Oggi non ha più senso per il medico di famiglia lavorare da solo, senza un confronto con i colleghi e con i medici specialistici, e senza il supporto del personale infermieristico e di segreteria. È un modo di lavorare anacronistico e inefficace rispetto alla complessità, anche organizzativa, che il medico si trova ad affrontare. Una prima complessità nelle cure primarie è legata all’invecchiamento della popolazione e al suo impatto in termini di aumento della domanda di assistenza sanitaria e sociale. Spesso il paziente anziano è un paziente con più malattie croniche e più problematiche che richiedono delle risposte non solo mediche. A questo si aggiunge la complessità nel dover scegliere per quel singolo paziente la risposta migliore tra le diverse opzioni terapeutiche possibili: quale farmaco antidiabetico o antipertensivo? E in associazione a quale anticoagulante? È una complessità a partire dall’arrivo del “problema” nello studio del medico di famiglia fino alla migliore risposta da dare che, inoltre, deve essere monitorata e aggiustata nel tempo.
Le attuali forme associative di “medicina di gruppo” e “medicina di rete” della medicina generale avrebbero un ruolo cardine nella presa in carico della cronicità, nel favorire una migliore accessibilità ai servizi. Ma in Italia sono ancora poco diffuse. Lo scorso anno la Regione Piemonte ha approvato una legge per potenziarle stanziando 10 milioni di euro annui per il biennio 2021-2022. Questi serviranno per superare quel modesto 30 per cento di medici di medicina generale che oggi lavorano in una di queste forme associative, e supportarli con personale di studio. Il 60 per cento dei medici potrà disporre di personale di segreteria e il 40 per cento di personale infermieristico. L’investimento economico messo in campo impone ancora un tetto massimo che limita l’espansione di una medicina territoriale di gruppo.
Le case di comunità, ma non da sole
Le case di comunità previste dal Pnrr potrebbero fare la differenza nel favorire l’integrazione multiprofessionale e il lavoro in gruppo e nel poter rispondere ai bisogni di salute nella maniera giusta. Nelle case di comunità, i medici di famiglia e i pediatri di libera scelta lavoreranno insieme agli infermieri di comunità e di famiglia e ad altri specialisti ambulatoriali (a cui aggiungerei anche, per alcune ore alla settimana, gli specialisti ospedalieri per facilitare la continuità ospedale-territorio e viceversa).
Le case di comunità potrebbero fare la differenza nel favorire l’integrazione multiprofessionale e il lavoro in gruppo e nel poter rispondere ai bisogni di salute nella maniera giusta.
C’è dibattito su come organizzare la medicina territoriale affinché le case di comunità diventino il luogo fisico di prossimità dove i cittadini possono entrare in contatto con il sistema di assistenza sanitaria e sociosanitaria. Ma, paradossalmente, sostituire in toto gli ambulatori dei medici di famiglia con una casa di comunità ogni 40-50mila abitanti allungherebbe le distanze invece che accorciarle, soprattutto nelle aree interne e rurali ma anche in quelle urbane. In Italia il numero di assistiti per ogni medico di famiglia è di circa 1500 persone, vale a dire che servono 30 medici per assistere una comunità di 50mila abitanti e riunirli all’interno di un’unica struttura sarebbe fuorviante.
È quindi logico, come descritto nella bozza di riforma redatta dal gruppo di lavoro Agenas sull’assistenza territoriale, organizzare la medicina di base in case comunità hub & spoke per una maggiore prossimità ai servizi ed equità di accesso. In questa riorganizzazione della medicina territoriale dovrebbero essere mantenuti e potenziati gli attuali studi associati di medici di base. Questi ulteriori studi spoke, se ben attrezzati e collegati con i consultori familiari e pediatrici, servizi infermieristici e soprattutto – cosa fondamentale – i servizi sociali, garantirebbero la capillarità della medicina territoriale.
Un doppio salto di qualità
Credo, quindi, che i ragionamenti principe da fare siano da un lato mettere in rete le case di comunità con gli studi di medicina generale e dall’altro rafforzare la medicina di gruppo. A questi aggiungerei le potenzialità della collaborazione dei medici di medicina generale con gli infermieri di famiglia e comunità.
Uno dei compiti che dovrebbero assumersi sia le case di comunità sia i medici che lavorano in gruppo è l’organizzazione, oltre alla medicina d’attesa, della medicina di iniziativa. Questa prevede di non aspettare che sia il paziente ad arrivare con un problema ma di andare a cercarlo dopo avere fatto una stratificazione della popolazione sulla base dell’età e dei fattori di rischio: un modello assistenziale più idoneo per rispondere ai bisogni del singolo paziente sia in termini di prevenzione sia di gestione delle patologie croniche, in costante aumento per l’invecchiamento della popolazione.
Uno dei compiti che dovrebbero assumersi sia le case di comunità sia i medici che lavorano in gruppo è l’organizzazione, oltre alla medicina d’attesa, della medicina di iniziativa.
Questo è un lavoro che deve essere studiato, organizzato e condotto dal medico di famiglia insieme agli infermieri affinché – come viene fatto nei percorsi diagnostico-terapeutici – i pazienti possano essere seguiti a seconda del tipo di necessità. Una volta definiti insieme gli obiettivi, sarà l’infermiere a convocare il paziente in studio con gli esiti di una prima serie di esami di controllo, a monitorarne il compenso, l’aderenza alla terapia e a programmare le successive visite. Sono tutte competenze e mansioni dell’infermiere che vanno a integrare il lavoro del medico fino a quando la patologia è compensata dalla terapia e a migliorare la qualità percepita dal paziente oltre all’efficienza dell’assistenza.
Il medico di medicina generale e l’infermiere sono due elementi congiunti e non distinti che offrono una buona gestione della patologia cronica. L’attività in cui è più pregnante la loro collaborazione è quella della medicina di iniziativa.