Mettiamo per un momento tra parentesi le regole che la bioetica ci ha abituato ad abbinare alla pratica della medicina. Dimentichiamo anche come siamo soliti qualificare i comportamenti dei curanti: umani o disumani, empatici o insensibili, risalendo alle qualità morali di coloro che erogano le cure. Le regole alle quali vogliamo riferirci sono quelle della deontologia professionale; nel linguaggio quotidiano, a ciò che come cittadini ci aspettiamo da un professionista della cura, indipendentemente dai valori morali ai quali aderisce o alla qualificazione che si traduce in un aggettivo incollato alla sua persona.
Una prima osservazione: questo tipo di regole è soggetto a cambiamenti, nel tempo e secondo i contesti culturali. Partiamo da un esempio concreto: mi sento male, vado dal medico; mi visita e fa le indagini diagnostiche del caso. Al termine gli chiedo: “Dottore, che cos’ho? Quale sviluppo mi posso aspettare per la mia malattia?”. Ebbene: il medico è tenuto a darmi la diagnosi corretta e la prognosi attendibile? Le regole deontologiche del passato – un passato prossimo, non remoto! – dicevano testualmente: “Il medico può valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave e infausta, la quale dovrà essere comunque comunicata ai congiunti”. Era la formulazione del codice deontologico del 1989. Sarebbe cambiato solo nel 1995, introducendo la regola dell’informazione obbligatoria al malato, qualora la richieda. Fino a quella svolta, la doppia informazione – una al malato e l’altra ai familiari – era perfettamente legittima. E molto praticata. Viene in mente la situazione descritta dal film di Pupi Avati “Una sconfinata giovinezza” del 2010: al paziente il neurologo diagnostica solo un po’ di esaurimento, mentre alla moglie confida di nascosto che certi sintomi sono un segno sicuro di alzheimer. La regola dell’informazione al paziente sarebbe addirittura diventata una norma legale con la legge 219 del 2017: “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”. Nascondere la diagnosi al paziente ora non è più solo una scorrettezza professionale, ma addirittura un reato.
Regole confezionate ad arte
Dunque, le regole professionali cambiano. Per quanto diverse, ci muoviamo però sempre nell’ambito di norme che non scendono dall’empireo dell’etica, per consacrare valori eterni, ma sono confezionate ad arte per far funzionare in modo efficiente la pratica medica. Nel vasto mondo delle cure, che tengono insieme il tessuto familiare e sociale, quelle erogate dai professionisti sono solo una parte, ma con caratteristiche proprie. Colpisce soprattutto un loro tratto controintuitivo. Le cure professionali prescindono infatti dalla qualità morale – e più in generale dalle caratteristiche personali – della persona curata. Non è questo il criterio che regge i nostri comportamenti nella vita quotidiana. Noi siamo attenti a ciò che caratterizza le persone: familiari o estranee; meritevoli o no delle nostre attenzioni. Teniamo in considerazione anche il loro profilo morale: ce ne sono di così estranee al nostro sistema di valori che evitiamo accuratamente di frequentarle. Ebbene, ciò che ha diritto di cittadinanza nella vita normale è escluso dall’ambito delle cure professionali. Queste vanno attivate tanto verso chi riteniamo che le meriti, quanto nei confronti di chi riteniamo socialmente indegno. È uno dei tratti più nobili delle cure professionali, che chiedono al professionista di modellare il comportamento su quello della divinità che, indifferente al valore delle persone, “fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere per quelli che fanno il bene e per quelli che fanno il male” (dal Vangelo secondo Matteo 5,45). Anche senza cedere alla retorica che può portare a enfatizzare il ruolo del curante, non possiamo nascondere il carattere inusuale delle regole alle quali il professionista della cura si deve attenere.
Le cure professionali prescindono dalla qualità morale – e più in generale dalle caratteristiche personali – della persona curata.
Un cambio di paradigma
Su queste regole si è basata la fiducia del passato. Al di là delle caratteristiche personali del professionista – più o meno accogliente, più o meno disposto a coinvolgersi emotivamente o a stabilire la distanza appropriata con la persona in cura – era il fatto di esercitare la cura in quanto professionista che permetteva al cittadino di affidarsi. Anche senza conoscere le norme deontologiche, il malato aveva una nozione intuitiva delle “regole del gioco” che gli permettevano di partecipare a quella singolare partita chiamata cura. Il cambiamento delle regole, dovuto soprattutto allo scenario della promozione dell’autonomia personale introdotto dal paradigma della modernità, richiede oggi un impegno di verifica. Perché non tutti i curanti hanno interiorizzato le nuove regole.
Tutti i medici portano il camice, ma alcuni non facciamo fatica a immaginarli con parrucche settecentesche. Sono attaccati al modello del rapporto paternalista con il malato; ritengono che curare sia un impegno che coinvolge solo la loro scienza e la loro coscienza; e che le cure debbano essere fatte sul paziente, non con lui. Certe procedure burocratiche – vedi la modulistica del consenso informato – sono seguite da tutti i curanti; ma lo spirito con cui si rapportano alla persona in cura è diverso. È su questo terreno che è chiamata a prendere forma una diversa fiducia in medicina. La fiducia non si trova bell’e fatta: la si costruisce. Insieme, perché la fiducia richiede reciprocità.