La violenza maschile contro le donne non è una violenza qualsiasi. Ma perché tutta questa violenza?
Perché ancora oggi persiste un’asimmetria di potere e una discriminazione profonda che rende diversi i destini delle donne da quelli degli uomini. Nonostante gli innegabili processi di emancipazione e l’evolversi di un sistema normativo le donne nascono per essere seconde e per accudire gli altri in un mondo declinato al maschile già a partire dal linguaggio. Ma c’è anche una dimensione profondamente strutturale che non sempre viene riconosciuta: le ore di lavoro non retribuito che le donne ogni giorno offrono incondizionatamente per i compiti di cura in ambito domestico. Proprio in questa normalità del lavoro di cura si trova una delle radici delle disparità e discriminazioni di genere. La violenza nasce da questo bisogno sia culturale sia strutturale/economico di mantenere le donne in questa condizione di subordinazione, per prendersi cura degli altri.
In Italia si è formata negli anni una rete di centri antiviolenza. Quali le finalità ultime di questi centri?
La prima è sostenere e accogliere la donna vittima di violenza per accompagnarla, grazie alla relazione con le altre donne, verso un percorso di consapevolezza e liberazione per riscrivere la propria vita. La seconda ‒ ma non in termini di rilevanza ‒ è quella di porre le condizioni perché la violenza cessi, il che significa visibilizzare la violenza e nominarla per attivare un profondo radicale cambiamento culturale intervenendo alla radice del problema. E questo significa fare politica a livello locale, regionale e anche nazionale, per mettere a nudo le disfunzionalità di un sistema e intervenire su di esso affinché possa determinarsi una trasformazione, anche strutturale, verso una reale parità di genere. Noi operatrici dei centri antiviolenza ci definiamo attiviste politiche o, addirittura, agenti di cambiamento.
Dunque far uscire la violenza dal buio…
Sì, la rete nazionale di centri antiviolenza ha avuto storicamente questo ruolo importante: dare finalmente visibilità alla violenza contro le donne. Con il mio libro ‟Non è un destino” ho sentito il bisogno di uscire dalla nicchia nella quale i centri antiviolenza spesso restano e di parlare in maniera chiara e diretta attraverso le storie delle donne vittime di abusi. Dopo trent’anni di lavoro, finalmente, si riconosce che quello della violenza è un problema nazionale ‒ ma purtroppo continua a essere trattato come un’emergenza quando invece è un fenomeno radicato. La rete nazionale dei centri antiviolenza, insieme al Movimento delle donne, ha avuto il merito di avere attivato un processo di evoluzione normativa. Oggi il nostro Paese vanta diverse norme a tutela di donne e bambini. Resta però il problema che non vengono sempre adeguatamente applicate.
La lotta alle disuguaglianze di genere è un elemento fondamentale nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr)?
Diciamo che ci sono luce e ombra. Il Piano ha recepito le indicazioni date dai movimenti delle donne e dai nostri centri antiviolenza, in particolare quella di inserire l’equità di genere come priorità trasversale. Ma c’è ancora molto da fare, in particolare sul fronte delle infrastrutture sociali. Per esempio il Pnrr prevede 4,6 miliardi per “asili nido e scuole per l’infanzia”. Ma queste risorse non saranno sufficienti per raggiungere in modo omogeneo su tutto il territorio l’obiettivo Lisbona del 33 per cento di servizi educativi per i bambini da zero ai tre anni. Un altro ambito che incide sull’equità di genere e di conseguenza sulla violenza di genere è il welfare sociale per dare la possibilità alle donne di uscire dalla trappola del lavoro domestico e della cura dei familiari. Gli asilo nido e i servizi di sostegno per la non autosufficienza sono indispensabili per liberare tempi di vita e di lavoro delle donne. Anche l’intero sistema educativo sarebbe strategico, a partire dall’asilo nido, per educare le future generazioni a non riprodurre gli stereotipi e i ruoli che determinano destini diversi per i bambini e per le bambine.
Il Pnrr è una grandissima opportunità da non perdere. E le donne dovranno poterne essere protagoniste per raggiungere i risultati sperati.
Ci sono ancora dei margini di miglioramento?
Sì, ma servirà un grosso impegno nella fase esecutiva facendo attenzione a che le risorse del Pnrr si integrino con le sempre esigue risorse del Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne 2021-2023. Bisognerà vigilare affinché ci sia una progettazione attenta a integrare le diverse parti che confluiscono nel creare le condizioni per il contrasto della violenza e della discriminazione. Bisognerà fare attenzione ai divari territoriali (purtroppo potrebbe non essere così scontata la destinazione del 40 per cento dei fondi del Pnrr al Mezzogiorno) e sorvegliare sulle amministrazioni a tutela della trasparenza. Il Pnrr è una grandissima opportunità da non perdere. E le donne dovranno poterne essere protagoniste per raggiungere i risultati sperati. Senza le donne non si riparte. Noi saremo vigili, in prima linea, e ci impegneremo. Ma non è così semplice né scontato.
Cosa manca per equilibrare i poteri e per una società inclusiva? Abbiamo bisogno solo di una buona governance?
Abbiamo bisogno di valorizzare la soggettività delle donne che non possono essere sostenute come persone in difficoltà da includere. Superare la discriminazione significa essere consapevoli che ancora oggi metà della popolazione non gode degli stessi diritti come sancito dall’articolo 3 della Costituzione, ma vive una discriminazione, a partire dal linguaggio e dal persistere di stereotipi e pregiudizi. Una buona governance è utile ma non sufficiente. Perché ci sia vera democrazia c’è bisogno di adottare collettivamente ‒ uomini e donne, insieme ‒ una prospettiva di genere per riscrivere i rapporti tra i generi nel pieno rispetto delle differenze.
A cura di Laura Tonon