Il privilegio maschile condiziona molto sia l’attività di ricerca sia la disseminazione dei risultati. Nonostante in alcune realtà il numero di donne destinatarie di dottorati stia aumentando [1] i valori tra lo 0,1 per cento e lo 0,6 per cento annuo non sono incoraggianti. Solo un quarto del corpo docente universitario degli Stati Uniti nel 2006 era donna e una donna guadagnava il 20 per cento in meno di quanto percepiva un collega [2]. La differente retribuzione a parità di qualifica è talvolta più evidente nelle persone con maggiore anzianità di servizio [3]. Il salario di ingresso di un medico donna statunitense è di circa 167.000 dollari l’anno a fronte dei 200.000 destinati a un uomo [4,5]. Un professore donna di prima fascia ha una retribuzione come quella di un docente maschio di seconda fascia [6]. Il compenso diverso non è giustificato da una minore produttività clinica o scientifica [7]. Comunque sia, le donne medico aumentano: nel 1960 le donne iscritte alle facoltà di medicina erano il 6 per cento, e 50 anni dopo erano diventate il 49 per cento ed era donna il 25 per cento dei medici statunitensi attivi [8]. Il 32 per cento dei professori delle facoltà mediche era di genere femminile già nel 2004. Qualcuno parla di una professione al femminile, prevedendo un miglioramento della relazione col malato, una maggiore disponibilità all’assistenza domiciliare e più attenzione alla dimensione sociale dell’assistenza [9]. Fatto sta che i capi dipartimento danno un sostegno più forte agli allievi maschi [10] e avere dei figli continua ad essere l’ostacolo maggiore alla carriera di una donna medico [11]. C’è chi ha svolto studi per sostenere che una donna con figli è meno produttiva, preferisce il part time e va prima in pensione [12]. Opinioni, suggerite da prove di forza modesta [13].
La strada verso l’equità è ancora lunga e la valutazione di produttività e competenza professionale è un punto cruciale, perché a questo si ricorre per giustificare un’asimmetria di trattamento.
La strada verso l’equità è ancora lunga [14] e la valutazione di produttività e competenza professionale di ricercatori e medici è un punto cruciale, perché a questo si ricorre per giustificare un’asimmetria di trattamento. Differenza di produttività che comunque si riduce con l’aumentare dell’età della donna: una persona liberata da impegni extralavorativi ha un output di ricerca non condizionato dal genere [15]. Se parliamo di disseminazione della ricerca, il medical publishing ha un ruolo fondamentale.
I numeri non mentono mai
Se la presenza di donne come prime o ultime autrici sta aumentando, la differenza tra femmine e maschi è sempre evidente: era donna il 5,9 per cento nel 1970, il 29,3 per cento nel 2004 e il 37 per cento nel 2014 [16,17]. Negli ultimi cinque anni studiati, però, la situazione non solo non è migliorata ma è forse peggiorata [17]. C’è anche parecchia differenza tra una rivista e l’altra: poche donne sul New England Journal of Medicine e molte di più sul BMJ già da diversi anni fa. Le riviste del gruppo del Lancet non fanno eccezione: molte donne prime autrici, poche firme in ultima posizione [18] (vedi grafico). C’è anche la questione della segnalazione dei risultati in base al sesso o al genere, che è molto importante per la rilevanza clinica dei risultati pubblicati.
Si tratta però di indicatori che non riescono a delineare il quadro con esattezza, così che avendole chiesto un parere Ana Marušić – co-editor del Journal of Global Health e past president delle principali associazioni degli editor internazionali – risponde a sua volta con una domanda: “Come definite l’uguaglianza di genere? Quando guardo lo staff editoriale di riviste mediche come The Lancet e The BMJ, vedo che per la maggior parte gli editor sono donne. Ma sono in posizioni in cui possono condurre? Hanno rotto il soffitto di cristallo?”.
Molte disuguaglianze anche nella distribuzione dei compiti nei gruppi di ricerca, con le donne più frequentemente incaricate di svolgere compiti routinari mentre gli uomini lavorano al disegno di studio o alla stesura dell’articolo [19]. Meno di una firma su cinque è femminile negli editoriali su invito (guest editorial) [20], forse perché sono ancora poco numerose le donne con ruoli di primo piano nella medicina accademica. Anche in questo caso, non è chiaro se sia nato prima l’uovo o la gallina: le pubblicazioni contano assai per l’avanzamento di carriera e la minore visibilità o presenza delle donne non fa che rendere meno prossimo il cambiamento. Anche nel campo delle scienze ambientali le donne sono il 20 per cento dei ricercatori nella disciplina, ma firmano solo il 3,8 per cento degli articoli su invito per le “News and Views” di Nature [20].
Anche all’interno dei comitati scientifici la presenza delle donne è sottodimensionata nelle scienze biologiche e ambientali [21], in medicina generale [22] e in alcune specialità mediche [23]. Una ricerca pubblicata dieci anni fa su 16 importanti riviste internazionali mostrava che meno di un esponente su 4 del comitato era donna con una forte differenza tra la presenza femminile nei board dei periodici inglesi e canadesi (maggiore) rispetto a quelli delle riviste statunitensi [24]. È, più o meno, la regola [25]. Occorre cercare un nuovo equilibrio, per riorientare le politiche editoriali e culturali delle principali riviste scientifiche. La composizione di un comitato editoriale può indirizzare la valutazione dei contributi che pervengono alla redazione sia perché gli esponenti del board agiscono anche da revisori sia perché possono suggerire referee esterni. Studiare l’influenza di genere sul percorso di revisione critica della letteratura scientifica non è facile perché poche riviste rendono pubblico il nome dei referee. La trasparenza ha permesso studi che hanno confermato che anche la peer review è prevalentemente maschile e che i direttori di riviste di genere maschile tendono nettamente a preferire revisori dello stesso sesso [26], nonostante i revisori donna siano ugualmente disponibili di quelli maschi [27]. Nonostante le donne siano il 44 per cento dei medici statunitensi, solo il 13 per cento dei referee del New England Journal of Medicine è donna [28]. Situazione soltanto di poco migliore al Lancet: nonostante la prevalenza femminile nello staff editoriale, i revisori maschi sono molti di più [29]. Insomma, le donne sono meno frequentemente selezionate come revisori rispetto a quanto ci si possa attendere considerato il numero di articoli proposti o pubblicati da autrici donna.
Dai numeri ai fatti
Tra i molti studi condotti per esplorare questi argomenti, alcuni hanno messo in luce aspetti particolari e intriganti. In primo luogo, la presenza di donne in ruoli chiave all’interno del gruppo di lavoro rende assai più probabile che i risultati della ricerca siano stratificati per genere [30]. Gli articoli con un primo o ultimo autore di sesso maschile hanno maggiori probabilità di presentare i risultati della ricerca in modo positivo nei titoli e nei riassunti rispetto agli articoli in cui sia il primo che l’ultimo autore sono donne, in particolare nelle riviste di maggior impatto. La presentazione positiva dei risultati della ricerca è associata a citazioni a valle più numerose [31]. La maggiore sobrietà del lessico delle donne si accompagna ad un’altra evidenza: rispetto ai colleghi maschi, le donne medico ricevono dalle industrie farmaceutiche e di dispositivi medici un compenso significativamente inferiore per le stesse attività [32].
La presenza di donne in ruoli chiave all’interno del gruppo di lavoro rende assai più probabile che i risultati della ricerca siano stratificati per genere.
“Direi che le posizioni direttive, come quella di caporedattore, dovrebbero essere più aperte alle donne, per riflettere il loro contributo alla medicina” dice Marušić. “Nel mio Paese, gli studenti di medicina e i medici sono donne da molti anni. Anche nei paesi in cui gli uomini dominavano la medicina, le donne ora costituiscono la maggioranza degli studenti di medicina. Per quanto riguarda i passi avanti concreti per colmare il gap di genere nella rendicontazione della ricerca, penso che seguire le linee guida Sage dell’European association of science editors al fine di riportare le variabili di sesso e genere sia un approccio di successo. Relativamente invece alla leadership delle riviste, i proprietari e gli editori di riviste dovrebbero sviluppare un programma per arrivare a un’uguaglianza di genere, come suggerito nel ‘Gender Equality Plan’ dallo European institute for gender equality”.
Il medical publishing può fare parecchio per arrivare a un diverso equilibrio di genere traducendo in fatti concreti enunciazioni di principio quasi sempre disattese.
Il medical publishing può fare parecchio per arrivare a un diverso equilibrio di genere traducendo in fatti concreti enunciazioni di principio quasi sempre disattese. In primo luogo riconoscendo il valore della competenza a prescindere dal genere. Poi, retribuendo ugualmente il lavoro di uomini e donne. Ancora, controllando che sia giustificato il rapporto tra autrici e autori tra le firme dei lavori pubblicati e vigilando sulla correttezza della loro posizione, per contrastare la honorary authorship che in un caso su cinque assegna a un “caposcuola” (molto spesso di genere maschile) la paternità di un lavoro al quale non ha direttamente collaborato [33]. Anche un’equa composizione dei comitati scientifici delle riviste contribuisce all’equilibrio di genere, così come una bilanciata composizione dei revisori.
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Donne dietro le quinte
Ampliando lo sguardo alla ricerca in ambito di salute, la discriminazione sistematica delle donne si può considerare quadrupla: come partecipanti agli studi e come ricercatrici; quando sottomettono un progetto per finanziamento; come autrici di pubblicazioni scientifiche e vincitrici di premi per riconoscimenti scientifici; come beneficiarie della ricerca in termini di ricadute di salute, sociali ed economiche [1].
Da uno studio recente che ha incluso 1370 articoli su covid-19 – inclusi commenti, editoriali e articoli originali – pubblicati dall’inizio della pandemia a gennaio 2020, le autrici sono risultate meno di un terzo di 6722 autori. Su poco più di 1200 articoli, il 32 per cento era a prima firma di donne e il 27 per cento a ultima firma, confermando un gap di genere già mostrato per altri settori di ricerca [2]. Altri studi valutano l’autorialità di pubblicazioni sul covid-19, confermando un divario di genere persistente [3,4].
Se l’autorialità degli articoli può essere considerata un indicatore della partecipazione alla ricerca, la scrittura di editoriali è un indicatore di ruoli di leadership, secondo un gruppo di ricercatrici e ricercatori che hanno analizzato la firma di editoriali pubblicati dal 2010 al 2017 sulle cinque riviste di epidemiologia a più alto impatto – American Journal of Epidemiology, European Journal of Epidemiology, Epidemiology, International Journal of Epidemiology, Journal of Clinical Epidemiology. Di 1180 editoriali, 594 erano a firma unica, di questi uno su quattro firmato da donne, e 586 avevano due o più autori, di cui circa uno su tre aveva una donna come primo nome.
Un divario da colmare immediatamente, esortano le autrici. In particolare, la comunità di epidemiologhe ed epidemiologi e le riviste di settore devono impegnarsi per aumentare il numero di donne in posizioni editoriali, chi scrive editoriali deve considerare le donne come co-autrici, le donne devono essere maggiormente proattive quando si presenta l’occasione di rivestire ruoli di leadership.
Cinzia Colombo
Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri – Irccs
Bibliografia
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