Per molto tempo le donne sono state sottorappresentate negli studi clinici. Si partiva dall’idea sbagliata che le differenze tra donne e uomini in termini di salute si limitassero quasi esclusivamente al sistema riproduttivo. Quando invece molte patologie hanno un diverso decorso e anche i medicinali possono avere effetti dissimili. E proprio queste differenze dovrebbero essere esplorate per una assistenza sanitaria di buona qualità e più equa. Cerchiamo di capire cosa andrebbe cambiato a partire dalle riflessioni di chi lavora nel campo della ricerca clinica con ruoli diversi.
La donna è tradizionalmente sottorappresentata nella ricerca clinica. Le ragioni biologiche che suggeriscono di non arruolare la donna sono ancora giustificate?
Caterina Caminiti La partecipazione delle donne agli studi clinici rimane inadeguata e le restrizioni che limitano l’arruolamento delle donne incinte e in età fertile sono almeno in parte responsabili di questa disparità. Le ragioni biologiche generalmente addotte, quali in primo luogo i possibili danni al feto in caso di gravidanza e la maggiore stabilità della fisiologia maschile, sono oggettive e consistenti, ma non sempre giustificate, per esempio, dal reale rischio teratogeno dei farmaci in studio. Attualmente ai ricercatori è concessa una notevole libertà nel determinare quando escludere le donne in età fertile o quando imporre limitazioni alla loro partecipazione, come richiedere l’obbligo di utilizzare specifici contraccettivi. I motivi della esclusione o della limitazione spesso non vengono esplicitati, né tantomeno sostenuti da dati di studi precedenti e le restrizioni appaiono spesso sproporzionate rispetto al rischio, dovute più alla preoccupazione per le responsabilità legali di un potenziale danno arrecato alla donna o al feto che a un rischio reale. Sebbene la responsabilità sia una preoccupazione legittima, non si possono ignorare i principi di equità e di diritto di accesso alla ricerca clinica. Inoltre, l’esclusione delle donne in età fertile dagli studi clinici riduce la possibilità di generalizzare i risultati dello studio, esponendo a rischio le giovani donne che alla fine riceveranno comunque i trattamenti nella pratica senza alcuna conoscenza del rischio a cui vengono esposte.
I motivi della esclusione spesso non vengono esplicitati e le restrizioni appaiono spesso sproporzionate rispetto al rischio, dovute più alla preoccupazione per le responsabilità legali di un potenziale danno arrecato alla donna o al feto che ad un rischio reale. — Caterina Caminiti
Pertanto, è necessario passare da un processo decisionale “implicito” all’obbligo di esplicitare chiaramente nel protocollo di studio, nel foglio informativo e nella pubblicazione scientifica, le ragioni biologiche delle restrizioni e sostenerle con dati di studi preclinici, di farmacocinetica e farmacodinamica. Tale modalità è fondamentale anche per facilitare la comprensione da parte delle pazienti, supportare e migliorare il loro percorso decisionale che potrebbe portare comunque alla partecipazione consapevole a studi clinici con potenziali rischi, per motivi sia personali sia altruistici.
Ursula Kirchmayer La riluttanza nell’arruolare le donne nella ricerca clinica è comprensibile tenendo conto dello scandalo della talidomide negli anni Sessanta. Da allora è stato adottato il principio di cautela, che ha escluso alcune fasce della popolazione presumibilmente a maggiore rischio dagli studi clinici, creando delle evidenze non trasferibili sulla popolazione generale. Allo stesso tempo, nella reale pratica clinica, anche farmaci non studiati in alcune fasce della popolazione vengono prescritti in presenza di una malattia importante, lasciando la responsabilità di valutare il rischio-beneficio al medico e al/alla paziente. In questo limbo, gli studi post-autorizzativi, che valorizzano le informazioni raccolte sull’uso di farmaci nella reale pratica clinica, assumono un ruolo molto importante per completare il quadro sulla sicurezza di un farmaco in tutta la popolazione, comprese le fasce escluse dai trial.
È quindi molto importante incentivare la raccolta sistematica e dettagliata di informazioni sull’uso dei farmaci ed eventuali esiti clinici per poter generare evidenze sul rischio-beneficio di un nuovo farmaco dopo la sua immissione in commercio e attivare un monitoraggio in tempo reale. Penso per esempio alla “Sentinel initiative” della Food and drug administration.
Gli studi post-autorizzativi assumono un ruolo molto importante per completare il quadro sulla sicurezza di un farmaco in tutta la popolazione, comprese le fasce escluse dai trial. — Ursula Kirchmayer
Rita Banzi Non credo che esistano ragioni biologiche o legate agli stili di vita che giustifichino uno sbilanciamento di genere negli studi clinici. Questi dovrebbero includere popolazioni in cui la distribuzione di genere è simile a quella del target di persone che utilizzerà il trattamento nella pratica clinica. È importante leggere i dati sulle disparità di genere negli studi, rapportandole all’incidenza della patologia in esame e alla sua mortalità/morbilità per genere. Una maggiore inclusività degli studi, soprattutto quelli che valutano trattamenti destinati a una popolazione ampia composta ugualmente da uomini o donne, ha il vantaggio di generare dati più generalizzabili al contesto d’uso dell’intervento. Inoltre, studiare una popolazione più eterogenea permette di esplorare sottogruppi in cui il trattamento è più o meno attivo oppure più o meno tollerabile. Alcune condizioni poi si manifestano diversamente negli uomini e nelle donne (per esempio alcuni disturbi mentali) ed è quindi fondamentale raccogliere dati in entrambe le popolazioni. Infine, banalmente, le donne vivono più degli uomini e quindi sono tendenzialmente esposte più a lungo ai trattamenti sanitari.
Una maggiore inclusività degli studi ha il vantaggio di generare dati più generalizzabili al contesto d’uso dell’intervento. — Rita Banzi
Carmen Mazzola Dal punto di vista della ricerca, quello che l’azienda del farmaco può fare direttamente per colmare questo gap è avere un approccio dedicato già a partire dal disegno degli studi clinici, ma anche a livello preclinico valutando quelli che sono i meccanismi biologici che poi sottendono a delle manifestazioni cliniche che sono specifiche. Alla base da parte dell’azienda ci deve essere una profonda conoscenza della biologia e della genetica delle aree terapeutiche su cui fa ricerca. Partendo dalla comprensione profonda emerge quale tipologia di persona può essere affetta da quella determinata condizione e quando si riconosce che le donne sono la percentuale preminente i disegni di studio devono essere costruiti con lo stesso criterio. Se una patologia ha una prevalenza di tre a uno rispetto al genere maschile questa proporzione deve essere rispettata negli studi. Non solo. Non si possono fare indagini di ricerca sul sesso femminile e non tenere in considerazione la condizione ormonale e della fase di vita della donna, perché anche questo ha sicuramente un impatto importante sulla condizione patologica e sul possibile outcome terapeutico. Quindi bisogna partire dal ricreare la condizione quanto più vicina al real world quando si disegnano le ricerche.
Quindi bisogna partire dal ricreare la condizione quanto più vicina al real world quando si disegnano le ricerche. — Carmen Mazzola
Le ragioni economiche hanno un peso nel trattenere dall’arruolamento delle donne, ad esempio per possibili costi assicurativi, o dall’analisi stratificata per genere dei dati raccolti?
Rita Banzi Sicuramente sì. Credo che la principale causa della minore inclusione delle donne negli studi clinici farmacologici siano legate al presunto e potenziale rischio di problematiche legate a possibili gravidanze, con l’aggravio dei premi assicurativi e, in generale, alla necessità di prevedere interventi di riduzione dell’incidenza di gravidanze durante lo svolgimento dello studio. Nella mia esperienza personale ho dovuto negoziare aspetti legati alle coperture assicurative per donne in età fertile in situazioni al limite del paradosso. In un caso si trattava di uno studio sulla demenza di Alzheimer con criterio di inclusione: soggetti con età maggiore di 50 anni, quindi presumibilmente con la possibilità di includere una piccola quota di pazienti in età fertile. Nel secondo caso, si trattava di uno studio non farmacologico nei pazienti affetti da covid-19 per il quale alcune compagnie assicurative hanno rifiutato di fare addirittura un’offerta di polizza perché venivano incluse sia uomini che donne.
Cosa offre la stratificazione di genere alla ricerca clinica?
Caterina Caminiti L’analisi dei risultati per sesso e/o genere è fondamentale per migliorare l’accuratezza ed evitare interpretazioni errate dei dati. La stratificazione aumenta la probabilità di rilevare effetti significativi, chiarisce parte della variabilità inspiegabile, riduce i fattori confondenti, aumenta la riproducibilità e può ridurre il numero complessivo di esperimenti necessari. È importante integrare l’analisi dei dati per sesso e/o genere fin dalla fase di progettazione, non solo negli studi che si pongono come obiettivo principale la valutazione delle differenze di genere.
Di solito, si pensa che includere l’analisi del sesso e/o genere in uno studio richieda il doppio del numero di partecipanti. Tuttavia, questo non è sempre vero. Disegni sperimentali più efficienti possono incorporare sia il sesso sia il genere mantenendo il controllo sulla varianza. I disegni fattoriali, in cui vengono testati due fattori sperimentali con più livelli e i dati vengono raccolti attraverso tutte le possibili combinazioni di fattori e livelli, sono una di queste strategie. Ciò consente di valutare l’effetto di ciascun fattore, oltre all’interazione tra i livelli dei fattori. Per tali casi, potrebbe essere necessario aumentare leggermente le dimensioni del campione del 14-33 per cento per tenere conto del parametro aggiuntivo da stimare, ma non è necessario che venga raddoppiata la numerosità campionaria.
Cosa sta cambiando nella metodologia della ricerca clinica per raccogliere dati orientati al genere?
Caterina Caminiti Sebbene siano stati fatti progressi nei metodi di analisi del genere, rimangono diverse sfide metodologiche. Per esempio mentre il sesso è una variabile biologica ben compresa e analizzata, lo stesso non si può dire per il genere. Il genere (cioè il sesso psicosociale) è complesso e multidimensionale e le applicazioni in campo sanitario richiedono spesso la collaborazione con esperti in scienze sociali. Difatti, mancano ancora una definizione standardizzata e un metodo di misura sistematico per valutare come il genere si relazioni alla salute, anche perché il genere non si riduce facilmente a variabili che possono essere analizzate statisticamente. Alcuni ricercatori hanno tentato di rimediare a questo. Per esempio, in uno studio pan-canadese di Pelletier è stato utilizzato un indice di genere binario (mascolinità versus femminilità) costruito da sette variabili, ed è stato scoperto che l’incidenza di recidiva e morte a 12 mesi dopo la diagnosi di sindrome coronarica acuta nei giovani adulti era associata al genere e non al sesso biologico.
Altre sfide metodologiche includono l’andare oltre il binario – femminile e maschile, donne e uomini – sia nell’analisi del sesso che in quella del genere. Negli Stati Uniti, lo 0,6 per cento della popolazione, quasi 2 milioni di persone, si identifica come transgender, e più di quindici Paesi offrono una categoria del terzo sesso su documenti legali, certificati di nascita e passaporti. La ricerca deve stare al passo con il cambiamento sociale, e lo sviluppo di misure standardizzate del genere è chiaramente un’area per la quale sono necessari maggiori sforzi.
È un cambiamento che fatica a prendere corpo, perché parte dalla messa in discussione e in crisi di norme sociali, economiche, di rapporti di potere che agiscono su piani che si intersecano e interagiscono e si alimenta di pratiche altre, a cui occorre fare spazio. — Cinzia Colombo
Ulteriori sfide includono la misura di altre variabili sociali (razza, etnia, cultura, stato socio economico, ecc.) e il modo in cui queste si intersecano con il sesso e/o il genere. Il sesso e il genere sono intrecciati tra loro e non possono essere isolati da altre caratteristiche, pertanto abbiamo bisogno di modelli e metodi per comprendere queste interazioni. Rimane molto lavoro da fare per integrare sistematicamente l’analisi del sesso e/o del genere nella ricerca: dalle considerazioni strategiche per stabilire le priorità di ricerca, alle linee guida per stabilire le migliori pratiche nella formulazione delle domande di ricerca, nella progettazione di metodologie e nell’interpretazione dei dati. Per fare progressi reali, le agenzie di finanziamento, le autorità regolatorie e le riviste specializzate devono porre dei vincoli stringenti al fine di evitare che le scoperte scientifiche continuino a ignorare l’influenza del sesso/genere sulla salute, generando risultati distorti che possono danneggiare una parte della popolazione, più frequentemente le donne.
Rita Banzi Credo ci sia una migliore consapevolezza delle considerazioni di genere nella pianificazione e condizione degli studi, almeno in alcuni ambiti clinici. È importante che questa consapevolezza maturi e includa aspetti biologici ma anche sociali e psicologici, fondamentali nella definizione di identità di genere. Servono concretezza ed evidenze scientifiche anche su questo.
L’intelligenza artificiale potrebbe aiutare nell’ampliare la soglia di ammissibilità al reclutamento negli studi senza aumentare il rischio di tossicità per i partecipanti?
Ursula Kirchmayer Penso piuttosto che l’uso dell’intelligenza artificiale possa generare delle evidenze al di fuori dagli studi clinici. In particolare mi riferisco all’analisi di big data generati dai social media. Nel caso di un farmaco non sperimentato in alcune sottopopolazioni a causa di una potenziale tossicità, tracciare e analizzare scambi di informazioni sui social media potrebbe contribuire a generare evidenze relative alla sicurezza o a valutare la trasferibilità di risultati limitati a popolazioni selezionate su altre fasce della popolazione.
Qualcuno pensa sia necessario un “salto culturale”…
Rita Banzi Questo serve in generale alla società e soprattutto all’organizzazione del mondo del lavoro. Credo si dovrebbe inoltre collocare in una visione più ampia sul tema della inclusività e della collaborazione, mentre spesso è ridotto a una guerra tra i sessi che francamente mi appare poco rilevante.
Cinzia Colombo Dovrebbe trattarsi di un salto considerevole, considerando lo slancio di decenni di lotte di movimenti e di azioni di donne, nell’ambito della ricerca e non solo. Invece, è un cambiamento che fatica a prendere corpo, perché parte dalla messa in discussione e in crisi di norme sociali, economiche, di rapporti di potere che agiscono su piani che si intersecano e interagiscono e si alimenta di pratiche altre, a cui occorre fare spazio. Accanto ad azioni collettive e a interventi strutturali, necessari e fondamentali, il cambiamento si alimenta di una quotidiana azione diffusa in ambiti come l’educazione, il contesto di lavoro, le reti sociali, spazi e momenti di cura o di contatto con l’ambito medico e sanitario. Una puntualizzazione forse scontata, che però chiama in causa le condizioni in cui molte donne vivono. “Per essere sane dobbiamo essere vive” ho sentito affermare in un webinar da una collega in cui parlava di discriminazione delle donne. In Italia, secondo i dati Istat, nel 2019 sono state uccise 111 donne.
Carmen Mazzola A proposito di salto culturale, sarebbe auspicabile anche un coinvolgimento maggiore e crescente dei pazienti nella costruzione dell’agenda della ricerca e nella pianificazione degli studi clinici. Penso dunque alla donna come paziente esperta, coinvolta nella valutazione di outcome che non sono necessariamente di tipo clinico ma anche di carattere esperienziale, così da valutare tempestivamente, ancor prima del real world, il valore aggiunto dell’adozione di una terapia.
In oncologia non si riscontra il fenomeno di sottorappresentazione del genere femminile tipico di altri campi della medicina. E questo è un bene. Ma esistono altri fenomeni di sottorappresentazione che mettono in discussione la generalizzazione dei trial registrativi. — Francesco Perrone
Qual è la situazione negli studi oncologici?
Francesco Perrone Il tema della applicabilità dei risultati dai trial alla pratica clinica, una volta che un nuovo farmaco viene approvato dagli enti regolatori, è molto sentito in oncologia. Le caratteristiche dei pazienti entrati negli studi clinici giocano un ruolo fondamentale poiché se esse sono rappresentative della popolazione della pratica clinica la ragionevolezza dell’impiego del nuovo farmaco dopo la commercializzazione è maggiore. In oncologia, in realtà, non si riscontra il fenomeno di sottorappresentazione del genere femminile tipico di altri campi della medicina. E questo è un bene.
Tuttavia esistono altri fenomeni di sottorappresentazione che mettono in discussione la generalizzazione dei trial registrativi in oncologia. Per esempio è riconosciuto e dimostrato che gli studi clinici nei fatti includono una quota di pazienti anziani molto inferiore a quella che si trova nella pratica clinica; questo accade a causa di espliciti criteri di esclusione sull’età o, più spesso, a causa di criteri di selezione stringenti oppure di un approccio prudenziale da parte dei ricercatori che finiscono con l’escludere i pazienti più anziani, con il rischio che vadano incontro a effetti collaterali che probabilmente sono stati sottostimati. Questo è uno dei motivi per cui alcuni oncologi si sono impegnati a sviluppare filoni di ricerca dedicati ai pazienti anziani, mediante studi nei quali il limite di età viene applicato “al contrario” riservando le sperimentazioni ai pazienti al di sopra di una soglia di età, in genere 70 o 65 anni. Questa strategia da una parte consente di riequilibrare globalmente la rappresentazione dei pazienti anziani e dall’altra consente di condurre sperimentazioni specificamente concentrate su aspetti peculiari dell’età avanzata, quali le patologie concomitanti, le sindromi geriatriche e le conseguenti necessità di adeguare dosi e modalità di somministrazione dei farmaci.
Un’altra battaglia persa?
Oltre a una maggiore presenza delle donne negli studi clinici, emerge anche la domanda di un’agenda più vicina ai bisogni delle donne e delle persone Lgbt+.
Lavoro in sanità da più di quarant’anni. Ho sempre considerato prioritario produrre quei cambiamenti per il rispetto delle persone, a partire dal riconoscimento delle competenze e delle pari opportunità. In tutto il mio percorso professionale mi sono sempre occupata dei bisogni delle donne in più ambiti. Alla Regione Lazio ho contribuito alle linee guida per la prevenzione e il contrasto della violenza di genere contro la donna. Ora faccio parte del gruppo sulla medicina di genere dell’Istituto Superiore di Sanità. Inoltre sono presidente dell’Associazione donne operate al seno (Andos) e membro del comitato per i bollini rosa della Fondazione Onda per gli ospedali a “misura di donna”.
Riconosco che abbiamo combattuto numerose battaglie per un sistema sociosanitario e sanitario più attento alle esigenze delle donne e più rispettoso delle donne lavoratrici. Dei progressi, anche se parziali, ci sono stati. Ma con l’arrivo della pandemia c’è stata una regressione, purtroppo. Molti operatori sanitari si sono trincerati dietro le proprie competenze; nei luoghi di cura e negli ospedali è venuto a mancare l’apporto delle associazioni di volontariato. L’emergenza sanitaria ha cambiato l’ordine delle priorità e si è affievolito quel pensiero laterale che consente di valutare i bisogni di ogni singola persona inserita nel suo specifico contesto sociale qualsiasi esso sia.
Questa minore attenzione ai bisogni ha portato a una regressione del sistema. Lo evidenzia la recrudescenza della violenza che colpisce le fasce più “deboli” in quanto svantaggiate nella nostra società. A essere più deboli sono le donne, e con loro le persone che si riconoscono in altri generi in un sistema che non è più binario, o che non dovrebbe più esserlo. Lgbt+, genderfluid e altri generi rientrano nella categoria delle “minoranze” in un sistema sanitario che non si occupa di loro.
Abbiamo perso, tutti, in un sistema sociale che non garantisce equamente i diritti e non riconosce la diversità. Questa è la più grande perdita sociale di cui noi siamo gli artefici. Questo però deve essere il punto da cui ripartire.
Flori Degrassi
Presidente nazionale Andos onlus